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Killers of the Flower Moon (2023): le mani che hanno ucciso l’America

Ve lo ricordate Martin Scorsese? Il regista passato dall’essere riconosciuto come uno dei più grandi registi viventi su questo gnocco minerale che ruota attorno al sole, a venire ritratto da social e dai giornalisti conniventi in cerca di facili click per i loro articoli, come un vecchio bilioso che odia lo streaming e i film della Marvel?

Il nemico pubblico numero uno di tutti i Marvel-Zombie, quelli che vanno al cinema solo per vedere l’ultimo capitolo della soap opera dei super pigiami che per altro, che due maroni, fa film che durano tre ore, ‘du palle! Anche se comunque sono meno di quelle che vi servono e che spendete per guardarvi l’ultima merdata di moda in streaming.

Bene, non è cambiato niente, se non la percezione che molto pubblico ha di quello che se la gioca con un altro paio di grandi vecchi, per il titolo di miglior regista americano vivente. Ci sarebbe molto da discutere su come la narrativa attorno a Scorsese si cambiata per motivi che ritengo più che futili, perché tanto poi le chiacchiere su “Infernet” sono persistenti ma hanno le gambe corte, alla fine sono i film a contare o almeno, su questa Bara è ancora così, lo è sempre stato.

«Martin cosa ne pensi dei film della DC?», «Sei licenziata»

L’unica cosa che è davvero cambiata è il fatto che superato da un pezzo gli ‘anta (zio Martino, classe 1942, fatevi voi i conti), ha continuato a mantenere nella sua filmografia una coerenza piuttosto granitica, ma senza avere davvero più bisogno di dimostrare niente a nessuno, infatti con i suoi film ha esplorato il noir e il tema “Gangster” in tutte le sue forme (anche quelle più satiriche con titoli come “The Wolf of Wall Street” del 2013), il tutto per portarci più volte all’origine di quello strambo Paese, non a forma di scarpa, che però influenza tutta la vita nel mondo occidentale, con “Killers of the Flower Moon” lo ha fatto ancora una volta.

Ecco, se qualcosa è cambiato non è certo Scorsese, ma l’industria attorno a lui, anche perché se The Irishman era finanziato da Netflix e per questo è stato in sala lo spazio di un mattino (letteralmente!) diventando per forza di cose un flop al botteghino, “Killers of the Flower Moon” è stato finanziato con i soldi di Apple TV+ e se non fosse per il cognome del regista e del suo eminente produttore esecutivo nonché attore, ovvero Leonardo DiCaprio (sesto film in coppia con il regista di New York e il tassametro corre), probabilmente il romanzo/inchiesta di David Grann ovvero “Gli assassini della terra rossa” sarebbe stata una miniserie in più puntate su Apple TV e comunque ve lo dico, sarebbe durato molto più dei 206 minuti di durata del film di Scorsese, perché il primo ribaltamento è avvenuto proprio in fase di stesura del copione, ma andiamo per gradi, iniziamo dai primi cinque minuti del film, quelli che ne determinano tutto l’andamento, ormai questa canzone la conoscete.

«Ti fidi di me?», «Fammi scendere immediatamente!!»

Fairfax, Oklahoma, anni venti: i membri della Nazione Osage scoprono che sotto la terra in loro possesso si cela moltissimo petrolio, Scorsese tutto questo lo racconta senza bisogno di parole, solo per immagini: tempo di sotterrare la pipa di guerra e i nativi iniziano una danza, non della pioggia ma della pioggia di soldi che sta per ricoprirli, non proprio un rito orgiastico, non come quelli di “The Wolf of Wall Street” ma quasi, per portare sullo schermo, raccontando solo per immagini, il sogno americano pronto a scivolare nell’incubo.

Qual era una delle scene madri de “Il gigante” (1956) di George Stevens? James Dean in estasi ricoperto di sangue nero della terra (petrolio? No, sangue nero della terra cit.), ed anche il mitico Dean per quell’oro nero nel film, passava i suoi bei casini, lui che era bianco, figuriamoci i nativi della Nazione Osage, che poi va ricordato, sarebbero gli americani, quelli veri, se solo gli americani, intesi come quelli bianchi, non fossero arrivati a prendersi tutto, ovviamente anche il petrolio sotto i piedi dei nativi.

Sembra uno di quei dipinti dedicati ai nativi americani, invece è l’arte di Scorsese in movimento.

Basato su eventi reali raccontati nel suo libro da David Grann, “Killers of the Flower Moon” è tutto raccontato dal punto di vista degli americani che hanno vinto, giocando sporchissimo va detto: all’indomani della fine della Prima Guerra Mondiale, lo spiantato reduce Ernest Burkhart (Leo DiCaprio) torna a casa in Oklahoma e si accasa presso il facoltoso zio William Hale (Robert De Niro, decimo film in coppia con il regista di New York e il tassametro corre) che a Fairfax è un mammasantissima.

