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La ballata di Cable Hogue (1970): la veglia funebre della frontiera americana

So che avete fatto un lungo viaggio per raggiungere questo
nuovo appuntamento settimanale, quindi mettetevi comodi, rifocillatevi e
benvenuti al nuovo capitolo della rubrica… Sam day Bloody Sam day!

Sam Peckinpah è stato un regista geniale e un uomo
tormentato, sicuramente iperattivo anche sul fronte lavorativo, i suoi anni ’70
sono stati caratterizzati dal super lavoro, sette titoli sfornati in cinque
anni, a partire proprio da “La ballata di Cable Hogue”, girato durante la lunga
post produzione di Il mucchio selvaggio. Nel gennaio del 1969 Peckinpah passava sei giorni alla settimana in Nevada a
sud di Overton dove il film è stato in parte girato (le altre location erano
sparse tra Arizona, un ranch a Santa Fe e il Nuovo Messico), ma la domenica era
il giorno sacro, si volava dal suo montatore di fiducia Lou Lombardo per finire
di dare forma a “The Wild Bunch” un film che alla sua uscita ha consacrato
Peckinpah come grande autore e genio dall’estro ribelle, ma è stato più un
successo di critica che di pubblico, ennesima occasione per il sanguino “Bloody
Sam” (soprannome che gli è rimasto incollato dopo i “balletti di sangue” di
Pike Bishop e soci) per fare a capocciate con i produttori.

Il mucchio selvaggio era una rivoluzione per la storia del
cinema e in quanto tale, difficile da accettare per il pubblico, quando un film
cambia lo scenario per davvero, gli effetti del cambiamento cominciano a
vedersi solo dopo una manciata di anni, ma la Warner Bros. non aveva tempo di
aspettare, i cinema nel profondo sud degli Stati Uniti, in cui i western
storicamente andavano via come il pane, non stavano premiando il capolavoro di
Peckinpah, quindi Feldman il produttore senza informare il regista sforbiciò il
film di ulteriori otto minuti (questo spiega i 137 minuti della director’s cut)
per guadagnare una manciata di proiezioni aggiuntive nei palinsesti, come la
prese Peckinpah? Per la salute fisica di Feldman inizialmente molto bene, senza
la Warner il film non sarebbe comunque esistito, ma la quiete durò poco, Bloody
Sam con il sangue alla testa non fece esplodere gli studi solo perché il suo
lavoro su “La ballata di Cable Hogue” era già in stato molto avanzato (storia
vera).

Sam impegnato a dirigere la scena ambientata in un bordello (dopo averne frequentati tanti)

Tutto questo non era altro che legna secca sotto il fuoco
del mito crescente di Sam Peckinpah, l’eccentrico genio che aveva visto i suoi
lavori migliori macellati da quei filistei di produttori hollywoodiani, ecco
perché Bloody Sam non si è mai lanciato nell’impresa di sfornare una versione
“director’s cut” di Sierra Charriba, per lui quel film era molto più “utile”
come esempio della sua crociata, l’autore che aveva sfidato la mietitrebbia del
sistema e aveva comunque sfornato un capolavoro.
L’immagine pubblica di Peckinpah ne uscì fortificata, le notizie sulla sua vita
sregolata, il suo fascino naturale (capace di ammaliare le donne) e il suo
carisma (con cui attirava a sé i fedelissimi della sua cerchia, quella che lui
chiamava il suo “mucchio selvaggio”) facevano del regista di Fresno uno strambo
incrocio tra Orson Welles, Hunter S. Thompson e un pistolero del vecchio West, ma secondo voi un tale cavallo di
razza può essere domato? Proprio no, infatti mentre la critica da lui voleva
altri “balletti di sangue” come quello di Pike Bishop e compagni, Sam
Peckinpah, decise di sfornare il suo film più intimo, per altro con pochissimo
sangue, ad esclusione di quello di una salamandra, ma su questo ci torniamo,
lasciatemi l’icona aperta.

