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Knightriders – I cavalieri (1981): Camelot è uno stato mentale

Vi do il mio benvenuto nobili dame e fedeli cavalieri, a questo nuovo giro di giostra, preparate il vostro destriero motorizzato in vista del nuovo capitolo della rubrica… Lui è leggenda!

Cosa c’insegna la storia del cinema? Tra le tante cose anche che quando un regista ne ha la possibilità, il più delle volte cerca di portare sul grande schermo il film della vita, quello più sentito e personale che quasi sempre poi si rivela un flop al botteghino. Di sicuro il successo dai Zombi (Dawn of the dead) ha regalato visibilità al cinema e al talento di George A. Romero, oltre a poter finalmente distribuire la sua versione di La stagione della strega, nell’estate del 1980 la Leggenda sceglie davvero di dirigere quello che ancora oggi è considerato il suo film più atipico, sicuramente quello più personale e, per quanto mi riguarda, anche uno dei migliori mai diretto da un regista che viene giustamente ricordato per i suoi (e i nostri) amati zombie, ma che, in realtà, ci ha regalato titoli magnifici come “Knightriders”, da non confondere con una celebre serie tv con un’auto parlante guidata da un bagnino riccioluto.

Non ho mai avuto dubbi, quando mi chiedono qual è il mio film preferito di Romero preferito, sono in difficoltà perché la scelta è ampia, la logica e i neuroni mi direbbero di rispondere La notte dei morti viventi, sarebbe una risposta valida, una di quella di cui poi non ti penti di aver dato, ma il cuore gente, quello urla “I cavalieri” fortissimo. Sì, perché il film ha tutto per prendere il pubblico al cervello, al cuore e alla pancia, con me lo ha fatto fin dalla prima visione, sono cresciuto leggendo i libri di Re Artù e i cavalieri della tavola rotonda, quindi provate ad immaginare cosa poteva essere per me un film che mette insieme le leggende del ciclo arturiano, le adatta alla poetica ribelle di Romero, il tutto con alcuni dei miei attori preferiti e delle gran moto usate per darsi delle discrete mazzate, quasi in una versione medioevale di Rollerball. Il risultato è un film che non somiglia a nessun altro che avete mai visto, per me qui ci sono gli estremi per il Classido!
Che zio George sia sempre stato un ribelle fino al profondo del suo cuore, è sempre stato chiaro, “Knightriders” è formalmente un film degli anni ’80, visto che è uscito nel 1981 in poche sale americane, ma si porta dentro uno spirito sessantottino che è tipico del regista di Pittsburgh. Una pellicola che è una reazione, un modo per utilizzare l’arte per rispondere alla condizione imperante dell’America del tempo, tutta basata sull’equilibrio sociale e le leggi economiche della famigerata “Reaganomics”. Un mondo basato sul capitale alla quale Romero si oppone: può un uomo mantenere la propria integrità, senza doversi per forza piegare all’avidità, alla smania per il successo e il denaro che guidano il mondo moderno? Oppure, il compromesso è l’unica delle soluzioni possibili? Capite che è davvero impossibile non notare il fatto che questo discorso valga in pieno anche per il cinema di Romero, da sempre povero nei fondi, ma non nelle idee e, soprattutto, osteggiato perché non allienato, infatti per la sua critica al sistema, Romero si affida ai suoi fidati cavalieri, perché “Knightriders” è un piccolo film tra amici, la corte di Re George tutta riunita per tre mesi estivi passati a girare questo film.
Re George e i cavalieri della tavola rotonda.

Tom Savini e John Amplas (che dopo Martin, torna per un piccolo ruolo muto e truccato nei panni del giullare) hanno definito l’estate del 1980 la più bella della loro vita, un’affermazione che sembra uscita da un romanzo di Stephen King e non lo dico certo a caso, visto che nel film proprio lo scrittore del Maine, grande amico di Romero, fa una piccola comparsata insieme alla moglie Tabitha King, nei panni di un rumoroso zoticone che tra il pubblico, è impegnato a contestare il realismo della sfida tra cavalieri («Secondo me è tutto preparato come il wrestling in tv»). Un cameo venuto fuori per caso, come uno scherzo tra amici, visto che King si trovava sul set per lavorare con Romero alla sceneggiatura di “Creepshow”, in arrivo su queste Bare la prossima settimana.

