Il pazzo 2003 è stato un anno un po’ toccato per una ragione no? Sicuramente per la roba di qualità che arrivava in sala, quindi sì, è il momento di andare ad uccidere Bill (non Gates).
Forse ve l’ho già raccontata ma ormai mi conoscete, come il bersaglio della Sposa di questo film, sono un grande appassionato di fumetti con la fissa per lunghe premesse, quindi devo proprio dirvelo (ancora una volta nel caso), nel 2003 la frase «Andiamo a prenderci una birra» per me era stata sostituita con «Andiamo a vedere Kill Bill». L’ho visto due volte per conto mio e poi con la scusa di accompagnare tutti gli amici, almeno altre tre volte, ci sta, i miei amici lo sapevano della mia fissa per Tarantino e “Kill Bill”, diviso in due volumi, non solo era la somma di tutto il suo cinema fino a quel momento, ma anche di tutto il cinema che piace al buon Quentin, quindi partiamo subito dal lato negativo di questa orgia di citazioni post-moderna, che quanto si parla di QT è sempre la stessa: i suoi fan.
Ne faccio parte lo sapete, quindi posso parlare male della categoria, per quanto mi riguarda i danni imputati a Tarantino sono quasi tutti colpa dei suoi numerosi fan che prendono troppo spesso le sue parole come oro colato, per una semplice ragione, il più delle volte sono privi di curiosità, quindi “Kill Bill – Vol. 1” (e suo seguito che arriverà a breve su queste Bare) è diventato la cornucopia dei nomi da citare a caso facendo finta di conoscerli per davvero, quando invece di suo, questi 111 minuti di spettacolo erano l’occasione per allenare la curiosità, prendere appunti ed andare a cercarsi per davvero qualche film di Sonny Chiba o Gordon Liu, per scoprire “Lady Snowblood” (1973) o “La sposa in nero (1968) di Truffaut, solo per fare due titoli, invece per tanti è stata solo l’occasione di ripetere a pappagallo atteggiandosi a super cinefili, problemi (gravi) loro, da parte mia ho sempre trovato questo film una gioia.
Per certi versi è il “Revenge movie”, che omaggia i film di Kung Fu che ha la forza di piacere a quasi tutti, specialmente a chi film di questa tipologia non li guarderebbe nemmeno con gli occhi (strappati) ad un altro, non ho il minimo dubbio, anche se della coppia di cui fa parte questo capitolo è quello che mi piace di meno (storia vera), devo averlo per forza nel club dei Classidy!
Per una volta posso auto esentarmi dal raccontarvi la storia produttiva, perché tanto con Tarantino di mezzo ogni dettaglio dei suoi film diventa di pubblico dominio, già sapete che il film è stato scritto dal regista di Knoxville con in testa Uma Thurman per il ruolo principale e che i personaggi (attributi appunto a Q&U come si firmano nei titoli di coda) sono frutto delle loro chiacchierate sul set di “Pulp Fiction” (1994), non devo proprio raccontarvi niente, quindi posso concentrarmi sulla parte che conta, ovvero a che punto della sua carriera stava Tarantino nel 2003.
Se escludiamo la parentesi giocosa (e molto probabilmente già dimenticata dai più), del suo segmento di “Four Rooms” (1995), con tre film Tarantino aveva già definito poetica e stile, imponendo l’aggettivo “Tarantiniano” ad una platea di imitatori che pensavano bastasse infilare pistole, parolacce e lunghi dialoghi sulla cultura pop per fare un bel film, sono stati sfornati quintali di scempi cinematografici partendo da queste sanguinose premesse. Le iene , “Pulp Fiction” (1994) e il terribilmente sottovalutato “Jackie Brown” (1997) formano un’ideale trilogia, citazionista quanto volete, post-moderna senza sbatterlo in faccia al pubblico o per le meno, non con l’enfasi con cui lo fa “Kill Bill”, che è un tritatutto, un frullatore che facendo roteare le lame (di Hattori Hanzō) affetta tutto quello che Tarantino ci ha buttato dentro, e state pur certi che il nostro ci ha buttato dentro TUTTO il cinema che lui ama di più, senza soluzione di continuità tra quello considerato “alto” e quello “basso”, che poi è come ho sempre provato a fare anche io su questa Bara, se mai qualcuno avesse avuto dubbi sulla mia stima per il lavoro di Tarantino.
Quando ormai il pubblico del regista di Knoxville si aspettava solo più film «Cazzo vaffanculo Jack! BANG!» testa che esplode, lago di sangue, il nostro ha fatto un altro balzo quantico, prima della sua trilogia del cinema usato per decostruire la storia, composta da “Bastardi senza gloria” (2009), Django Unchained e C’era una volta a… Hollywood, il nostro ne piazza un’altra, mai identificata o battezzata per davvero, di film più giocosi, se non proprio spudoratamente pop che inizia con il film in due parti “Kill Bill”, continua con l’altrettanto sottovalutato “Grindhouse – A prova di morte” (2007) e volendo potrebbe completarsi con The Hateful Eight, anche se qui siamo un po’ al limite, ma la definizione data dallo stesso regista del suo film riassume l’operazione alla perfezione, secondo Trantino “Kill Bill” è il film che i personaggi dei suoi film andrebbero a vedere al cinema. Mi concedete ancora una piccola deviazione alla mia lunga premessa? Poi giuro che iniziamo davvero a parlare del film di oggi, giuro!