Peckinpah nella sceneggiatura scritta da John Crawford e
Edmund Penney per “The Ballad of Cable Hogue” ci ritrova subito la sua poetica
e, a ben guardare, anche molto della sua vita, infatti resta il copione che ha
subito meno riscritture da parte del vecchio Sam che per dirigerlo ha radunato
i pretoriani, i fedelissimi del suo “mucchio selvaggio”: il direttore della
fotografia Lucien Ballard che qui ha potuto scatenarsi con i toni caldi del
deserto, i montatori Lou Lombardo e Frank Santillo e per il ruolo del
protagonista, Jason Robards, l’attore che diretto da Peckinpah era stato
responsabile del grande ritorno del regista con il film televisivo “Noon
Wine”(1966), infatti i due nel frattempo erano diventati grandi amici e
compagni di sonore sbronze (storia vera), tanto che Peckinah fu testimone di nozze
dell’attore e testimone di chissà quante serate, barcollando uno appoggiato
all’altro, tentato di ritrovare la strada di casa intonando stornelli stonati e
sbronzi, l’equivalente locale di “Romagna mia” per capirci.

“Romagna mia, Romagna in fiore, tu sei la stella… Come continuava poi Jason?”, “Non mi ricordo Sam, mi gira tutto”

Per la colonna sonora Peckinpah ottiene i servigi di un
maestro come Jerry Goldsmith che firma una vera e propria ballata, sghemba e
coinvolgente quanto il film stesso che ben si sposa con canzoni “personali”
dei singoli personaggi, quasi dei temi musicali dedicati, per Hogue il pezzo “Tomorrow
is the song I sing” e per il Hildy la tenera e malinconica “Butterfly
Morning”.

In ogni caso, anche per “La ballata di Cable Hogue” i
problemi non si sono fatti attendere, la lavorazione anche questa volta è
andata oltre i tempi previsti, non tanto per i colpi di testa del regista,
quanto per l’idea di Peckinpah di dirigere tutto in formato panoramico,
utilizzando vecchie macchine da presa che con la polvere del deserto si
bloccavano spesso e poi bisogna dire che anche diciannove giorni di ritardo
accumulati a causa delle piogge torrenziali non hanno aiutato, facendo
lievitare il budget a 3,7 milioni di fogli verdi, con sopra facce di alcuni ex
presidenti defunti che poi erano solo, vabbè robetta… 3 milioni in più di
quanto previsto dalla Warner Bros. (storia vera). Ma potete controllare forse
il deserto, oppure l’acqua? Se non vi chiamate Cable Hogue di sicuro no.

“Acqua, hai un minuto per venire fuori o apro il fuoco”

La storia è quella dello spiantato Hogue (Jason Robards) che appunto spiantato
e troppo buono, si lascia fregare dai suoi due compari Bowen (Strother Martin)
e Taggart (il leggendario L.Q. Jones. A proposito di fedelissimi del regista)
che non solo gli fregano l’acqua e lo abbandonano nel deserto, ma lo
“coglionano” anche canticchiandogli una irridente canzoncina ‘sti bastardi. Cable
Hogue come Il Buono vaga nel deserto
e fa un patto con Dio: «Se mi fai trovare l’acqua, giuro che non peccherò mai
più». Detto fatto Hogue infila un dito nella sabbia e trova tanta Sweet water (con Jason Robards di mezzo,
spero mi sia concessa la citazione) che gli permette di fondare una strategica
stazione, collocata proprio lungo il percorso delle diligenze. 

“Montage” e “split screen”, Peckinpah non si fa mancare proprio niente.
Grazie al colpo
di fortuna e alla peculiarità del luogo, Cable Hogue svolta, diventa imprenditore
e comincia a intrattenere buoni rapporti con i locali, in particolare con la
bella prostituta Hildy, ruolo ingrato per Stella Stevens, quello della donnina
di facili costumi dal cuore d’oro (un archetipo che Hollywood non nega a nessuna attrice), ma per la sua prova
anche una delle interpretazioni più memorabili dell’attrice. Anche se nemmeno la
bella Hildy riesce a distrarre Cable dal suo desiderio di vendetta: un giorno
Bowen e Taggart dovranno per forza ripassare dalla sua stazione e lui sarà lì
ad aspettarli.
L’entrata in scena di Hildy, un’inquadratura offerta in Maschi-O-Rama.

