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Kong: Skull Island (2017): Akongalypse Now!

Mentre ero comodo
sulla mia poltroncina a guardare “Kong: Skull Island” ho avuto quella che Samuel
L. Jackson in “Pulp Fiction” chiamava il momento di lucidità. Questo film è uno
di quelli che alimenta i pregiudizi nei confronti dei film con i mostri, è come
quando sul tram le signore bene si tengono stretta la borsa quando sale a bordo
un ragazzo di colore.

Sì, perché una
gran fetta di pubblico non può fare a meno dei temi sociali, o dell’approfondimento
psicologico dei personaggi, trattato in modo canonico, come se non ci fosse
differenza tra un film con mostri alti trenta metri che si menano e un
drammone con Margherita Buy. Questo è il motivo principale per cui, invece di
vivere tutti in un mondo buono e giusto, dove “Pacific Rim” ha dieci seguiti
uno con un budget maggiore del precedente, stiamo ancora qui a sperare di poter
vedere un secondo capitolo, ma solo se siamo disposti a subire lo Ius primae
noctis da uno di quei maledetti Inglesi! Scusate, ho visto troppe volte
Braveheart…
Ora, a me
sanguinano cuore e orecchie quando qualcuno dice che Pacific Rim sarebbe anche
bello se non fosse per i personaggi umani che sono poco approfonditi (25 minuti
per battere questa frase sulla tastiera, maledicendo il cielo ad ogni tasto
premuto), perché Guillermo Del Toro ha fatto un lavoro fantastico con quel
film, ma purtroppo Jordan Vogt-Roberts (Salute!) e i suoi quattro sceneggiatori
(!) non hanno un briciolo del talento di Del Toro e quindi “Kong: Skull Island”
alimenta il pregiudizio popolare, sarebbe bellissimo, se non fosse per i
personaggi umani, altri 25 minuti persi porco mondo!


“Kong odia piccoli umani che rovinano film!”.

Inoltre, noi
poveri Occidentali senza fantasia dell’anno 2017, non possiamo semplicemente
andare al cinema e goderci un film su King Kong o uno su Godzilla, senza premesse
lunghe e inutili, senza un “MonsterVerse” che unisca i fili, quindi per
arrivare a vedere “Godzilla vs. Kong”, già annunciato per il 2020, tocca
passare questi Tentpole movies, come li chiama Giacomo Uomodorato.

Pensare che era
iniziata bene, il “Godzilla” (2014) del bravo Gareth Edwards, era tutto campi
lunghi, un ‘Zilla rispettoso della tradizione dei film della Toho mostrato in
tutto il suo splendore, in cui purtroppo Aaron Taylor-Johnson e Bryan “Più
grande attore del mondo” Cranston dovevano recitare delle parti perché a noi Occidentali non basta il nome GODZILLA per correre al cinema felici. Secondo
voi, questo “Kong: Skull Island” impara dagli errori del film di Gareth Edwards
per fare meglio? Penso che sappiate già la risposta.
A costo di
passare per il Nonno Simpson della situazione, quello che ripete sempre che i
primi cinque minuti di una pellicola ne determinano tutto l’andazzo, anche
questa volta è così. Dopo una breve premessa ambientata nel 1944 con un pilota americano e uno giapponese che precipitano su un’isola (fate ciao ciao con la
manina a “Duello nel Pacifico” del 1968), Kong riempie lo schermone del cinema
con manona e faccione ancora prima dei titoli di testa, l’enormità del vero
protagonista sbattuta in faccia allo spettatore come non accadeva da, credo l’ultimo
film con Rocco Siffredi, alla faccia del non mostrato di Edwards.


Sapete cosa dicono di quelli con le mani grandi no?

Il resto? Cosa si
sono inventati i quattro (quattro, Q-U-A-T-T-R-O) sceneggiatori di questo film
per raccontarci le origini del primate più famoso del mondo? Niente,
ambientiamo tutto nel 1973 con la guerra del Vietnam agli sgoccioli e inseriamo
tutti i riferimenti possibili ed immaginabili ad “Apocalypse now” (1979) di
Francis Ford Coppola, li cacciamo dentro a forza con l’imbuto roba che il
personaggio di Tom “Loki” Hiddleston si chiama Conrad in modo che i riferimenti
siano grossi quanto i mostri dei film e poi abbiamo l’occasione per farcire il
tutto con rock anni ’70 buttato dentro a caso, la colonna sonora del film
sembra uscita dal mio lettore MP3: ti vorrò sempre bene se mi spari a palla
David Bowie, Black Sabbath e i Creedence, ma vacci piano con le strizzate d’occhio
che la congiuntivite è sempre dietro l’angolo.

Invece di ignorare la questione, facci su un poster!

