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La casa delle bambole – Ghostland (2018): niente più sedativi per Laugier, grazie

Ve lo ricordate Pascal Laugier? Sì, dài, è il regista di quel
capolavoro di “Martyrs” (2008), uno di quei pochi titoli capaci di uscire
apparentemente dal nulla, se non dalla testa di Laugier e di imporsi subito
come un classico istantaneo, un titolo che alza l’asticella della qualità (e
della violenza) nei film horror.
“Martyrs” è uno di quei film talmente malati che i sanitari
hanno immediatamente messo sotto medicinali il buon Pascal per tentare di
sedarlo e, purtroppo per noi, ci sono riusciti benissimo, perché il film
successivo del regista francese era quella porcheriola di “I bambini di Cold
Rock” (The Tall Man, del 2012), una roba praticamente innocua, specialmente
dopo i calci in bocca di “Martyrs”.

“The Tall Man” era il tentativo di mettere il piedino nella
terra della torta di mele che, non paghi di aver sedato il francesino, hanno approfittato
del suo stato catatonico per sfornare un remake americano di “Martyrs” uscito
nel 2015, la prova concreta che gli Yankee del film Laugier non ci hanno capito
un’infiocchettatissima. Cosa aggiungere di questo remake? Direi nulla, perché
non sarebbe carino da parte mia, voi siete venuti fino qui su questa Bara, dedicando
minuti del vostro tempo e non sarebbe il massimo farveli spendere leggendo io
che snocciolo insulti e bestemmie.

“Con chi stai parlando?” , “Cassidy, ma sta dicendo un sacco di parolacce dopo che gli ho chiesto del remake”.

“Martyrs” il remake, faceva così schifo, ma così schifo che
evidentemente è riuscito ad interferire con l’effetto dei sedativi nel sangue
di Laugier che torna nel mondo dei registi con delle cose da dire con il suo
nuovo film, “Ghostland” anche noto con il titolo “Incident in a Ghostland” che
da noi in uno strambo Paese a forma di scarpa uscirà con il titolo di “La casa
delle bambole – Ghostland” e, siccome è un titolo che NON parla di fantasmi,
per assurdo, forse, sarebbe stato meglio intitolarlo solo “La casa delle bambole”
che ha un riscontro all’interno di una storia che cambia direzione,
almeno un paio di volte, dettaglio che mi piace sempre in un film.

Ecco, se inizi un film così, decisamente hai tutta la mia attenzione.

L’inizio, bisogna dirlo, attira subito l’attenzione una foto
di H.P. Lovecraft e sotto un’ideale dedicata al solitario di Providence,
definito di gran lunga il migliore di tutti da una certa Elizabeth Keller. Chi è
Elizabeth, detta Beth, Keller? Quando facciamo la sua conoscenza è una
ragazzina interpretata da Emilia Jones (vista in High-Rise e Brimstone),
parecchio dark e molto appassionata dei lavori di Lovecraft, il suo sogno è
quello di fare la scrittrice, ovviamente di romanzi horror, all’inizio del film
legge in auto il suo ultimo lavoro all’entusiasta mamma Pauline (l’attrice e
cantante canadese Mylène Farmer) e alla decisamente meno galvanizzata sorella
Vera (Taylor Hickson, intravista in Deadpool).

“Ci dormi tu qui con quella roba inquietante, io faccio le valige!”.

Pascal Laugier ha già ampiamente dimostrato in “Martyrs” di
conoscere i cliché del cinema horror e di divertirsi a lanciarli in faccia al
pubblico utilizzandoli come indizi da seguire, per poi colpirci sulla capoccia
quando siamo distratti a seguire false piste, questa volta il classico elemento
dell’orrore è un camioncino dei gelati guidato da due loschi figuri che
avvicina la famigliola in viaggio verso la casa della defunta nonna, un’ex
scrittrice con il pallino delle bambole con cui ha riempito la casa, così
abbiamo dato un senso anche al titolo del film.