Ve la ricordate la scena del retrobottega di “Pulp Fiction” no? Quando Butch il personaggio di Bruce Willis deve scegliere un’arma, ne vaglia alcune, poi malgrado il fatto che non la sappia maneggiare come farebbe un Samurai, sceglie la più epica, la katana, perché una lama affilata al cinema può essere solo questo, epica. Anche se un po’ mi piace pensare che Butch avesse ancora negli occhi il bagno di sangue a colpi di lama perpetuato dalla bionda di Kill Bill, per un film che ha diversi meriti, anche Pop. Oltre ad aver sdoganato i vari John Wick e Atomica Bionda, dimostrando al mondo che là fuori esiste un pubblico pronto a correre in sala per film così, ha anche anticipato (ma non inventato, quel merito in campo Pop va ancora a L’impero), una certa serialità nel cinema che ancora oggi va fortissima.
“Kill Bill – Vol. 1” è cinema allo stato puro, cinema al quadrato mi verrebbe da dire, perché è totalmente, doppiamente irrealistico, ti porta nel reame dei B-Movie con una doppia introduzione, prima il logo dei mitologici Shaw Studios (quindi già un falso a suo modo) seguito dalla sigla Our Feature Presentation per mettere in chiaro l’operazione. Se poi non bastasse è un film dove la finta infermiera Elle Driver (Daryl Hannah) gira per i corridoi dell’ospedale sulle note “I nervi a pezzi” (1968) con uno split screen alla Brian De Palma (e una croce rossa sulla benda), oppure in volo verso il Giappone (rappresentato come un modellino uscito da un film di Godzilla), la sposa può tranquillamente usufruire del comodo porta Katana disposto accanto ad ogni sedile. Chiaro il giochino? Una volta stabilite le regole di ingaggio si può iniziare alla grande, ovvero facendoci patteggiare per i personaggi, in un “Revenge Movie” di solito aiuta.
Per dirvi di come stavo combinato nel 2003, “Kill Bill” è stato l’ultimo film di cui mi sono letto la sceneggiatura (era disponibile in rete) prima di vederlo, per tentare di dar sollievo ai morsi dell’attesa, ero curioso di vederlo tutto in sala quel film che avevo letto, ma soprattutto la prima scena, che tanto per ribadire la natura posticcia dell’operazione, inizia con il proverbio che ho citato a mia volta nel titolo del post, che ha una sua lunga storia, ma qui viene accreditato ai Klingon. Buio in sala, si sente una donna che ansima, i due seduti davanti a me sghignazzano pensando ad una scena d’apertura zozza, primo piano in bianco e nero sul volto massacrato di Uma Thurman, i due davanti smettono di ridere di colpo (storia vera), ecco, io come “Kill Bill” colpì in faccia la platea che nel 2003 si aspettava il “solito” Tarantino, lo riassumerei così.
Siamo al primo minuto e già arriva il primo dei tanti momenti diventati di culto del film, il monologo del cattivo fuori scena, di cui si vedono solo le mani e si sente la voce nemmeno fosse la nemesi di The Spirit, ovvero Bill all’apice del suo masochismo, poi con la solita struttura scombinata, non cronologica che a Tarantino piace tanto, vanno in scena i vari capitoli in cui la Sposa si vendica delle varie “volpine” che qui hanno tutte i nomi di serpenti velenosi, anche se di fatto sembra di guardare l’adattamento cinematografico del pilota (diventato niente), di cui parlava Mia Wallace (quindi sempre Uma Thurman) in “Pulp Fiction”, quel “Volpi Forza 5” che ora si chiama “Kill Bill” ed è pienamente cinematografico perché pieno di citazioni (come il tema di “Ironside” che in realtà Tarantino ha di sponda scippato a Cinque dita di violenza) o di auto citazioni (Uma che mima il segno del quadrato con le dita, come faceva a Travolta nel 1994) e via così.
Basta il primo (secondo) capitolo di apertura di “Kill Bill”, per creare già quintali di iconografia, non solo Tarantino regala il secondo miglior ruolo della vita a Vivica A. Fox (il primo era questo), ma volendo getta già le basi per quel “Kill Bill – Vol. 3” di cui ogni tanto parla, per non parlare del soprannome Black Mamba, che è piaciuto molto ad un certo giocatore di basket piuttosto bravino.
Il capitolo 2 (la sposa imbrattata di sangue) è quello dove Tarantino ci fa patteggiare completamente per la Sposa senza nome, almeno fino al Vol. 2, usando il suo stile per rendere iconografico ogni dettaglio, dalla Pussy Wagon agli occhiali da Elvis maniaco (vecchia fissa di Tarantino) fino a «My name is Buck and I’m here to fuck» che arriva dritta da un film di Tobe Hooper, la porzione di storia in cui diventano chiare per il pubblico le parole di Budd (Michael Madsen): «Quella donna merita la sua vendetta e noi meritiamo di morire» e quindi se vendetta deve essere, che sia grandiosa e completamente calata in questa atmosfera di cinema al quadrato, post-moderno sì, ma fatto come si deve.