“The Ballad of Cable Hogue” è un film strano che poi è il
miglior aggettivo che si possa applicare a donne, uomini e pellicole. Lo stesso
Peckinpah che lo amava molto e lo considerava uno dei suoi film migliori, lo ha
definito una sorta di “Le mosche” di Sartre imbastardito con la comicità dei
Keystone Cops, fieri esponenti della commedia slapstick, all’inizio del ‘900. Ma il sangue? La violenza? La si
trova quasi tutta nella prima scena, avevo una salamandra da chiudere su
un’icona lo faccio subito. No volevo dire, un’icona da chiudere su una
salamandra.

Vagando nel deserto nel primo minuto del film, Hogue spara
ad una salamandra a rallentatore, sembra quasi un contentino concesso da
Peckinpah al suo pubblico: volete i “balletti di sangue”? Questo è tutto quello
che avrete. Una chiave d’interpretazione del film, se vogliamo, un modo ironico
di iniziare anche se Sharon la figlia del regista invitata dal padre sul set,
non ci ha trovato nulla di particolarmente divertente nell’uccidere una
salamandra per girare un film (dettaglio che, per quello che conta, mi trova
anche d’accordo). Ma su questo dettaglio quel mulo di suo padre non ha voluto
ascoltare ragioni, nemmeno la strada dell’ironia è servita a convincerlo, sul
set sono iniziati a comparire cartelli con finte citazioni del tipo: «Uccidere
una lucertola il giovedì porta sfortuna» firmato da Akira Kurosawa, uno degli idoli di Peckinpah.

“Lo sssssapevo che non ci dovevo lavorare con Ssssssam Peckinpah, mannaggia al mio agente!”

Niente da fare, la povera salamandra non è arrivata viva a
fine produzione, per la furia di Sharon (figlia di cotanto padre) che aveva dei
precedenti con papà in tal senso, non aveva mai superato quella volta in cui
con tutta la famiglia dovettero fuggire nottetempo dalla loro villa tra le
colline di Santa Monica, per via di un incendio (quella zona ne è soggetta
ancora oggi, la cronaca anche recente purtroppo lo conferma). Sam caricò moglie
e figli in auto in tutta fretta, ma poi tornò indietro per salvare le bozze
delle sue sceneggiatura, la piccola Sharon dal finestrino dell’auto gridò al
padre di prendere Simbo, il meticcio di famiglia, Rita, la Weimaraner di Sam e
i gattini appena nati che stavano nel capanno. Simbo e Rita che avevano capito
l’antifona, si presentarono nei pressi dell’automobile sulle loro zampe, ma
quando Peckinpah tornò trafelato, tra le braccia aveva solo i suoi preziosi
fogli (storia vera). La figlia non ha mai perdonato un padre che metteva la sua
arte sopra ogni altra cosa, che fossero cuccioli di gatto oppure una
salamandra, i geni possono affascinare, ma bisogna sempre guardare entrambe le
facce della medaglia e per Peckinpah, la sua arte e la sua turbolenta vita sono
sempre state intimamente intrecciate, forse molto più di altri suoi colleghi.

Ecco perché il regista teneva così tanto a “La ballata di
Cable Hogue” perché non solo incarna tutta la sua poetica e una buona porzione
della sua vita, ma perché è un film che dimostra di avere un cuore enorme, ma
ogni tanto ti colpisce a tradimento (chiedete alla salamandra per conferma)
che poi è proprio come Peckinpah per una vita intera ha trattato mogli, figli,
figlie, colleghi di lavoro, amanti e prostitute che non ha mai nascosti di
frequentare nei suoi ripetuti viaggi in Messico (ma non solo).