L’unico altro indizio fornito da Laugier è un titolo di
giornale, letto distrattamente durante una pausa per il rifornimento, che racconta
di pazzoidi che rapiscono e seviziano giovani ragazzine, state iniziando a
notare come i pezzi vanno al loro posto? Bene, è solo Pascal che ci sta mandando
a zonzo per i pom, per i pim, per i prati.
Ma ci saranno ancora i camioncini dei gelati negli Stati Uniti?
Ma soprattutto: qualcuno ancora si fida a comprarci davvero il gelato? Gli
autori nel corso degli anni sembra che si siano uniti tutti insieme per
trasformare la musichetta dei camioncini in qualcosa di sinistro, da John Carpenter, ai fumetti di Spawn, passando per Borat e i racconti
di Stephen King, ormai si contano
solo esclusivamente esempi negativi di camioncini dei gelati e dei loro
autisti, “We all scream for ice cream”, diceva un tradizionale pezzo Jazz e,
purtroppo, le giovani protagoniste di “Ghostland” si ritroveranno a farlo
parecchio.

I scream, you scream, we all scream for ice cream.

In “Ghostland” Laugier riesce a tratteggiare due giovani
protagoniste, sorelle proprio come quelle di “Martyrs” stereotipate, ma
credibili: da un lato Beth la darkettona, dall’altra Vera, simpatica come un
calcio negli stinchi. Che, comunque, riescono a guadagnarsi l’attenzione del
pubblico, specialmente per il modo brutale e ingiustificato in cui vengono
aggredite una volta raggiunta la casa della nonna, ma anche per tutto quello
che capiterà loro nel resto del film.

Sì, perché Beth definisce la casa della nonna, come «È la
casa di Rob Zombie» e con tutte quelle bambole di porcellana inquietanti,
magari non proprio di Roberto Non-Morto, ma di sua nonna sì! Nella casa ci sono
bambole ovunque, non vengono fuori dalle fottute pareti (cit.), ma dai fottuti
specchi sì, visto che l’adorabile nonnina ne aveva anche uno (inquietantissima)
a molla pronta a cicciare fuori da uno specchio. Ecco, sei tutto intento a
pensare che ora Pascal Laugier metterà su il classico film, con dei tizi di
città finiti a sbagliare strada e ad aprire una porta che sarebbe stato meglio non aprire ed invece lui ti sfila via il
tappeto da sotto i piedi cambiando lo scenario, quindi ve lo dico per
correttezza: da qui in poi moderati SPOILER
sul resto della trama, roba da poco, ma per analizzare il film qualcosa bisogna
svelare.
L’arrivo in scena di due figuri loschissimi, coincide con l’inizio
della mattanza, diretta senza tirar via la mano da Laugier che improvvisamente
pare giocarsi un altro classico trucchetto del cinema horror: la protagonista
che si sveglia urlando nel suo letto, era tutto un sogno? Più o meno, visto che
ora Beth è cresciuta (ed è diventata la Crystal Reed vista in qualche stagione
di “Gotham”), una scrittrice affermata, con marito e figlio piccolo fanatico
del suo costume da Arlecchino. Il suo sogno di diventare una scrittrice horror
si è avverato, il suo nuovo romanzo intitolato “Incident in a Ghostland”
(quindi stiamo già guardando il film che ne hanno tratto? Non so, chiedete John Trent) sta per uscire ed è anche il più autobiografico della scrittrice.

Non facciamo le solite battute del tipo è cresciuta bene, dai su! Fate i seri.

 Tutto prosegue bene, fino a quando una strana telefonata non
fa correre Elizabeth a casa di sua madre, solo per trovare sua sorella Vera
(nella versione adulta interpretarla da Anastasia Phillips), chiusa nello
scantinato, impegnata ad urlare strambe frasi. Pascal Laugier ha fatto svoltare
ancora una volta il film passando da una roba in stile “Non aprite quella porta”
a un film sugli esorcismi? Prima di tirare le fila vi suggerisco di tenere a
mente il dettaglio dello scantinato, un posto dove per accedere bisogna
scendere in profondità, spesso usato nelle storie (anche horror) per rappresentare
l’inconscio, basta ho detto troppo, FINE
SPOILER!

