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King Kong (2005): act of love

Nuova Zelanda, anno 1973. Sul televisore di casa Jackson viene trasmesso un classico, il King Kong del 1933 di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack, il piccolo di casa Peter rimane ipnotizzato davanti allo schermo e sul finale, apre le cascate, quando Kong muore il ragazzino di dodici anni piange come un vitello, anzi, come un cucciolo di scimmia. È l’inizio di una passione bruciante e di numerosi grattacapi per i suoi genitori.

Armato di cinepresa Super8, il giovane Peter Jackson ha provato a ricreare il film visto in televisione, costruendo di suo pugno un modellino di King Kong fatto di gomma, filo di ferro e parti della pelliccia di sua madre, che immagino non abbia preso benissimo la creatività del figlio (storia vera). Ma questo era solo l’inizio, da qui in poi la passione di Pietro Di Giacomo per King Kong è solamente peggiorata, lo scantinato di casa Jackson è stato consacrato all’arte e all’ossessione del ragazzo, che crescendo passava il tempo a creare costumi da scimmia, solo per poi indossarli, spuntando di nascosto dai cespugli lungo la strada, divertendosi a filmare le reazioni dei passanti alla vista di un enorme gorilla (storia vera). In base al suo stile di regia, ho sempre considerato Peter Jackson il quinto fratello Raimi, quello disperso in Nuova Zelanda, ma considerando la mania per i travestimenti da scimmia, penso a “Slok” (1973) e forse un grado di parentela Jackson, deve averlo anche con John Landis, altro scimmiologo DOC.

Guardi Kong da bambino e cresci facendo film con i pupazzi.

Lo scantinato di casa Jackson diventa il laboratorio del dottore pazzo, in cui il regista ha sperimentato tutto quello che sarebbe tornato in maniera massiccia nel suo cinema, pare che Pietro Di Giacomo lavorasse sotto gli occhi (otto per la precisione) attenti di un grosso ragno che aveva fatto il nido in un angolo del sottoscala, diventato l’ispirazione per Shelob in “Il signore degli anelli”, ma tutta l’esperienza accumulata nel costruire costumi da scimmia, gli ha permesso di esordire con due horror totalmente artigianali, “Bad taste” (1987) e Splatters – Gli schizzacervelli“, dove per altro la scimmia che dava il via all’infezione zombie, arrivava proprio da Skull Island, la stessa isola di King Kong, perché parafrasando il titolo di uno dei film con lo scimmione come protagonista, Peter Jackson è un figlio di Kong, anche se suona un po’ come un insulto. Senza il film del 1933 visto quella sera sulla televisione di casa, Pietro Di Giacomo nella vita avrebbe fatto altro, tanto che lo ha apertamente dichiarato: «Se da bambino avessi visto il King Kong del 1976 e non quello del 1933, ora di mestiere farei l’idraulico».

Tutta la filmografia di Jackson è una mappa geografica con indizi per raggiungere l’isola del teschio.

Non so quanti registi nella loro carriera possano dire di aver diretto il loro film della vita due volte, perché l’enorme successo al botteghino e gli Oscar, hanno reso mitologica tutta la narrativa che lega Peter Jackson alla sua passione per i romanzi di Tolkien, ma “Il signore degli anelli” è stato il piano B di Pietro Di Giacomo, che dopo i buoni risultati di Creature del cielo e quella divertente marchetta che risponde al nome di “Sospesi nel tempo” (1996), gironzolava di studio in studio in cerca di finanziatori. A tutti mostrava la sceneggiatura che aveva scritto per “Il signore degli anelli”, ma tanto per essere sicuro, si portava dietro anche il suo modellino costruito di suo pugno di King Kong (storia vera).

A metà degli anni ’90 il vento ha cominciato brevemente a tirare in direzione dei rifacimenti dei classici, a Peter Jackson venne proposto di rifare “Il mostro della laguna nera”, un progetto che al regista interessata il giusto e che John Carpenter ha provato a concretizzare senza successo. Jackson più ossessionato di Carl Denham sognava soltanto Kong, ma il rifacimento del film originale finisce nelle capaci mani dell’altro “scimmiologo” già citato, ovvero John Landis, quindi Jackson mette momentaneamente da parte il modellino di Kong e rimette mano al libro di Tolkien, anche perché c’è vero interesse per portare al cinema “Il signore degli anelli”.

Secondo voi chi stava immaginando di essere in questo momento?