Anche i titoli di testa mettono in chiaro il tono più giocoso del film.

Immaginate un uomo capace di aprirvi le porte di casa, di
dare feste incredibili che duravano tutta la notte e in grado di pretendere
fedeltà assoluta sempre, ma anche in grado di sfuriate violente al primo
accenno (secondo lui) di tradimento, cosa vi dicevo delle due facce della
medaglia? In “The Ballad of Cable Hogue” si trovano entrambe, stemperate dal
lato più guascone di Peckinpah, quello che tirava solo nelle feste tra amici e
durante le sbronze con Jason Robards. Già, il vecchio Giasone, parliamo di lui!

Nessuno come Robards ha saputo rappresentare, secondo me, la
malinconia per il tempo che passa al cinema, lo ha fatto in più di un’occasione, utilizzando sempre
al meglio quel suo volto burbero e tosto, combinato a quello sguardo
malinconico che per Cable Hogue è perfetto, un uomo che rappresenta un’epoca
che stava per tramontare, per certi versi una critica al Capitalismo rampante,
a tutte quelle tipologie di persone che Peckinpah sopportava poco, quelli con
“l’ufficio ad un piano più alto del primo” che Bloody Sam ha sempre visto come
fumo negli occhi (ogni riferimento ai produttori di Hollywood è puramente
voluto).

Cable Hogue diventa un piccolo imprenditore, con la sua stazione
di servizio rappresenta la critica di Sam all’America che ha abbandonato
speroni e cappelli a tesa larga, in favore di giacca a cravatta. Il film è uno
sguardo divertito, ma profondamente malinconico ad un’era al tramonto, ancora
una volta Peckinpah ci invita al funerale della frontiera americana e cosa si
fa ad un funerale? Ci si commuove, si pensa al passato e qualche volta si ride
delle vecchie battute.

Gli uomini di chiesa di Peckinpah, tutti dei gran soggettoni.

Ecco perché “La ballata di Cable Hogue” è pieno di momenti
divertente con cui Peckinpah caratterizza i personaggi, non manca nemmeno qui
la figura ricorrente nel suo cinema, del predicatore non proprio ligio al suo
dovere, una critica alla religione che, però, qui ci viene raccontata in modo
spudoratamente comico, attraverso il personaggio di padre Joshua Duncan Sloan
(David Warner che vedremo tornare nel corso della rubrica), un predicatore
erotomane che utilizza la scusa della religione per allungare le mani e tentare
di “consolare” giovani vedove, in momenti assolutamente… Si può dire cretini
parlando del cinema di Peckinpah? Lo dico in senso buono, perché le trovate
comiche volutamente esagerate di questo film mi fanno sinceramente ridere,
Joshua è una macchietta che strappa simpatia e solo Hildy riesce a tenerlo a
bada («Tu le pecore non le pascoli con me»).

Un tono da commedia quasi scollacciata in cui, come già
fatto in alcuni passaggi comici di certi episodi di “The Westerner”, Peckinpah
si gioca momenti alla “The Benny Hill Show” (un po’ più della mia generazione
rispetto ai Keystone Cops, scusami Sam), in cui i personaggi corrono al doppio
della velocità per provocare la risata, alla faccia di chi da lui voleva solo i
rallenti.

Manca giusto la musica di sottofondo.

“La ballata di Cable Hogue” è una ricostruzione impeccabile
di un’epoca che stava finendo, i saloon, i bordelli le stazioni e le tratte
delle corriere sono gli ultimi sussulti della frontiera americana, di cui
Peckinpah grazie alla fotografia di Lucien Ballard, coglie il lato più
romantico, con la malinconia che solo un ragazzo cresciuto in un ranch
mitizzato nella sua testa, potrebbe mai avere. Ma dove il film si gioca la sua
carta migliore è senza ombra di dubbio il rapporto tra Cable Hogue e Hildy.

