Come lo immaginate un Re? Magniloquente nei modi? Potente e ricco sfondato? Magari con una corona in testa? Visto che il Re delle scimmie sta per tornare al cinema in streaming, pronto a fare a cazzotti con ‘Zilla, questa Bara pilotata da uno scimmiologo (matto nella testa) come me, non può esimersi dal riempire l’attesa, infatti oggi parliamo proprio di Re.
King Kong ha un grosso problema, non mi riferisco certo alla sua leggerissima fissazione per le belle bionde un tantinello più sottodimensionate di lui, stavo pensando più che altro al fatto che si tratta di uno dei personaggi più importanti dell’immaginario occidentali, creato nel 1933 da due avventurieri prestati al cinema come Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack, da allora Kong è diventato un’icona alla pari di Dracula, oppure Rocky, ma di fatto non si è mai davvero spostato dal suo anno di nascita, perché a differenza di Godizilla, il Re dell’isola del teschio ha vissuto al cinema sempre e soltanto in rifacimenti della stessa storia, quella legata alle sue origini, Kong: Skull Island sarebbe una variazione sul tema, ma i suoi evidenti rimandi ad “Apocalypse Now” (1979), non la rendono di certo una storia originalissima.
In oriente, complice la mania per i Kaiju (anche noti come film con i mostri grossi), il nostro Kong ha vissuto una vita parallela fatta di film, apparizioni e botte con ‘Zilla, ma in occidente il Re ha vissuto saltellano da un rifacimento all’altro, cambiando intenti a seconda del nome (grosso) che ha deciso di cimentarsi nell’impresa, nel 1933 Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack avevano l’obbiettivo quasi meta cinematografico di andare alla ricerca dell’ottava meraviglia del mondo, per regalare al pubblico uno spettacolo mai visto prima, in linea di massima: missione compiuta. Negli anni ’70 invece gli obbiettivi erano altri, quantificabili in fogli verdi con sopra stampate facce di ex presidenti spirati, perché il Re con la missione di riportare Kong al cinema questa volta si chiamava Dino De Laurentiis.
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Nella foto, un gigante. L’altro invece è solo Kong. |
A dirla proprio tutta, più o meno nello stesso periodo a cercare di riportare King Kong al cinema ci stavano pensando anche i tipi della Hammer, che mollarono l’osso quando scoprirono che il nostro Dinone era in viaggio a sua volta per l’isola del teschio. Tutto quello che resta del lavoro della Hammer è uno spot televisivo, in cui Kong è stato utilizzato per vendere l’ultimo modello della Volkswagen. Sapete chi era il giovanotto che si è occupato dell’animazione di questa pubblicità? Rick “Monster Maker” Baker, futuro vincitore di sette premi Oscar per il miglior trucco e più in generale, cintura nera di scimmiologia, se vi interessa rifatevi gli occhi con la sua pubblicità che trovate qui sotto.
Rick Baker era un nome abbastanza grosso nel 1976, tanto che Dino De Laurentiis non ci pensò due volte ad arruolarlo per creare il trucco anche del suo Kong, per altro Baker anticipò Andy Serkis finendo per indossare lui stesso il costume da scimmione in molte scene del film (storia vera). Ma siccome il trucco non era abbastanza, De Laurentiis voleva il meglio su piazza anche per il reparto effetti speciali, quindi tento di fare il filo a Mario Bava, che però piuttosto che lavorare ancora con l’invasivo De Laurentiis, avanzò la scusa di non voler lasciare l’Italia, anche perché la scusa di essere malato, se l’era già giocata.
