Ho iniziato il 2025 con quello che per me resta il miglior film mai tratto da un gioco da tavolo di sempre, poi ho pensato che nella lista dei compleanni dell’anno del serpente, stando al calendario cinese, avevo un altro titolo pieno di belve pericolose come i serpenti che a suo modo, ruota intorno ad un gioco da tavolo, anche se uno immaginario come Jumanji.
A differenza di Cluedo (per altro citato da Robin Williams in una riga di dialogo del film di oggi), non potete comprare una copia di Jumanji, nato sulle pagine del libro illustrato per bambini scritto da Chris Van Allsburg nel 1981, giustamente anche il primo nome coinvolto da Peter Guber per scrivere il copione del film.
Quando la TriStar Pictures decise di produrre l’adattamento, capì al volo che ci voleva il nome giusto per attirare pubblico, nel 1995 nessuno era più caldo e amato dagli spettatori di Tom Hanks, che invece optò per continuare la sua striscia aperta di serate di febbraio da passare nominato dai tipi dell’Accademy, andando a recitare in un altro film che allunerà qui sulla Bara visto che è nella mia lista di compleanni. Altro nome secondo me molto interessante, quello di Bruce Willis, scelta strana ad una prima occhiata, lo so, ma Bruno nasceva comico e aveva una predilezione per questo tipo di ruoli, inoltre veder rispuntare Alan Parrish, novello Tarzan barbuto, alle prese con un leone (animatronico e in parte in CGI) fatto a forma di Bruce Willis, secondo me avrebbe fatto un certo effetto, ma viviamo nel migliore dei mondi possibili, quello dove Bruno è andato a giocare a Simon ordina e il ruolo di bambino grande di Alan Parrish è andato all’eterno bambino Robin Williams.
Per averlo però, la TriStar ha dovuto far sistemare la sceneggiatura che non convinceva Williams, per farlo si sono messi in tre a revisionarla, Jonathan Hensleigh, Greg Taylor e Jim Strain, il primo in particolare si è guadagnato del bel credito ad Hollywood con il successo di questo film e si è garantito la regia del seguito con The Rock e Jack Black. I paletti fissati dalla TriStar? Robin ti vogliamo bene, ma con tutte quelle bestie in CGI da far animare in post produzione, non possiamo permetterci le tue improvvisazioni. Williams accettò a patto di poter almeno improvvisare un po’ con la sua co-protagonista, Bonnie Hunt infatti ve lo dico fuori dalle zanne, vogliamo tutti molto bene a Robin Williams e ci manca tanto, ma penso che faccia molto più ridere nei contenuti extra di “Jumanji” in home video piuttosto che nel film finito, lì almeno era libero di improvvisare come da sua abitudine.
Sono piuttosto sicuro di andare in controtendenza con quello che sto per scrivere, perché “Jumanji” è un film amatissimo che diverte molto anche me, penso che sia tra quei cinque o sei titoli per cui Robin Williams è diventato un’icona e il preferito di tutti, ma se devo scegliere di guardarmi un titolo con questo attore che fa il bambino cresciuto ma non cresciuto (che poi era la sua specialità) io non ho dubbi e gli preferisco cento milioni di volte Hook, che è il film che mi viene voglia di rivedere ogni volta che mi riguardo “Jumanji” (storia vera).
Il problema di “Jumanji”, che è tale solo ai miei occhi e a ben guardare, è un non problema, consiste nel suo essere Spielberghiano o per lo meno, una puntina in meno di quello che potrebbe per esserlo pienamente, ha tutte le caratteristiche del cinema del genietto di Cincinnati: persone ordinarie in situazioni straordinarie, il punto di vista ad altezza bambino, l’avventura, l’ottimo ritmo e l’uso della CGI abbondante, nel tentativo di far progredire la tecnologia, anche se con risultati molto diversi da quelli di Jurassic Park. Infatti mi sembra abbastanza assurdo che la mia nemesi, il maledetto GIEI GIEI Abrams non abbia cercato di mettere le sue luride zampacce anche su questa proprietà intellettuale, per nostra fortuna nel 1995 il film venne consegnato nelle sapienti mani di uno che è un po’ più di un mestierante di lusso, uno che anche per iniziali, potremmo considerare il JJ giusto, ovvero Joe Johnston.
Uno che a ben guardare di tanta bella robina in odore di Spielberg ne ha diretta parecchia, e che guarda caso, sarebbe poi sbarcato anche lui su Isla Sorna. “Jumanji” è un film con paletti ben piantati nel terreno, che funziona perché una volta blindato il contratto con Robin Williams, procede ad un ritmo frenetico senza mai alzare il piede dall’acceleratore, a ritmo dei tamburi di guerra della bellissima colonna sonora di James Horner che è un’altra delle ragioni per cui “Jumanji” funziona così bene.
Il suo prologo ambientato nel 1869 determina subito il livello di pericolo, due ragazzini sotterrano una cassa da cui proviene un minaccioso rumore di tamburi e pregano l’Altissimo per il poveretto che mai la troverà. Il poveretto in questione è Alan Parrish cento anni dopo, figlio del proprietario delle imprese Parrish (una sorta di Nike che non ci ha creduto abbastanza, la gag del prototipo di scarpa da Basket mi fa sempre ridere) vessato da bulli che sono veri bulli, non solo perché lo inseguono in bici – ancora Spielberg – ma perché il pestaggio non viene mostrato per limiti di censura, ma i sanguinanti effetti sul viso di Alan sì.