Fine della corsa? No, perché il remake di Landis procede in salita e finisce per sfumare, mentre la pre-produzione del film tratto da Tolkien si perde nel bosco Atro dei diritti di sfruttamento, Jackson ha la possibilità di saltare a bordo sull’ultimo cargo in partenza per Skull Island e ovviamente ci si butta a capofitto. Vola sul set di Titanic, per convincere Kate Winslet (che aveva già lavorato con lui in “Creature del cielo”) ad essere la sua Ann Darrow, mentre si parla di Clooney e De Niro per i ruoli principali maschili, non quelli da gorilla eh? Altro giro, altra doccia gelata, all’orizzonte ci sono il “Godzilla” di Emmerich e “Il grande Joe” (1998) uscito lo stesso anno, inoltre la 20th Century Fox minaccia il remake di Il pianeta delle scimmie. Troppe scimmie e mostri in giro, il progetto di riportare King Kong al cinema finisce nuovamente in soffitta e Peter Jackson parte per la terra di mezzo. Il resto come si dice in questi casi, è storia (del cinema).

Dopo “ventordici” premi Oscar, un gazillione di miliardi di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti portati a casa, con tre film di Hobbit, elfi e anelli, non esiste una singola forza competente sul pianeta in grado di divere Peter Jackson dal suo sogno di riportare King Kong al cinema, questa volta alle sue condizioni. Con la sua collaudata squadra di tecnici, con tutti i soldi del mondo e soprattutto con nessun limitazione in termini di creatività e minutaggio. A 44 anni Peter Jackson può finalmente realizzare il suo sogno d’infanzia, quello per cui si è preparato per tutta una vita, il risultato non può che essere un atto d’amore, come in un pezzo di zio Neil Young suonato insieme ai Pearl Jam sotto copertura.

Nella vita trovate qualcuno che vi guardi come Pietro Di Giacomo guarda Kong.

Il destino di King Kong al cinema è sempre stato legato ai remake, Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack avevano un grande sogno cinematografico, mostrare al pubblico qualcosa che nessuno aveva mai visto prima, ci sono riusciti alla grande nel 1933 facendo la storia. Dino De Laurentiis sognava in grande, ma soprattutto sognava ad un grande conto in banca, il suo Kong – perché tanto il regista per quanto bravo, era una marionetta in mano sua – era nato per essere una macchina macina soldi, l’intento era piuttosto chiaro. Peter Jackson decide di raccontarci per la terza volta la stessa storia delle origini di Kong, la favola della bella e il gorilla la bestia proprio come l’aveva vista, per non dire vissuta lui, nella sua testa di dodicenne.

Ecco perché la sua versione del film dura, credo tredici giorni, per iniziare a vedere il “King Kong” di Peter Jackson è meglio tenersi a portata di mano cibo, bevande, vettovaglie, un fuoco da campo, una tenda da campeggio e magari anche un pappagallo, non uno di quelli con le piume. Se il film del 1933 dura 100 minuti, Pietro Di Giacomo fa lievitare la sua versione fino a 187 minuti, che diventano 200 (esattamente il doppio dell’originale) nella versione estesa, che ovviamente ho nella mia collezione, perché il film andai a vederlo al cinema il primo giorno, portato per una volta in spalla dai miei amici che il film del 1933 lo ignoravano, ma erano galvanizzati da tre film su “Il signore degli anelli”, quindi immaginatemi pure come Abraracourcix nei fumetti di “Asterix”, mentre guido la carica verso il più vicino cinema (storia vera).

Una foto d’epoca di Cassidy che corre al cinema (battendosi ripetutamente il petto)

Dopo le quattro vite e mezza di durata del film, i miei amici volevano la mia pelle (quindi proprio come i galli con Abraracourcix nei fumetti di “Asterix”), ma io lo ammetto candidamente, ho sempre amato questa versione del film, si lo so, non è quella che farei vedere a qualcuno per fare la conoscenza di una delle più grandi icone della storia del cinema, ma questo è amore gente, allo stato più puro ed io non sono così cieco da non riconoscerlo quando lo vedo. Peter Jackson si gode ogni singolo fotogramma del suo film, pare che siano stati disegnati più bozzetti preparatori solo per il gigantesco scimmione, che per tutti i variopinti personaggi che abbiamo visto nella trilogia di “Il signore degli anelli” (storia vera).

Se Jackson per adattare Tolkien, aveva dimostrato di aver capito trama e personaggi, ma aveva saputo mantenere quel distacco necessario a tagliare delle parti, anche a rischio di scatenare l’ira (come è puntualmente accaduto) dei lettori di Tolkien, per “King Kong” quel pragmatico distacco l’ha gettato fuori dalla finestra e poi lo ha fatto calpestare da una mandria di Brontosauri in corsa.

«Il distacco è rimasto indietro!», «Gambe corte. Prega per lui e corri!»