Per la trama i
quattro sceneggiatori giustificano il viaggio su Skull Island dicendo: “E sennò
i Russi ci vanno prima di noi!”, dopodiché prendi Johh Goodman nella parte dello
scienziato uscito da Jurassic Park, gli metti accanto un costosissimo Indiana Jones con la faccia di Hiddleston, una fotografa pacifista fatta a forma di Brie
Larson, perché si sa che i Kong preferiscono le bionde e la scorta militare rappresentata da un Samuel L. Jackson
uscito dritto sparato da Basic,
direi che a nomi grossi per portare il pubblico in sala siamo ben messi, sarà
ma io alle quattro lettere K-O-N-G ero già convinto.

Una volta
superate le nebbie eterne di Torino Skull Island, qual’è la prima cosa
che fai se sei un Americano che ha appena perso la guerra più sanguinosa della
sua storia e sospetti di trovarti su un’isola con forme di vita sconosciute e
primitive? Facile! Fai quello che fanno sempre gli Americani: lanci un sacco di
belle bombe, per giustificare una fantomatica teoria scientifica, perché ricordate
gente, nel cinema americano del 2017, “Teoria della Terra cava” is the new “Templari”!
Ovvio che poi il
monarca assoluto dell’isolotto s’incazzi due righe (come dargli torto) e qui “Kong:
Skull Island” dà il suo meglio con lo scimmione che prende a schiaffoni
elicotteri da combattimento in un tripudio di “Prepararsi all’impatto!” e CGI
fatta talmente bene da darti l’impressione che forse non risulterà già vecchia
tra cinque anni, magari tra sette, ma per ora va pure bene così.


La mia scimmia per questo film, giudica la buona riuscita degli effetti speciali.

Jordan
Vogt-Roberts (Salute!) è il solito poveretto che deve sottostare alla regola
“hai fatto una commedia a basso costo (“The Kings of Summer” 2013), ma sei vuoi
entrare nel giro che conta ad Hollywood ora dirigi un blockbuster ad alto
budget”, inoltre Jordan ha pure una lunga barba da Hipster, quindi è stato più
facile acchiapparlo e metterlo dietro alla macchina da presa, dove si diletta
con rallenty di ogni tipo, ma coadiuvato dal direttore della fotografia Larry
Fong tutto sommato fa un lavoro ignorantemente bello, basta guardare Kong che
si staglia nella sua gigantezza contro il tramonto di Skull Island per capire
che dal punto di vista visivo è un film di gran fattura.

“Mi piace l’odore di gorilla la mattina, odora di… di vittoria”.

Non mi va nemmeno
di dilungarmi sulle creature che popolano l’isola, sono una migliore dell’altra,
se le descrivessi vi toglierei quella che è davvero l’unico punto di forza del film,
mi sento solo di rivelarvi che almeno una scena alza l’asticella dei ragni
giganti al cinema, gli aracnofobici si considerino avvisati e buona ragnatela
a tutti!

Il giovane King Kong
che in questo film sta ancora crescendo, come ci tengono a spiegarci, è davvero
figo, è il Michael Jordan di Skull Island, ma occhio: il modello di riferimento
per questa incarnazione della scimmia più famosa del mondo, non è il gorillone
creato da Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack nel 1933 e nemmeno la sua versione aggiornata nel 2005 da Peter
Jackson, per fare la conoscenza del nuovo Re, dovete tenere in mente la sua
versione giapponese, quella della Toho. Questo spiega perché con i suoi trenta
metri di altezza, è il King Kong più grosso mai visto in un film americano, insomma
avevo la scimmia per vedere questa scimmia e a fine visione il mio primate ed
io eravamo molto contenti.


“… Forse, se la scimmia è molto grossa, forse il bambino può scendere. Non è che l’uomo può scendere dalla scimmia” (Cit.)

Purtroppo, devo
anche sottolineare che per un film che si chiama “Kong: Skull Island” oltre a
King Kong deve funzionare altrettanto bene il resto del titolo, la Skull
Island di Jordan Vogt-Roberts non allaccia nemmeno le scarpe a quella di Peter
Jackson. Ora, so che il film del regista de “Il Signore degli Anelli” ha tanti
appassionati e altrettanti detrattori (contatemi tra i primi), ma aveva messo
in chiaro una cosa: se sei solo un piccolo umano, Skull Island può ucciderti in
trenta modi diversi e tutti dolorosissimi.

Nell’Isola del
teschio del barbuto Vogt-Roberts (Salute!), invece si muore male, ma si può
anche sopravvivere 28 anni (e 11 mesi) come accade al personaggio di John C.
Reilly e, malgrado la mia premessa iniziale, il modo in cui i personaggi umani
infestano e allungano una trama risicata, è talmente palese che mi costringe
per forza a parlare di loro.
Guardando il film
mi è parso chiaro che Jordan Vogt “Trattino” Roberts abbia poca esperienza a
dirigere gli attori e abbia lasciato fare a loro, che in base a talento,
personaggio e capacità di adattarsi sfornano prove alterne, iniziamo con i
veterani.


“Ma che ci tengono lì dentro, King Kong?” (Cit.)