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Solo a me ricorda una scena di una poltrona per due? |
Il nome scelto fu quello di Carlo Rambaldi, serve davvero che io vi spieghi chi di chi si stratta? Gloria nazionale che arrivò a vincere l’Oscar per questo film, dividendolo insieme a Glen Robinson e Frank Van der Veer, che fecero il grosso del lavoro creando le manone di Kong, ma siccome nessuno come gli abitanti di uno strambo Paese a forma di scarpa è capace di saltare sul carro del vincitore dei premi (qualcuno ha detto Laura Pausini e Golden Globes? Ah no, forse era solo un ruggito di Kong in sottofondo), ci ricordiamo solo di Carlo Rambaldi. Con tutto il rispetto se per aver collaborato a costruire una grossa manona pelosa si è meritato un Oscar, per E.T. avrebbero dovuto dargli come minimo il Nobel, anche perché l’enorme gorilla alto 12 metri creato da Rambaldi per questo film, è stato in realtà utilizzato pochissimo, quando nel film compare Kong a figura intera, si tratta quasi sempre di Rick Baker impegnato a sudare dentro il costume (storia vera).
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Nella foto, un altro gigante. L’altro invece continua ad essere sempre solo Kong. |
Dino De Laurentiis come al solito non badò a spese, la sceneggiatura del film la affidò a Lorenzo Semple Jr. uno destinato a diventare lo scrittore di fiducia per i film prodotti da Dinone, l’idea dello scrittore è quella di un gran finale, questa volta non sulla cima dell’Empire State Building, ma su una coppia di torri Newyorkesi che nel frattempo avevano superato in altezza il celebre edificio, ma come tutti sappiamo non sarebbero (purtroppo) destinate a mantenere il primato, mi riferisco al World Trade Center, gustosamente tradotto nel doppiaggio italiano del film in “grattacieli del commercio mondiale”. Non so cosa sia più impagabile, questa traduzione oppure il fatto che il nome venga pronunciato da un Jeff Bridges che per l’unica volta, in questo film parla con la voce del Robin Hood della Disney, infatti quando il suo Jack Prescott apre la bocca, mi immagino sempre che stia per dire qualcosa tipo «Urca urca! Tirulero!».
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Il Drugo pensa a che gran tappeto verrebbe fuori da Kong. |
L’intuizione azzeccata di questa versione del film è quella di portare la storia dagli anni ’30 alla contemporaneità, uno spunto che offre anche gli unici momenti davvero creativi di una storia che per il resto, ricalca fedelmente il film di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack. Ecco perché siamo passati dall’aspirante cineasta Carl Denham, allo spietato Fred Wilson (il bravissimo Charles Grodin, che avrete visto in mille film ma probabilmente ricorderete solo per quando urlava dietro al cane Beethoven), il personaggio che rappresenta alla perfezione cosa sia cambiato tra la prima e la seconda incarnazione cinematrografica di Kong.
Merian C. Cooper sognava in grande, sognava in enorme! Voleva fare grande cinema e portare al pubblico qualcosa di mai visto, Carl Denham lo rappresentava alla perfezione nella finzione cinematografica, un uomo con un delirante sogno di gloria artistica. Nel 1976 con Dino De Laurentiis al comando della nave il sogno è molto più concreto, fare soldi, tantissimi soldi! Infatti Fred Wilson è il galoppino della Petrox, azienda petrolifera come si può facilmente intuire dal nome, alla ricerca di un nuovo giacimento di petrolio da prosciugare, perché oggi abbiamo una pandemia e il surriscaldamento globale, ma attorno al 1976, il problema più grosso degli americani era la crisi petrolifera, altro che le aspirazioni artistiche di Carl Denham! Vuoi farla muovere la Volkswagen pubblicizzata da King Kong? Bene, allora gli devi poter anche fare il pieno.
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Il cast delle grandi occasioni, pieno di facce note e ultra note. |
La spedizione in mare aperto alla ricerca dell’isola del Teschio, circondata da una nebbia eterna che non si smuove da almeno 35 anni si gioca alcune facce note, di Charles Grodin vi ho già detto tutto, il suo consulente scientifico Roy Bagley invece è interpretato da René Auberjonois, il futuro Odo di “Star Trek Deep Space Nine”, invece di litigare con i Ferenghi, qui lo ritroviamo a ipotizzare che la fitta nebbia intorno all’isola sia provocata dalle esalazioni del petrolio, anche se qualcuno non la pensa come lui.