Zio Stevie e signora, nel loro esordio sul grande schermo.

“Knightriders” raduna tutti i fedelissimi di Romero, Ken Foree arriva del centro commerciale di Zombi
per interpretare Little John, ma il caso più emblematico resta Christine Forrest che qui interpreta Angie, la meccanica impegnata in una complicata relazione con Morgan (riformando sullo schermo la coppia di fidanzati di Martin, composta da lei e Tom Savini). Sapete che ho un debole per gli aneddoti di produzione, questo per me riassume tutto il film: l’ultimo combattimento prima del gran finale ha qualche piccolo problema di continuità tra i motociclisti coinvolti, dovuto al fatto che Romero aveva affidato la regia alla seconda unità, perché nell’ultimo giorno di lavorazione era impegnato a sposarsi con Christine Forrest sul set del film (storia vera) e i due sono rimasti sposati fino al 2010. Anzi, per chiudere il cerchio, il nome della signora Romero è stato utilizzato nel 1983da King in onore  dei suoi amici, per un suo romanzo piuttosto famoso, quindi ora sapete perché la macchina infernale si chiama Christine.

Come passare da meccanica a madrina di una delle auto più famose del cinema.

Per questo film Romero coinvolge i suoi amici davanti e dietro alla macchina da presa, per la produzione, torna a lavorare con il produttore Richard P. Rubinstein (quello di Martin) e come per il suo film vampiresco, affida le grandiose musiche al fratello Donald, anzi! Lo convince a cantare e suonare la sua “I’d rather be a wanderer” nel film, affidando al compositore il ruolo del menestrello del gruppo, esperienza nuova per il musicista che sul set ha stretto un’amicizia con il protagonista Ed Harris (storia vera). Insomma, nell’estate del 1980 sono nate amicizie, amori e tra un ciak e una sgommata in moto, anche questo gioiello troppo sconosciuto nella filmografia di un grande regista.

“Knightriders” spiazza tutti, alla sua uscita risulta davvero troppo strano per il pubblico, la sua durata (145 minuti) non aiuta, ma il problema principale è che la pellicola non somiglia davvero e nulla di mai visto, qui da noi in uno strambo Paese a forma di scarpa com’è andato? Peggio che andare di notte, se escludiamo qualche raro passaggio televisivo, in una versione sforbiciata e doppiata male, il film non ha mai visto il buio delle nostre sale, ma se volete vederlo (e personalmente vi consiglio di farlo visto che la sua unicità è anche la sua grande forza), vi suggerisco di recuperare il dvd con la versione integrale che mi tengo stretto nella mia collezione. Mi raccomando: traccia audio originale, evitare il doppiaggio piattissimo, lo dico per voi.
We’re Knights of the Round Table, we dance when ere we’re able.

Cosa vi dico sempre dei primi cinque minuti di un film? Bravi: che ne determinano tutto l’andamento. Io penso sia impossibile non aver voglia di vedere tutto “Knightriders” dopo il suo affascinante inizio. In una foresta immacolata che sembra uscita da Excalibur (uscito per una beffa del destino lo stesso anno del film di Romero, ma molto più apprezzato, nel suo raccontare re Artù e i suoi cavalieri in un modo più canonico) un uomo (Ed Harris… Degli applausi sarebbero graditi) e una bella rossa niente male (Amy Ingersoll) si risvegliano nudi, novelli Adamo ed Eva, dopo aver indossato i loro vestiti medioevali e le rispettive corone da re e regina, salgono sul loro destriero che, però, è una rombante motocicletta e partono sgommando e con aria totalmente regale sulle note dell’epico e trionfante tema musicale del film composto da Donald Rubinstein, pam para paaa paaaa para para pam para pa paaa! Vi giuro che ogni tanto, me lo canticchio anche da solo durante la giornata (storia vera) questo per dirvi dei miei problemi e della mia passione per questo film.

I titoli di testa come da tradizione, che partono sulle note di para para paaaa para pa paaaaa! (ho delle note tutte mie io).