Questo spiega perché il passo con cui Ann Darrow (Naomi Watts), mette piede sulla nave che la porterà a Skull Island avviene con tutta quella enfasi, ecco anche perché quando Carl Denham (Jack Black), batte a macchina le parole S-K-U-L-L I-S-L-A-N-D, Pietro Di Giacomo ci mostra ogni tasto premuto come tutta quella (immotivata) epica. Ogni elemento dell’iconografia di King Kong per Jackson è religione, per questo motivo non solo ha finanziato di tasca sua il restauro della pellicola con la famigerata scena perduta del King Kong del 1933, ma poi l’ha voluta inserire anche nella sua versione del film. Non potete mancarla é quella del famigerato pozzo in cui i protagonisti cadono e vengono massacrati da insetti schifosissimi, avete presente? La scena dove il cuoco di bordo Lumpy (Andy Serkis senza i sensori per il mocap sulla faccia), viene divorato vivo da una tenia gigante dalla forma palesemente fallica? Ecco quella scena lì.

Peter Jackson mette su un cast di seconde scelte che però risulta molto efficace, Naomi Watts in questo film, oltre ad essere bellissima è una Ann Darrow che incarna alla perfezione il ruolo della bionda in pericolo, ma è anche l’unica versione del personaggio proattiva, quella che riesce ad intrecciare con Kong un rapporto che non sia il classico “Bionda nuda! Strappare vestiti!”. Renderla una ballerina di Vaudville è il modo di Jackson per riportare la metafora dell’arte nel mondo di King Kong, Ann Darrow dopo essere stata rapita da Kong si salva facendolo ridere con le sue mosse e mossette, nemmeno fosse l’Eddie Valiant di Chi ha incastrato Roger Rabbit.

«Naomi è il suo nome rider sa cos’è, adesso tu la tiri giù e ballerà per te!» (quasi-cit.)

Allo stesso modo, in un film dove gli eroi dei film d’avventura sono solo pomposi impostori, il nasone di Adrien Brody nei panni di Jack Driscoll, lo rende un l’eroe della porta accanto, quello che non ti aspetti, invece la sorpresa è forse Jack Black, che è rotondetto come Orson Welles (ispirazione per il personaggio) e riesce per tutto il film a non farci rimpiangere di vederlo suonare la chitarra o fare il matto come siamo abituati a vedergli fare altrove. La sua versione di Carl Denham riesce a risultare odioso e carismatico in parti uguali, per certi verso il vero alter ego di Peter Jackson, non solo per circonferenza del giro vita.

Il regista è quello a sinis… ehm, ho un legittimo dubbio.

Quando Carl Denham ringhia che nessuno potrà portargli via il suo film, è impossibile non pensare alla lunga gavetta fatta da Jackson per arrivare a dirigere “King Kong” e allo stesso modo, il regista Neozelandese ha anticipato l’andazzo del resto della sua carriera: quando Denham svende Kong facendolo esibire, viene accusato di aver distrutto tutto quello che amava, un po’ come ha fatto Jackson con Lo Hobbit.

«Frodo, perdonami!» (cit.)

“King Kong” è il piano inclinato in cui tutta l’esperienza artistica di Jackson trova sfogo, la ricostruzione della New York degli anni ’30 è l’omaggio al film originale (infatti Cooper viene citato anche in uno dei dialoghi), i selvaggi di Skull Island sono quasi al limite dell’Horror (e del visto censura PG-13, sicuramente), mentre l’uso degli effetti speciali digitali è figlio dell’esperienza con “Il signore degli anelli”. La CGI spinta, invecchiata non di certo bene (anzi!), ma soprattutto l’idea di ricreare Kong completamente in digitale. In questo film Kong (Andy Serkis con i sensori per il mocap sulla faccia) è chiaramente il frutto di tutto lo studio e l’amore di Jackson per il personaggio, il dente mancante, le cicatrici, in questa versione il re dell’Isola del teschio è un sovrano in carica da decenni, che porta sul corpo tutti i segni delle battaglie per la corona, un gorilla cesellato fino al minimo dettaglio dalla gran prova di Serkis, che ci viene mostrato per quello che è, il ras del quartiere, solo che il suo quartiere è uno dei luoghi più pericolosi del mondo.

«Con te ci faremo un bel valigione» (cit.)