Si tratta del clandestino, l’antopologo e primatologista Jack Prescott, interpretato dalla barba di Jeff Bridges già intento a fare le prove generali per il suo “Drugo” Lebowski, visto che s’imbarca di straforo ubriaco e molesto e con ancora addosso il dopo sbornia, sostiene che la nebbia sia il frutto dell’anidride carbonica generata dai grandi animali dell’isola. Solo uno reduce da una serata alcolica potrebbe credere che la “fiatella” mattutina di Kong possa arrivare a tale livello di inquinamento atmosferico dai!
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Il primo alito mattutino, quello che ti spettina la faccia. |
Può mancare una bionda in una storia su King Kong? Ovviamente no, Dwan, con le lettere del nome spostate volutamente rispetto al più canonico Dawn, è stata al centro di una lunga selezioni di attrici, mi immagino con enorme dispiacere da parte del povero Dino De Laurentiis che avrà dovuto supervisionare bellezze come Kim Basinger, Bo Derek e Melanie Griffith. Giornataccia eh Dino? Mamma mia che sacrificio in nome dell’arte eh?
Pare che Meryl Streep sia stata rispedita al mittente perché considerata “Troppo brutta per Kong” (testuali parole di De Laurentiis) ma io credo che tutti i coinvolti abbiamo lavorato un po’ troppo di fantasia su questa storia, quindi non prendetela come oro colato, anche perché con De Laurentiis di mezzo distinguere la realtà dalle balle sparate per promuovere il suo film non è mai stato semplice. Basta dire che secondo De Laurentiis, la prescelta per il ruolo di Dwan era una grande modella come Jessica Lange, ma come ci ha spiegato dettagliatamente Lucius, erano tutte delle gran balle inventate dal produttore, Jessica Lange faceva la cameriera prima di esordire in “King Kong”, di sicuro non è stata scelta perché sapeva recitare alla grande, ma più che altro perché in questo film è bella da tirarti via il fiato dai polmoni, il perfetto riempitivo degli striminziti vestiti che indossa per tutta la pellicola, mi dispiace se questo potrebbe suonare un po’ maschilista, ma sarebbe ipocrita non riconoscere che la futura star di mille stagioni di American Horror Story non sia stata scelta per altre ragioni. O che in questo film non sia a sua volta una meraviglia della natura.
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Se vabbè, lallero. Tanto chi la leggerà mai la didascalia. |
Anche perché la sua Dwan è una svampita bionda che arriva a bordo di una nave strapiena di marinai, su una scialuppa di salvataggio, salvata a sua detta dal non aver voluto guardare “Gola profonda” con un tale di nome Harry quando la sua barca è misteriosamente esplosa. Dwan salvata da un film porno era in viaggio per Singapore dove avrebbe dovuto esordire come attrice, chiamatemi pure mal pensate, ma tutto mi lascia intendere che il film che l’avrebbe vista come protagonista, non sarebbe stato proprio “Quarto potere”.
Si perché fregandosene del 1968 e dell’emancipazione femminile, pronta ad esplodere anche al cinema di lì a pochissimo, Dwan qui è la damigella in pericolo, la biondina scema che predica di oroscopi e che per misteriosi motivi, su una nave piena di marinai, non solo trova abiti femminili per vestirsi, ma non viene infastidita da nessuno nemmeno quando si aggira in shorts e canottiera, che poi è proprio l’abitino scelto dalla bionda per sbarcare sull’isola. Non so voi, ma se dovessi mettere piede su Skull Island lo farei solo dopo una vestizione degna di John Matrix, ma non credo nemmeno che basterebbe a sopravvivere in un posto così pericoloso, altro che pantaloncini e canottiera!
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Vestita così non ti difendi nemmeno dalle zanzare. |
Con Dino De Laurentiis, padre e padrone in tutte le produzioni da lui finanziate, diventa spesso secondario parlare del regista, questo film è stato proposto a Steven Spielberg ma anche a Sam Peckinpah, che malgrado fosse alla disperata ricerca di un successo al botteghino, preferì il fronte russo a De Laurentiis (storia vera). Il prescelto alla fine fu John Guillermin che reduce da “L’inferno di cristallo” (1974) poteva anche dirigere Kong sul tetto del World Trade Center grattacielo del commercio mondiale.