Un re e la sua regina, due perfetti personaggi medioevali che cavalcano una moto modernissima, sul serio, se non volete sapere cos’hanno da raccontarvi due personaggi così, io ve lo dico: vi perdete qualcosa di speciale! Quella cosa speciale è una piccola carovana errante di cavalieri che con i loro caschi/elmo organizzano giostre e duelli a cavallo delle loro Harley Davidson, per il pubblico pagante, una festa medioevale fatta di birra, musiche cavallereste e sfide tra cavalieri, come se fosse l’era di re Artù e i suoi cavalieri della tavola rotonda, quando, invece, siamo nel pieno midwest americano nei primi anni ’80.

Questa allegra carovana è guidata con saggezza da re Billy (il già citato Ed Harris, tenetemi l’icona aperta su di lui che ci torniamo) affiancato dalla regina Linet e dal suo più fedele cavaliere, il suo personale Lancilotto, Alan (Gary Lahti). Ma non manca nella compagnia Little John (Ken Foree) un frate Tuck, la meccanica con la faccia sempre sporca di grasso Angie e il suo fidanzato Morgan (Tom Savini), vuoi farti mancare il banditore afflitto da dubbi sul suo orientamento sessuale Pippin (Warner Shook) o il suo contraltare, la tostissima cavaliera Rocky (un nome, una garanzia)? Ma se re Billy è l’Artù di questa compagnia, secondo voi può mancare un mago Merlino? Niente affatto! Merlino è il dottore del gruppo, il mago personale e il maestro di Billy, per interpretarlo Romero sceglie Brother Blue attore, artista di strada e con le sue farfalle blu disegnate sempre in faccia (non solo nel film) una vera icona nella zona delle università di Boston, forse basta davvero solo la sua presenza a regalare un’aura Hippy a tutta questa originalissima versione di re Artù Billy e i cavalieri della tavola rotonda.
Un’allegra e soprattutto rombante compagine.

Cosa ci ha insegnato leggere tutti quei libri sul ciclo Arturiano (o guardare Excalibur tante volte)? Che Artù deve guardarsi dalla maga Morgana che qui si chiama Morgan e ha i baffoni di quel gran mito di Tom Savini. Morgan è molto probabilmente il miglior cavaliere del gruppo, il più difficile da buttare giù dalla sella con la lancia e ancora più tosto da sconfiggere quando combatte in equilibrio sul sidecar per i combattimenti tra cavalieri, tanto che re Billy deve sudare sette camice per sconfiggerlo, rimediando anche una brutta ferita alla spalla nel loro primo scontro.

Sareste di cattivo umore anche voi se vi chiamaste come il cantante dei Bluvertigo.

Morgan non è cattivo, è ambizioso, ha l’arroganza di chi sa di essere forte e sogna la corona, è il perfetto opposto di re Billy, crede al suo sogno, ma non si fa problemi ad accettare qualche scorciatoia per ottenerlo, e proprio per questo si lascia tentare dalle luci della ribalta, si perché lo sgangherato circo di re Billy muove ben pochi soldi e vive più di passione che di veri incassi (come tanti film di George A. Romero? Ve la butto lì, voi rifletteteci su), ma fa gola a tanti che vorrebbero sfruttarlo per guadagnare molto (come i film di George A. Rom… Ok, la smetto, avete capito l’antifona), qui rappresentati da una giornalista che fa la gatta morta con Morgan e da un agente che ha la faccia di Martin Ferrero, vi ricordate Gennaro? Divorato da un T-Rex mentre stava seduto sulcesso? Lui.

La perdita dell’identità è un tema chiave nel cinema Romeriano, qui la Leggenda tesse le lodi di un sogno, portato avanti caparbiamente, spesso anche troppo caparbiamente, un piccolo film sgangherato, forse troppo lungo, ma sempre coinvolgente, per rispondere all’omologazione cinematografica di chi ha tutti i soldi a disposizione e davvero niente da dire. Per far arrivare il suo messaggio, Romero scrive un film che non ha nulla a che vedere con il cinema horror, ma si porta dentro tutti i temi cari al regista che qui scrive e dirige con il cuore in mano, dettaglio che si nota, perché normalmente nei film con tanti personaggi, la maggior parte di loro finisce per fare da tappezzeria sul fondo della storia, qui, invece, tutti hanno il loro arco narrativo completo, ognuno è molto ben caratterizzato e soprattutto riconoscibile, anche dopo la prima visione si finisce per ricordare quasi tutti i nomi e ad affezionarsi ad ognuno di loro, deve aver aiutato aver modellato i personaggi sui suoi amici e poi averli tutti attorno a sé per realizzare il film, ma il risultato finale è che “Knightriders” è sicuramente il film più intimo di Romero, guardandolo, ci si diverte, ci si emoziona e se non siete dei duri come me (ho un’immagine da mantenere, non esco mai dal mio personaggio, capitemi) anche commuovere, ma allo stesso tempo, fa venire voglia di mordersi le nocche per le mancate fortune al botteghino che hanno impedito a Romero di approfondire la vena autoriale che sfoggia in questo film.
«Si vede il marsupio?» (Il lato oscuro della fama).