Gli manca solo la corona a questo monarca senza trono, che dietro ad una facciata da simpatizzante ed amico degli Osage, di cui conosce la lingua, i modi, gli usi e i costumi, nasconde il suo essere un massone di alto rango, oltre che amico di quelli con il cappuccio bianco a punta tenuto sempre a portata di mano nell’armadio, vicino al fucile e alla corda da impiccagioni.

«Ehi tu Cassidy, dici a me? Ma stai parlando con me?!»

La “Nascita di una nazione” (occhiolino-occhiolino) di Scorsese, passa anche attraverso il periodo di convivenza tra bianchi e nativi, che qui come novelli parveneu sembrano aver fatto Bingo, di colpo ricchissimi vengono gradualmente eliminati uno dopo l’altro, con tutti i modi possibili, più che “Cancel culture” direi cancellazione e basta, il modo “tenero” è quello di irretire le native più piacenti, ad esempio accasandole come fa Hale con il nipote, che inizia come autista della bella Molly (Lily Gladstone, davvero bravissima) per finire a mettere su una storia d’amore che potrebbe essere anche sincera, a suo modo.

Ed è qui che questo film che ad una prima occhiata sembra un Western, perché ha i cappelli a tesa larga e i nativi, in realtà si rivela sporcato da quel noir con evidenti tracce di gangster che piace tanto a Scorsese, che opta per una messa in scena che non ha alcun bisogno di ricercare il virtuosismo a tutti i costi, nemmeno di spettacolarizzare la violenza (per tirare fuori una vecchia “accusa” mossa al regista di New York, già allora con ben poco fondamento), i vari omicidi dei nativi sono raccontati senza enfasi, spesso in campo lungo, perché così sono stati recepiti dalla società, di poco conto, vittime sacrificabili nella marcia del capitalismo americano in azione.

Da lupo di Wall Street a coyote il passo è breve.

Perché “Killers of the Flower Moon” funziona e a mio avviso anche piuttosto bene? Perché ribalta la prospettiva rispetto al romanzo di David Grann, che era tutto raccontato dal punto di vista di Mollie Burkhart e dell’agente del neonato Federal Bureau of Investigation, ovvero Tom White, il ruolo che è andato a Matt Damon Jesse Plemons e che originariamente avrebbe dovuto essere di Leonardo DiCaprio (storia vera), solo che parliamoci chiaro, quando mai sono stati gli sbirri i protagonisti dei film di Scorsese? “The Departed” (2006) e “Shutter Island” (2010) ok, ma anche lì erano personaggi tormentati con il Lato Oscuro in bella vista, ecco perché il produttore esecutivo Leo deve essersi imposto, quindi Martin Scorsese (sua prima sceneggiatura dai tempi di Silence) insieme al sodale Eric Roth hanno rigirato la frittata, se solo in fase avanzata di lettura del romanzo, l’agente Tom White scopriva la fitta rete di intrighi dietro alle morti a Fairfax, qui i colpevoli ci vengono rivelati dopo una ventina di minuti di un film che in totale, ne dura 206, trasformando quella che altrove avrebbe potuto essere una miniserie “True crime” molto più lunga di tre ore e mezza, in cinema, anzi in cinema di Martin Scorsese, brutto?

«Ehi, ma tu non sei Seamus McFly Matt Damon Leonardo DiCaprio! Però gli assomigli, soprattutto quel cazzo di cappello!» (quasi-cit.)

Parliamo dell’elefante in mezzo alla stanza, già il minutaggio fuori controllo dei film è un argomento sempre in voga su “Infernet”, considerando che la capacità di attenzione media della popolazione mondiale è ormai tarata su “Video di TikTok” siamo messi proprio male, ed è vero che molti altri film da questo punto di vista esagerano per ragioni chiare che però, non esploreremo qui perché devo andare al punto, che è quello che Stephen King scriveva su Scorsese: gli altri scrivono storie brevi, Scorsese dirige romanzi.

“La stanza di Marvin”, ventisette anni dopo.

Se pensate che le durate dei suoi film siano esagerate sulla carta, vi prego, scrivetemi nei commenti qui sotto cosa tagliereste dai suoi film, compreso “Killers of the Flower Moon”, ma fatelo solo se siete del tutto sicuri che il taglio non vada ad inficiare sulla comprensione o sulla completezza degli archi narrativi dei personaggi. Io me lo sono chiesto guardando il film, la mia risposta è stata: Niente.

Perché cosa tagli esattamente? Il rapporto tra Ernest e Mollie, che parte da quegli “Occhi da Coyote nemmeno troppo sveglio” ed evolve in una sorta di “Il sospetto (1941) di Alfred Hitchcock, con la siringa di insulina al posto del bicchiere di latte? (così vi ho detto tutto senza dirvi niente, dopo aver visto il film vi sarà chiaro), ancora una volta Scorsese dirige un romanzo e trova nei suoi fedelissimi i migliori interpreti.