Cosa può esserci di più spielberghiano di una storia che ruota intorno ad un teso rapporto tra padre e figlio? Sarà pure didascalica la scelta di far impersonare papà Samuel Parrish e il terribile cacciatore (pesantemente armato) con il cognome in odore di “Peanuts”, ovvero Van Pelt, allo stesso attore, Jonathan Hyde che diventa la personificazione della lezione paterna, gli avversari prima o poi vanno affrontati, un po’ pennarellone a punta grossa, vero, però funziona ed è la base su cui è appoggiato il romanzo di formazione di Alan Parrish, che da bambino pauroso, diventa un uomo-bambino (ha passato ventisei anni a sopravvivere, normale che recuperi dopo tutta la vita che si è perso) migliore di quello che era, un processo di maturazione e di risoluzione dei traumi che avviene in corsa, tramite l’azione e due altri bambini, Judy (Kirsten Dunst) e Peter (Bradley Pierce), che a loro volta sono passati da un lutto, ma comunque il film riesce a non perdersi in tediosi spiegoni, perché ha 104 minuti a diposizione e deve infilarci dentro più ritmo e animali possibili.
Di base Jumanji, inteso come gioco da tavolo è poco più di uno stupidissimo gioco dell’oca, lanci i dadi, vai avanti con le caselle, vince il primo che completa il giro, solo che di oche, nemmeno l’ombra, ma di ogni altro genere di bestie e minacce di tipo tropicale, quelle sì. Funziona molto bene il modo in cui il copione riesce a far durare una partita ventisei anni, aggiungendo giocatori in corso d’opera, attraverso la trovata delle pedine che si posizionano e si muovono da sole, costretti a giocare la stessa “Pericolosa partita” (ah-ah) i personaggi devono cementare le loro dinamiche velocemente, e anche quando sono poco più che spalle comiche, come l’agente di polizia “laccio bollente” impersonato da David Alan Grier, che oltre a far ridere specialmente con le sue interazioni con le dispettose SIMMIE, fornisce spesso la sempre più scassatissima auto, fondamentale per risolvere problemi logistici della trama.
Se ci mettiamo la nemmeno velata critica al controllo della armi (pagando il giusto anche un cacciatore dell’era coloniale può comprarsi un cannone a mano e potarlo subito via), “Jumanji” è essenzialmente tutto qui, ai tempi non collezionò recensioni entusiaste ma spaccò comunque i botteghini del pianeta, la sensazione, alimentata dall’ottima campagna pubblicitaria, era quella di trovarsi di fronte un grande film di avventura (vero) con rivoluzionari effetti speciali (molto meno vero), personalmente i leoni e i ragnoni animatronici mi sono sempre sembrati fighi ma anche più posticci delle scimmie in abbondante CGI, invecchiate meglio di tanta CGI contemporanea, ma non per questo bene.
Joe Johnston, il JJ giusto, veniva chiamato per gestire i film con tanti effetti speciali, qui fa la scelta saggia di mescolare trucchi vecchia maniera e CGI, forse con la seconda in vantaggio, ovviamente le trovate più artigianali sono quelli invecchiate meglio, ma la vera abilità di Johnston consiste nel tenere il ritmo altissimo, tanto che alcune soluzioni da cartone animato, funzionano proprio perché i personaggi non hanno tempo da perdere, vogliamo parlare della gag dell’accetta? Si riduce con un ultra comico sguardo in camera che non stona affatto con lo stile del film, quando altrove sarebbe risultato essere beh, una strizzata d’occhio degna dell’altro JJ, quello che giusto non lo sarà mai. Parlare male di GIEI GIEI almeno una volta al giorno: fatto!
Quando rivedo “Jumanji” sento un po’ la mancanza del Robin William più scatenato, ma la parte è talmente giusta per lui che il nostro riesce a risultare una forza della natura lo stesso, anche se poi il ruolo è più fisico della media dei suoi film, quello che mi piace molto di “Jumanji” è il modo in cui sottilmente il mondo intorno ai personaggi, sia finito zampe all’aria (la cittadina nel New England del 1995 è un postaccio con un economia in picchiata) perché Alan Parrish è scappato o comunque, non ha portato a termine quello che aveva iniziato, se ci pensate è una situazione alla Marty McFly (quindi, anche di rimbalzo, siamo ancora in zona Spielberg), nel secondo capitolo è una tragedia quando Biff crea un 1985 alternativo a sua immagine, ma come spettatori non è affatto un problema quando alla fine del primo film, Marty ne crea uno altrettanto alternativo, però a suo vantaggio, perché come spettatori lo consideriamo giusto, anzi migliore.
“Jumanji” fa la stessa cosa, finire la partita riporta tutti nel 1969 e di conseguenza, prendendo la strada lunga, permette ad Alan e Sarah di creare un 1995 alternativo migliore, un secondo ciak venuto fuori decisamente meglio per tutti i personaggi.
Inutile negare l’impatto culturale avuto dal film, da questo film è nata prima una serie tv e poi due seguiti con The Rock, per non parlare del quantitativo di meme e citazioni finite a far parte dei ricordi condivisi, quante volte nella vita siete arrivati alla fine di un anno o di una lunga e complicata situazione che vi ha quasi mandati KO, e con il sorrisone di Robin Williams avete messo la parola fine, usando l’unica possibile in quel momento?
Questo compleanno lo concluso a mia volta così, non potevo non fare gli auguri alla pericolosa partita di “Jumanji” in occasione dei suoi primi trent’anni, se sentite i tamburi, cominciate a preoccuparvi.
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