“Ghostland” si gioca un elemento che gradisco molto, ha una
chiave di lettura quasi Gilliamesca
(ma ho promesso di non aggiungere altro, quindi qui mi fermo) che mi trova
parecchio ben predisposto, ma poi trattandosi, comunque, di un film di Laugier
piazza sonore botte e notevoli sganassoni a noi spettatori e alle sue due
protagoniste che recitano tutto il tempo tumefatte in volto, peste e gonfie.
Ora mi piacerebbe dire che l’elemento del dolore è ancora
una volta la via verso l’illuminazione come accadeva in “Martyrs”, trattandosi
dello stesso autore, è impossibile non fare il paragone, ma “Ghostland” non ha
la stessa brutale potenza del suo predecessore e quando smette di far cambiare
(sotto) genere alla storia, imbocca gli ultimi cento metri e corre dritto verso
il traguardo.

“Shhh, non fare rumore o Manuel Agnelli ci sentirà”.

Il risultato è una buona vittoria, ma a differenza di “Martyrs”
manca l’ultima volta, quella che trasformava quel film in qualcosa di geniale
e lascia “Ghostland” ad un gradino più basso del podio. Ora, siccome ho deciso
di non rivelare altro, posso dire che ho gradito il grosso METAFORONE di fondo
sul potere dell’immaginazione, ho gradito un po’ meno quella strizzata d’occhio
con mascherone di gomma tanto vistoso quando molto farlocco a cui Laugier non
riesce a dire di no.

Questo appiattimento nell’ultima mezz’ora di film è stata la
non svolta che non mi attendevo, per più di tre quarti la pellicola tiene
benissimo botta, poi (purtroppo) il metaforone termina la benzina e tocca
accontentarsi degli ultimi ammazzamenti e della violenza orrende perpetuata
contro le due protagoniste.

“Non piangere, alle protagoniste di Martyrs è andata pure peggio”.

Diventa davvero impossibile non provare empatia per quelle
due poverette, persino Vera fino a poco prima odiosa diventa subito una vittima
che di certo non si merita una violenza crudele quando mostrata e ancora più
crudele quando solo accennata da Laugier, un regista che, se fosse per me,
dovrebbe stare lontano a vita dalle medicine calmanti, perché il cinema
brutto sporco e cattivo lo sa davvero fare.

Purtroppo, la missione di mescolare realtà e finzione di “Ghostland”
ha tracimato oltre il bordo del vaso, trovo davvero assurdo (per non dire
vergognoso) che un film che lavori sull’empatia che proviamo per due ragazzine
maltrattate, poi maltratti sul serio ragazzine per essere realizzato. La storia
è abbastanza nota da aver anticipato l’uscita del film, durante uno degli
ultimi giorni di lavorazione, Taylor Hickson girando una scena
piuttosto concitata è rimasta gravemente ferita al volto sul set, per la
mancanza di precauzioni prese, a detta dei legali della Hickson per la fretta e
l’incuria.

“Inizio a capire cosa provano i protagonisti di Toy Story”.

Su indicazioni del regista Taylor Hickson stava colpendo con
i pugni una porta, accanto alla quale era appeso uno specchio che cadendo e
frantumandosi ha sfregiato il volto della 19enne, si parla di una cosa come 70
punti di sutura per lei, più i dubbi sul suo eventuale recupero fisico e in
seconda battuta, il resto della sua carriera di attrice.

Mi limito a riportarvi i fatti perché io la mia idea me la
sono fatta, voi vi sarete fatti sicuramente la vostra, ma personalmente le
crociate da “Indignados” le lascio volentieri a chi piace condurle, perchè sparare giudizi è fin troppo facile, per quello
che vale spero che Taylor Hickson recuperi in pieno, ma se davvero questo
brutto incidente è avvenuto negli ultimi giorni di riprese del film, una
tiratina di orecchie a Laugier me la concedo, considerando la perdita di potenziale
del finale del film, forse il Francese non è molto portato per concludere al
meglio le sue storie. Oppure, sono le medicine che gli hanno somministrato per
sedarlo ad essere tornate in circolo a scapito, purtroppo, prima di Taylor
Hickson e poi di noi spettatori.
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