Il William
“Bill” Randa di John Goodman è un personaggio infame, funziona solo perché
Giovanni Buonuomo è un fenomeno con un carisma pari a quello di Kong, lo stesso
si può dire del militare Preston Packard che altro non è che il capitano Achab
(o il colonello Kurtz) della situazione che perde la capoccia e va in fissa per
uccidere il mostro, una macchietta bollita in salsa di cliché che per lunghi
tratti funziona solo perché quando distribuivano il carisma, Sam Jackson era il
primo della fila e forse voleva rifarsi dopo la figura da cioccolataio
rimediata contro i gorilla di Tarzan.

«Ho osservato una scimmia arrampicarsi lungo il filo di un rasoio…»

A metà classifica
inserirei un’altra infilata di personaggi infami, le spalle comiche, quella che
si portano dietro l’obbligo di fare battute e battutine per stemperare la
situazione. Il naufrago Hank Marlow è uno dei pochi personaggi con un arco
narrativo completo, il super personaggio tra la inevitabili battute sulla
vittoria dei Chicago Cubs (108 anni di vacche magre interrotte solo lo scorso
anno, li senirete citati in tutti i film più della Terra cava sicuro!) rischia
spesso di risultare urticante, ma se non passa mai il Rubicone guadagnandosi l’odio
del pubblico, è proprio solo grazie al mestiere e al faccione di John C. Reilly,
personalmente vederlo guardare la foto della moglie cantando IL pezzo della Seconda Guerra Mondiale “We’ll meet again” (Don’t know where / Don’t know when…)
poteva essere la chiosa perfetta per il personaggio, il regista con il trattino
nel cognome gli dedica anche la scena sui titoli di coda, tanto che sembra di
aver appena assistito a “John C. Reilly: Skull Island”.

«You can take the children… but you leave me my monkey!» (Chi indovina questa citazione vince il premio della settimana)

Ma il mio personale premio di MVP va a Shea Whigham, nei panni del soldato strambo armato
di AK-47, non voglio rivelarvi niente sul suo arco narrativo, ma Whigham dà
spessore, credibilità e faccia da chi le ha viste tutte ad un personaggio che
in mani diverse sarebbe stato il solito “Biologo che tocca gli animali” di Prometheus e ci riesco solo perché è un grande attore, se vi piaceva “Boardwalk Empire” non lo scoprite certo oggi.

“C’ho un carisma grosso così”.

La cosa davvero pazzesca
del film è che gli attori più famosi, ricoprono anche i due ruoli più inutili
di tutto il film. L’avventuriero James Conrad interpretato da Tom Hiddleston
per tutta la durata del film non fa NULLA, tanto che ad un certo punto il
personaggio di Brie Larson gli fa notare che è il più pagato di tutta la
spedizione e che sarebbe ora che dimostrasse che vale tutti quei soldi, meta
cinematografia portami via! Trovo incredibile che uno come Tom “Sposa mia
figlia” Hiddleston, sia andato così sotto a livello di carisma, colpa anche di
un personaggio che passa da potenziale aspirante proto-Indiana Jones a ruotino di scorta
in un tempo clamorosamente breve, quattro sceneggiatori (quattro!) e nessuno è
stato in grado di scrivergli una riga di dialogo degna del suo potenziale, bah!

Non fare nulla, ma farlo molto intensamente.

A parità di personaggio inutile, Brie Larson riesce a fare pure peggio, colpita dalla “Maledizione
del Green Screen” passa tutto il tempo a fare la faccia stupita, guardando
punti a caso e quasi sempre dal lato sbagliato rispetto a dove sta il mostrone
aggiunto in post produzione, speriamo che con Capitan Marvel vada meglio, perché
qui è davvero più caruccia che utile.

Brie Larson, che guarda un punto del set, sgranando gli occhi.
Voi, che guardate un punto (anzi due) di Brie Larson, sgranando gli occhi.

“Kong: Skull Island” poteva essere un capolavoro della durata di 45 minuti, invece la trama
stiracchiata serve a giustificare gli attori famosi, per questo è un film che
non fa altro che alimentare il pregiudizio per i Monster Movie grossi e caciaroni
che mi piacciono tanto. Se hai un’isola piena di mostri e un tostissimo
gorilla gigante non hai davvero bisogno di altro, bastava fare un film muto, l’equivalente
del manga “Gon” per chi lo ricorda. Infatti, la mia scena preferita è lo scontro
tra Kong e la piovra gigante, prima con un cazzottone il Re di Skull Island
riduce il mostro a insalata di polipo e poi si sgranocchia un tentacolo che
ancora si muove e gli si incolla con le ventose alla faccia.

“L’insalata di polipo mi piace fresca, non ancora viva!!”.

Serve davvero aggiungere una scena post-credit che ci certifica che nel 2020 arriverà “Godzilla
vs. Kong”? Secondo me no, King Kong contro l’insalata di polipo, siamo ragazzi
semplici, ci accontentiamo dei nostri mostroni giganti per essere felici, porco
mondo!

Siccome ogni giorno passato a parlare di film con le scimmie, è un giorno ben speso, oggi per questo Kong: Skull Island-Day abbiamo un altro gran fanatico dei primati, Il Zinefilo, cliccate qui e leggete, con tutte le dita di mani e piedi!

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