Leonardo DiCaprio avrà anche fortemente voluto Ernest Burkhart al posto dell’agente Tom White perché è un personaggio con diecimila sfaccettature in più, anche se poi riesce a recitarle tutte, una prova da classico attore di Hollywood della vecchia scuola, lo guardi e ti viene in mente alcune prova stropicciate di Brando, ecco forse se dovessi trovare un difetto in “Killers of the Flower Moon” sarebbe proprio questo, di tutta la lunga e folle indagine del libro di David Grann, Scorsese decide di concentrarsi sul suo attore feticcio anzi due, visto che con De Niro mettono su una dinamica di potere, che sembra ricalcare le gerarchie dei suoi film di gangster, in un film fiume, in un film che per dirla alla King è un romanzo diretto da Scorsese, che passa dal Western al noir, passando per il film di Gangster prima di diventare un procedurale, uno di quelli che si gioca due facce note nei panni dei rispettivi avvocati, da una parte il redivivo (artisticamente parlando eh?) Brendan Fraser, opposto ad uno dei miei prediletti. Mia micro esultanza in sala alla vista di John Lithgow, il vantaggio di guardare i film, senza spulciarsi prima dieci ore di trailer e interviste prima.


Il vantaggio del non ammazzarsi di Trailer prima di andare al cinema.

Sarà forse la parte processuale quella “troppo lunga” che non aggiunge molto? Secondo me no, perché quasi tutte le indagini e i “True crime” finiscono con un processo, anche perché ancora una volta Scorsese qui piazza la zampata. Chi è che vince? Beh i vincitori facile. Ma chi sono i vincitori? Quelli che scrivono o riscrivono la storia, quelli che determinano quale sia la “narrativa” da tramandare, non è un caso quindi che la trama che Scorsese ci ha raccontato, nel finale del suo “Killers of the Flower Moon” si trasformi in narrazione, avanspettacolo, l’anticamera del cinema, quello che Scorsese conosce bene, infatti la chiosa del film e dello spettacolo finale, è proprio sulle sue spalle. Nei panni di un attore recitando un piccolo ruolo in un suo film (non è certo la prima volta, anzi) è proprio lui a dirci a chi il suo film è dedicato, quasi un modo meta-narrativo per infrangere la finzione per mettere in chiaro il messaggio. Ho trovato più riuscito il modo in cui lo ha fatto Spielberg, uno degli altri candidati per il trono di miglior regista vivente americano, ma allo stesso tempo trovo significativo che entrambe le teste, potenzialmente coronate, abbiano scelto finali in qualche modo simili per stile (ma non certo per tono, Scorsese è molto più cinico) per concludere i loro film.

Trovo ammirevole la continuità tematica di Scorsese, se nella colonna sonora del sempre troppo sottovalutato “Gangs of New York” (2002), gli U2 cantavano che queste sono le mani che hanno costruito l’America, e che spesso quelle mani erano sporche del sangue delle risse da strada su cui è stata fondata la Grande Mela (e gli Stati Uniti), questa nuovo “Nascita di una nazione” Scorsesiano ci dice che quelle mani sono sporche di sangue, anche nero della terra se necessario, una nazione, bianca e figlia del capitale, venuta a soffocarne un’altra, quella degli Osage. Questa volta Scorsese ci racconta delle mani che hanno strangolato i veri americani, portandoci ancora una volta all’origine delle idiosincrasie di un Paese che è quello che guida tutto il mondo occidentale.

La più grossa rapina dai tempi di quando gli olandesi comprarono Manhattan in cambio di un sacchetto di perline.

Martin Scorsese dirige romanzi, lo ha fatto ancora una volta e per farlo a volte, servono 206 minuti di durata, ve lo dico? Me li sono goduti tutti e come sempre con i suoi film, mi sono volati, mi sono annoiato molto di più con tante altre storie e serie in voga con tutto, che non considero nemmeno “Killers of the Flower Moon” uno dei titoli di Scorsese più riusciti, ma su questa Bara si valutano i film per quello che sono, senza l’obbligo “Infernettiano” di considerare l’ultimo titolo in ordine di uscita di una filmografia per forza il più bello o il più brutto di sempre del titolare della stessa. “Killers of the Flower Moon” dice davvero qualcosa sulla questione dei nativi americani, lontano dalle soluzioni di inclusività imposte dagli algoritmi, lo fa con il cinema, quello buono, quello che vale ognuno di quei 206 minuti e questo basta e avanza per decidere di dedicargli il vostro tempo.

Sepolto in precedenza lunedì 23 ottobre 2023

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