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Il gorilla sul tetto (del grattacielo del commercio mondiale) che scotta. |
Il “King Kong” del 1976 è un film diligente, l’arrivo sull’isola, la cerimonia dei nativi, l’enorme muro per tentare di contenere la furia di Kong e il nostro irsuto eroe che entra in scena molto in là nel corso del film, insomma tutto come da manuale. Ma in un film dove la protagonista parla di film porno e sculetta tra i marinai è quasi normale che il secondo atto sia quasi interamente dedicato alla grande passione di Kong, che ama moltissimo due cose nella vita: essere venerato come una divinità sulla sua isola è la seconda.
La stessa Jessica Lange si ritrova a recitare battute come «Kong è una cosa assurda quella che vuoi», mentre il gorillone cerca di strapparle i vestiti. Insomma se con Fay Wray il nostro era stato altrettanto esplicito ma un pochino più discreto, qui è chiarissimo che al nostro Kong gli ormoni sono impegnati a tirare sgommante nei piazzali, infatti solo l’intervento di Jack Prescott e di un enorme serpente gigante con cui Kong si ritrova a lottare (una chiara metafora della sua erezione sprecata), salvano Dwan da un destino simile a quello del giovane giudice con la toga cantato nella mia canzone preferita di Fabrizio de Andrè.
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«Di un po’ biondina, a te piace Faber?» |
Per frenare l’ormone di Kong servono fiumi di cloroformio e qui la versione del 1976 ci regala una spiegazione su cui Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack avevano tagliato corto nel 1933, ovvero come fai a riportare a New York un bestione alto dodici piani? Via nave ovviamente.
Tutta la metafora sullo sfruttamento capitalistico, sulla scimmia, Re nella sua terra pseudo-Africana nella forma e in catene come uno schiavo negli Stati Uniti, in questa versione del film viene data un po’ per scontata, a Dino De Laurentiis interessa sfruttare Kong per fare tanti bei soldoni, il fatto che Fred Wilson lo faccia esibire in un indegno spettacolo con un’inguardabile corona sulla testa, mi sembra in linea con il film che nell’ultimo atto invece di risultare gigantesco, funziona, ma è tutto sommato modesto.
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L’unico re con la corona, che avrebbe preferito restare senza. |
La furia di King Kong mentre distrugge un treno in corsa è diventata un classico dei parchi di divertimento a tema cinematografico, ma la sua arrampicata sul tetto del World Trade Center grattacielo del commercio mondiale, risulta molto più memorabile nella locandina del film piuttosto che nella scena finale del film.
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Anche Kong si esalta per le esplosioni nei film come facciamo noi. |
Costato 24 milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti, “King Kong” portò a casa 52 milioni (80 nel mondo), un film che tutto sommato ricordo perché da bambino la mia passione per le scimmie (e qualche passaggio televisivo del film) avevano attratto la mia attenzione, ma malgrado i nomi coinvolti la vera magia della storia di King Kong è ancora tutta nel film del 1933, che risulta ben più moderno di questa versione in cui l’unico Re, era lo scatenato Dino De Laurentiis, la sua campagna promozionale del film lo ha visto impegnato su tutti i fronti, talmente onnipresente che il 22 gennaio del 1977, durante una puntata del Saturday Night Live, persino John Belushi (intervistato dal compare di sempre Dan Aykroyd), si lanciò in una parodia di Dinone nostro impegnato a ripetere la sua frase simbolo: «When Kong die, everybody cry».
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Siamo in missione per conto di Kong (quasi-cit.) |
Ho visto svariate volte questo film, ma più che la stessa ammirazione di Kong per le grazie di Jessica Lange, non trovo altri veri motivi di interesse, un altro scimmiologo di fama come Peter Jackson, intervistato una volta ha dichiarato: «Se da bambino avessi visto il King Kong del 1976 e non quello del 1933, ora di mestiere farei l’idraulico». Mi sento di sottoscriverlo e della carriera del mancato idraulico, parleremo la prossima settimana, lo so che è parecchio che attendavate un post su quel film, l’attesa è quasi finita, ancora qualche giorno.