Sì, perché bisogna dire che gli scontri tra cavalieri in motocicletta sono fighissimi, se come me siete appassionati di mezzi a motore che tirano dei ciocchi fortissimi sul grande schermo, le moto (e i loro cavalieri) di “Knightriders” vi daranno delle gioie, ma sono i piccoli momenti che dimostrano il talento di Romero come narratore, ad esempio uno in particolare io lo trovo efficacissimo: Julie (Patricia Tallman) si lascia affascinare dal sogno dei cavalieri di re Billy (ma anche dal bel Alan) e decide di partire con loro, quando dà la notizia a sua madre, la donna la lascia andare, poi va in cucina, apre il rubinetto per non farsi sentire dal padre e piange disperata, Romero la inquadra da lontano, come se fosse ancora più sola e con quell’unica inquadratura ci racconta di solitudini, mariti violenti e inquadra una società che in un attimo, ti fa capire che il sogno errante di Re Billy, non è poi così matto. Non malissimo per uno che ancora oggi, in troppi si ostinano a considerare solo un regista di film con gli zombie.

Ecco, Re Billy, proprio lui è il motore alla vicenda. E’ fin troppo facile capire che il regista di tutta questa giostra di cavalieri, sia anche il personaggio in cui lo stesso Romero un po’ si riflette. Per me è facilissimo immedesimarsi in un personaggio così, lo è sempre stato: un testone che vuole davvero bene ai suoi, ma è anche matto abbastanza da continuare ad opporsi al sistema corrotto e ai suoi rappresentanti, non a caso pur di non pagare una mazzetta al corrotto sceriffo locale (richiesta per chiudere un occhio sulla presenza del loro circo errante nella sua giurisdizione) Billy si fa portare in cella ad assistere impotente alla brutalità dei poliziotti su uno dei suoi arrestato con lui.
Il maledetto sistema che di regale non ha davvero niente.

Tutti nel film, dalla sua regina Linet (che cerca di farlo ragionare sui costi di gestione di trasporto e motociclette) fino a Morgan che capisce che una mano lava l’altra e tutte e due fregano l’asciugamano, cercano di farlo ragionare, ma lui niente, corna a terra non vuole sentire ragioni. Billy non cede un millimetro nemmeno quando un ragazzino gli chiede di fargli un autografo su una rivista di moto, sarebbe un gesto semplice, una concessione microscopica, ma per Billy nemmeno un piccolo gesto è accettabile, perché il Re non può convalidare con una firma, il punto di vista per cui lui e i suoi compagni, siano semplici stuntmen alla Evel Knievel, intrattenitori da strapazzo. Per lui si può vivere solo seguendo il codice morale che si è imposto, tanto che in un dialogo, lui non parla di sfidare il sistema, lui dichiara di stare combattendo il Drago, proprio come faceva il “vero” re Artù.

La locandina alternativa del maestro Enzo Sciotti è così bella che va sfoggiata.

Vi ero debitore di un’icona lasciata aperta su di lui, la chiudiamo ora. “Knightriders” è il primo film da protagonista di Ed Harris che fino a quel momento aveva fatto solo pochi ruoli secondari, Romero gli affida il personaggio chiave del film, ma anche quello che rappresenta di più la sua idea di cinema, la risposta di Harris è magnifica, ho sempre avuto una predilezione per questo attore, un vero talento, che qui regala una prova che alla pari del film, avrebbe meritato più fortune.