Perché come un restauratore Tarantino prende un vecchio mobile e non solo lo rinfresca, ma gli trova un nuovo utilizzo, questo è un suo innegabile talento oltre che un suo merito che fin troppo spesso non gli viene riconosciuto, quindi è sensato che al mitico Sonny Chiba tocchi il ruolo dell’altrettanto leggendario Hattori Hanzo vero samurai diventato personaggio crossmediale (perdonatemi la parolaccia) anche se ora tutti lo ricordano solo per “Kill Bill”, esattamente come le tante (tantissime!) strizzate d’occhio che popolano il capitolo 5, quello ambientato in Giappone che ammettiamolo, è una gioia per gli occhi.
Dal tema di Green Hornet riconoscibile solo per le orecchie dei fanatici di Bruce Lee, fino alla famigerata tuta gialla, ecco, se dovessi riassumere gli effetti negativi dell’assenza di curiosità dei fan di Tarantino, questo sarebbe l’esempio giusto, per tutti oggi la tuta gialla è nera è quella dell’Ape Maia della Sposa di Kill Bill, quando invece è patrimonio dell’iconografia creata dal Maestro Bruce Lee, ma si sa che Tarantino con Lee ha qualche problema mai davvero risolto.
Potrei stare qui dieci giorni ad elencare TUTTE le citazioni, ma visto che appunto, Tarantino è nazional-popolare (se non mondial-popolare) non serve ricordare che il tema di Battles without honor and humanity arriva dal film omonimo del 1973, quindi veniamo agli effetti di questo lavoro post-moderno di rielaborazione del vecchio per trasformarlo in altro, più nuovo e nuovamente popolare. “Kill Bill – Vol. 1” ha rappresentato super lavoro per un mostro sacro come Woo-Ping Yuen ma anche per il talento di Zoe Bell, una delle poche stuntwoman che ha potuto fare il salto da controfigura di Uma Thurman ad attrice con il nome in cartellone, perché non esiste un singolo elemento di “Kill Bill” che non sia diventato iconico, si anche il massacro degli 88 folli, che sono meno di 88 ma considerando gli arti che lasciano a terra, forse andrebbero ricontati alla luce di quel: «Chi di voi è ancora fortunato da essere vivo, che fugga ma lasci qui gli arti che ha perso!»
La resa dei conti alla casa delle foglie blu è una delle scene d’azione contemporanea più incredibili mai viste, di fatto è l’applicazione in occidente di qualcosa che nel cinema orientale era la prassi, ma siccome in questo film tutto è portato ai massimi livelli della cultura pop e servito alla platea più vasta e variegata del mondo (quella del pubblico di Tarantino), quel massacro che inizia in piano sequenza, continua con i cavi come un Wuxia, passa dal colore al bianco e nero (e viceversa) è quello che ha messo in chiaro non solo che il cinema d’azione può essere grande cinema – coloro che amano il cinema action già lo sapevano – ma ha dimostrato che il grande pubblico quel macello di arti mozzati può amarlo, a patto di avere un personaggio per fare il tifo, infatti trovo significativo che nello stesso anno, siano usciti due film di vendetta opposti, quello ultra cesellato di Tarantino e uno anti-glorioso a parità di contenuti “pop” come “Old Boy” (2003).
Dopo un massacro come quello, come puoi tenere ancora alta l’attenzione del pubblico? Tarantino trova il modo giusto, il duello finale con la sua personale versione di “Lady Snowblood” ovvero O-Ren Ishii (impersonata da una splendida Lucy Liu) è la ciliegina sulla torta. Quando si parla di cinema post-moderno, l’esempio è il modo in cui tutto questo, Tarantino ha deciso di musicarlo utilizzando un grande esempio di musica fuori contesto, ovvero come trasformare un classico della Disco Music come Don’t let me be misunderstood di Santa Esmeralda nel perfetto tema di un grosso, glorioso B-Movie, frullatore di cultura cinematografica “alta” e “bassa”.
Ma sapete cosa vi dico? Che per quanto io ci sia sempre andato a nozze con questa Sposa (in pratica sono Tommy), il secondo capitolo è quello che mi piace anche di più, perché “Kill Bill – Vol. 1” è il film che pone le domande, che crea un’eroina iconica e Pop, mentre il secondo è quello che fornisce le risposte e che decostruisce quanto messo su nel “Vol. 1” ma ne parleremo presto, solo quando saremmo giunti alla nostra destinazione potremmo uccidere Bill (non Gates).
Sepolto in precedenza venerdì 24 novembre 2023
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Arwen Lynch ha detto:
Questo film più che un classico, è a dir poco MITICO, e ho detto tutto caro Cassy 🙂
Cassidy ha detto:
Esattamente così, davvero un classico fin dal momento in cui è uscito 😉 Cheers!