Il secondo atto di “King Kong” è infinitamente lungo, esattamente come “Il signore degli anelli”, gli effetti speciali digitali mostrano già tutte le rughe, anche se il film è in circolazione solo da quindici anni, la lunga (infinita!) corsa dei protagonisti tra i brontosauri in fuga dura un’eternità e mezza (sei minuti, ma sembrano sessanta), ed è un trionfo di schermo verde, con effetti aggiunti dalla Weta in post-produzione, studiati al millimetro per mostrare zampe, denti, artigli e colpi mortali che sfiorano i protagonisti sempre e costantemente mancandoli per due o tre millimetri, per un risultato finale che è tanto artefatto quanto ricercato. Davanti ad una scena così si può restare affascinati per la cura per il dettaglio, oppure annoiarsi per il trucchetto protratto e perpetuato all’infinito, entrambe le reazioni sono più che lecite.

Va un po’ meglio quando le interazioni tra immagini digitali e umani sono ridotte alla sola Naomi Watts in scena, ad esempio la lotta tra Kong e il V-Rex (versione vitaminizzata del re dei dinosauri), sembra un lungo incontro di Wrestling in cui i dinosauri come il mio cane quando prendo in mano la scatola dei biscotti, cercando di azzannare la Watts al volo non curanti delle loro stesse vite, come se mangiare fosse l’unica ragione di vita, quindi esattamente come i miei cani. Lo scontro comincia ad essere in parità solo perché l’articolata coreografia prevede Kong con una delle sue (quattro) mani impegnate a tenere Naomi Watts e il numero di V-Rex che lievita giusto per aggiungere un ulteriore grado di difficoltà. Anche perché con le mani (tutte e quattro) finalmente libere, è chiaro chi è il re di Skull Island.

La Weta ci lascia a bocca apert… ok la smetto.

Allo stesso modo, malgrado le scene di lunghezza infinita, mi piace il modo in cui Peter Jackson ha deciso di rappresentare l’isola del teschio, molto meglio di quanto abbiamo visto in Kong: Skull Island. Nella versione di Jackson, l’isola è un inferno a cielo aperto, un posto dove noi piccoli e fragili umani, con i nostri corpicini sottodimensionati possiamo al massimo ricoprire il ruolo che nell’ecosistema a noi più familiare, normalmente è stato assegnato allo scarabeo stercoraro. Nemmeno armati di Mitra Thompson possiamo avere speranza contro le continue, insidiose e tutte drammaticamente letali minacce che popolano l’isola, il risultato è una fagiolata di marinai morti ammazzati (male), in cui diventa chiarissimo perché l’unico a suo agio in un posto così, possa essere solo un gorilla alto dodici metri.

Sigmund Freud analyze this (cit.)

Il problema forse è proprio questo, nella versione di Peter Jackson, King Kong smette di essere un gigantesco mostro quasi preistorico, una forza della natura con cui non è possibile patteggiare, al pari di un tornado o di un terremoto. Per effetto dell’amore senza confini di Jackson per il personaggio, Kong diventa un pochino, non voglio dire umano, diciamo malleabile.

Per assurdo “King Kong” è uno di quei film che mi affascina di più nei momenti non d’azione, piuttosto che durante i lunghi inseguimenti, quando Jackson rallenta il ritmo può permettersi di mostrarci Kong e Naomi impegnati a guardare un tramonto da sopra l’Empire State Building, per creare un momento di cinema bellissimo, persino la scena Disneiana del laghetto ghiacciato, sarà anche un tradimento della natura stessa di Kong, ma lo comprendo perché questo non è solo il film della vita di Pietro Di Giacomo, è proprio una dichiarazione d’amore a King Kong, inutile girarci attorno.

«Iu ar so biutiful tuuuu miiiii, chent iuuuuuu siiiiiiii»

Andy Serkis fa un lavoro incredibile, infatti è diventato negli anni l’anello mancante tra l’uomo e la scimmia al cinema, gli effetti speciali della Weta, quando hanno un numero minimo di umani da portare in scena funzionano ancora piuttosto bene, le musiche di James Newton Howard sono grandiose quanto basta e Pietro Di Giacomo dirige con il cuore in mano, infatti la scena finale rende omaggio al meglio al film del 1933, tanto che Jackson può permettersi di rinunciare quasi completamente ai dialoghi, raccontano solo per immagini che poi è quello che dovrebbe fare sempre il cinema. Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack ci hanno insegnato che il cinema discende dalle scimmie, non possiamo proprio dire che Peter Jackson quella lezione non l’abbia capita per davvero.

Non sempre un regista trova il modo di arrivare a dirigere il film della vita, Peter Jackson è stato caparbio e fortunato, è innegabile che si sia goduto ogni fotogramma di questo atto d’amore della durata di boh, tredici o quattordici giorni, dopo, la sua carriera non è più stata la stessa e i film che ha diretto parlano chiaro in tal senso. Può piacere o meno gente, ma al cuore non si comanda e quello di Peter Jackson, appartiene a Skull Island.

Sepolto in precedenza giovedì 25 marzo 2021

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