Il modo in cui fa quadrato attorno ai suoi ideali è monolitico, quando si arrabbia per essi, sembra pazzo e quando minaccia lo sceriffo che ha picchiato in cella il suo amico, dà l’aria di uno che manterrà la parola («Meglio che ti guardi le spalle, un giorno ti piomberò addosso come un falco»). Penso che buona parte della mia stima per questa attore, sia cominciata grazie a questo film, al resto ci pensa Romero.
Sgomma inchioda va a manetta, fa cagare addosso i matusa e il governo (Cit.)

Non mi va di raccontarvi troppo della trama, vi ho già detto molto, se conoscete il film, sono sicuro che già lo amate come merita, altrimenti saltate in sella e correte a scoprirlo, mi ringrazierete dopo, perché il finale è un crescendo incredibile, i personaggi completano la loro storia personale e tutti i pezzi vanno al loro posto. In 145 minuti Romero rende onore nel modo migliore all’epica del ciclo arturiano, ci sono amori, tradimenti, battaglie, sfide al “Drago”, grandi ritorni e passioni brucianti in questi piccolo film tra amici. Certo, il film non è troppo compatto, ma vogliamo criticarlo davvero? In questo flusso di coscienza di Romero ci passano attraverso critica contro il sistema, risate e momenti in cui vi suderanno le palpebre. Vi ho già detto che sono un duro, no? Ecco, sono così duro che mi chiamano il budino molle, quindi davanti a questo film, al massimo mi sudano le palpebre.

Gli ultimi dieci minuti meritano un discorso a parte, qui i dialoghi non servono nemmeno più, ormai conosciamo i personaggi così bene che le parole sono superflue, bastano le bellissime musiche di Donald Rubinstein e la regia di Romero per raccontarci la fine della storia e quei dieci minuti finali, sono lo spettacolo personale di Ed Harris, sufficienti a mandare re Billy nel Valhalla dei miei personaggi del cuore.
Solo un altro Re, sta sul trono con più epica di Re Billy.

Re Billy ormai è un personaggio che ha fatto tutto quello che doveva compreso lasciare il suo sogno nelle migliori mani possibili, non avrebbe più nessun dovere morale, ma è sempre integerrimo, con la schiena drittissima e la testa alta cavalca la sua moto solo, accompagnato dal silente cavaliere, un indiano senza nome, simboleggiato da un poco rassicurante corvo nero sulla sua armatura (il re cavalca insieme alla morte), entra nella scuola del ragazzino, sì, quello del mancato autografo e gli regala la sua spada, ben meglio di una firma su una rivista, poi in un fast food becca lo sceriffo e rende onore alla promessa fatta al corrotto rappresentante del sistema, la scena è esaltante, mentre Billy esce con il pugno alzato, vien voglia di unirsi agli avventori del locale negli applausi che accompagnano il re fuori dalla porta.

A nessuno è concessa l’autorità per negare il ritorno del Re (Aragorn scansati)

L’ultima scena è magnifica, un finale cinico ma poetico, in cui re Billy ci viene mostrato per quello che è: un cavaliere in scintillante armatura su un vero destriero, un duro e puro, re di un mondo al tramonto destinato a sopravvivere solo nel cuore di chi ha creduto al suo sogno. Quando ho visto il pilot di “Sons of anarchy” mi sono detto: “Scommetto una cassa di birra che la settima stagione finirà come Knightriders” (storia vera). In compenso, gli ultimi cinque minuti del film, quelli che ci scortano fino ai titoli di coda sulle note di Rubinstein, restano uno dei finali più commoventi di sempre, dopo il 16 luglio del 2017, però, di più… Molto di più.

Molto dura quando devi preparati a salutare per sempre una leggenda.

Per me questo film è figo e malinconico in parti uguali, orgogliosamente fuori dal tempo e con molta probabilità, anche il migliore di George A. Romero, quello con più cuore, perché un ribelle non smetterà mai di combattere il drago, al massimo potrà ispirare gli altri e insegnare a loro e a tutti quanti noi che Camelot, è uno stato mentale.

Tra sette giorni, miei cari mostriciattoli cominciamo un altro viaggio, per ora tutti in sella, il re è morto, ma noi siamo ancora in missione per zio George. Lunga vita al re!

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