Hogue è un uomo che non capisce di aver vinto, tiene le sue
ferite aperte covando vendetta contro gli ex compari che lo hanno abbandonato
morente nel deserto, aspetta il giorno di vederli tornare solo per poterli
uccidere, ma intanto nella sua vita è arrivato un uragano di vita che risponde
al nome di Hildy, l’unica in grado di limare gli spigoli vivi di Hogue, come
solo la donna giusta può fare nella vita di un uomo.

Uno spaccato della vita di coppia dei protagonisti.

Il loro rapporto è descritto con una tenerezza incredibile,
anche il classico momento “va tutto bene” della pellicola, viene sottolineato
da Peckinpah con la malinconica e sognante “Butterfly Mornings”, un duetto a
due voci che rappresenta l’armonia della vita di coppia alla perfezione, sembra
quasi di stare sbirciando i due insieme, in un loro momento di vita. Niente
male per uno capace di sacrificare salamandre, gattini, matrimoni e amicizie in
nome della sua arte.

La vendetta è un piatto che va servito freddo (perché atteso per anni)

Il battibecco a cena tra Cable Hogue e Hildy è un altro
momento intimo molto bello, un duello verbale tra pari in cui la bionda emerge
come uno dei pochi personaggi femminili positivi della filmografia di
Peckinpah. Le donne per Bloody Sam sono da conquistare, ma quasi sempre alla
fine gli uomini prendono le loro decisioni da soli, un punto di vista maschile
che gli è valso l’etichetta di maschilista, ma in un film come “The Ballad of
Cable Hogue” si vede anche molto del suo tormentato rapporto con l’altra metà
del cielo che poteva essere affettuoso oppure uno scontro, come la scena della
cena in cui Bloody Sam deve aver riversato dentro tanto delle sue litigate con
le varie ex moglie, anche il fatto che Hildy sia una prostituta, dettaglio
leggerissimamente autobiografico per il vecchio Sam.

Cable Hogue è un testone che ha molto del suo regista, non è
certo un caso se verrà (letteralmente) travolto dalla modernità, qui
rappresentata da un’automobile, un oggetto che Hogue considera orribile e che
nei film di Peckinpah fanno spesso capolino come oggetti alieni che non
portano mai niente di buono perché rappresentare la fine dell’epoca della
frontiera di cui Sam Peckinpah è stato uno dei massimi poeti al cinema.

La frontiera americana e i suoi protagonisti, giunti all’ultima curva della loro storia.

“La ballata di Cable Hogue” è un vero e proprio funerale,
esattamente come quello che viene fatto a Hogue su sua richiesta, ancora da
vivo. Il funerale della frontiera e del sogno americano, quello vero, quello
come lo intendeva Peckinpah che per questo estremo saluto ai tempi andati,
passa tutta la gamma di emozioni tipica di un funerale. Purtroppo il pubblico
nel 1970 non lo capì, infatti il film incassò solo 5 milioni di fogli verdi con
sopra facce di ex presidenti defunti e, malgrado sia stato uno dei pochi film
di Peckinpah a non venire rimaneggiato dalla casa di produzione, i dissidi non
sono mancati… Che novità, vero?

Dopo le prime proiezioni di prova i giudizi del pubblico
andavano dal molto buono all’eccellente, ma la Warner Bros. considerava la
storia troppo strana e complicata da “vendere” al pubblico e quel finale
deprimente (secondo loro) di certo non aiutava, quindi relegarono “La ballata
di Cable Hogue” a piccoli cinema di periferia, condannandolo così ad un ben
misero incasso. Peckinpah in tutta risposta girava i college e i raduni dove
veniva invitato a tenere lezioni di cinema con una copia di questo film sotto
il braccio da mostrare con orgoglio, nessuno è profeta in patria, dicono, per
Bloody Sam era ora di cambiare aria e così per questa rubrica. Tra sette
giorni, andiamo tutti in Cornovaglia, non mancate!

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