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La città proibita (2025): la vendicatrice di Roma Est

Dopo Jeeg e i suoi FreaX-Men, Gabriele Mainetti torna colpire più duro che mai. Ce ne parla il nostro sensei Quinto Moro, rigorosamente senza spoiler.

Il guaio del cinema italiano non è mai stato la mancanza di talenti o di maestranze, ma un cronico lassismo nella produzione. Non è solo questione di soldi, visto che per produrre boiate se ne spendono in abbondanza tutti gli anni. Si vive degli exploit individuali, di quelli che osano, che sanno spendere un budget per confezionare qualcosa che sia degno visivamente e non faccia sanguinare occhi e orecchie. Pochi, direte, ma sulla lista buona possiamo sottolineare il nome di Gabriele Mainetti, uno che con appena tre film in dieci anni ha dimostrato che il cinema di genere è sempre la strada maestra per rompere gli schemi e la noia. E che no, il nostro genere di riferimento non è la commedia né i melodrammi con le solite storielle d’amore che hanno rotto voi sapete cosa. Provate a spiegarlo voi a chi per “La città proibita” parla di storia d’amore che, spoiler, non è minimamente l’aspetto centrale del film ma un elemento accessorio e che, pensate un po’, esiste nel 90% dei prodotti d’intrattenimento. Solo che nessuno si è mai ossessionato per le storie d’amore in Mission Impossible, per dire. Certa gente direbbe che pure Merantau è una storia d’amore, eccheccavolo.

Tutti a parlare di romanticismo, ma di quanti calci gli ha dato prima di fare la gentile vogliamo parlarne?

“La città proibita” sarebbe piaciuto a George A. Romero, dove la A starebbe per il romanesco Ammazza! esclamato durante la visione. Fidatevi, e se non vi fidate guardate il film. Nato col titolo provvisorio di “Kung-fu all’amatriciana”, “La città proibita” ruba il titolo a un film di Zhang Ymou del 2006 e magari lo fa per vendicare chi, come forse anche Mainetti da cultore dei film di menare, all’epoca si aspettava di vedere un pirotecnico spettacolo di arti marziali e non un melodramma in costume. Vent’anni in attesa di giustizia, grazie Gabriè.

Mainetti ha tutti i riferimenti giusti senza il vizio della citazione facile e fine a se stessa, quindi prova – e riesce – a fare un film di kung fu fregandosene di tutte le etichette, omaggiando il genere nel modo migliore possibile: scene di combattimento tecnicamente valide e spettacolari, ad alto tasso adrenalinico, di quelle che ti fanno saltare sulla poltroncina del cinema (andatelo a vedere, che è pure costato un botto). Il tutto ben integrato con l’ambientazione romana e i personaggi italici che fanno cose italiche, ovvero tirare a campare.

“La città proibita” è il nome di un ristorante: specialità di carne cinese, rigorosamente al sangue.

Il film parte dalla Cina con discreto furore, dagli allenamenti di kung-fu delle sorelline Yun e Mei, ma solo una ha la cazzimma di chi si prepara ad assassinare Xi Jinping a mani nude. Il guaio per Mei è d’essere una secondogenita negli anni della politica del figlio unico, e dover vivere nascosta. I guai per il resto del mondo iniziano quando, ormai cresciuta, Mei va in cerca della sorella scomparsa. Scartata ai provini per lo sfruttamento della prostituzione, Mei si fa strada a suon di pugni e calci in una scena introduttiva cazzutissima che mette in chiaro gli intenti della pellicola. Dopo un’epica rissa nelle cucine di un ristorante cinese con coltellate, padellate, olio bollente e tirate di grattugia sulle braccia (ahi), Mei sfugge alle orde degli scagnozzi cinesi per ritrovarsi nelle affollate strade di Roma. Un pezzo di Cina nelle viscere di Roma, pronti via e Mainetti ci ha già fregati tutti. [Nota Cassidiana: Anche perché Mainetti chiude alla grande il cerchio con un’altra furia del Kung-Fu che sbaracava a Roma per una storia che prevedeva, pensate un po’, anche un ristorante.]

«Cerco i tizi che scrivono su questa Bara Volante per riempirli di botte»

Ciascun combattimento ha la sua logica e il suo posto nel racconto, e segna i passaggi della struttura in tre atti. Non c’è mezza scena in cui la regia e le coreografie appaiano abbozzate o un’imitazione di qualcos’altro. Siamo dalle parti del miglior cinema di Hong Kong che fu, e quello post The Raid, duro e violento che non si tira indietro quando si tratta di accoltellare e mandare schizzi di sangue.

Invece di mettere un’attrice a far ginnastica fingendo di saper menare, la protagonista Yaxi Liu è una vera artista marziale che mena come un fabbro ed è sorprendente e intensa nelle scene più drammatiche. Tutti gli stuntman sono d’importazione cinese, artisti marziali veri coreografati da quel Liang Yang che lavora stabilmente nella Hollywood che conta, quella dei grandi budget. E infatti il film è costato la bellezza di 17 milioni di euro, tanti per gli standard nostrani ma si vedono tutti, ché il cinema non è fatto solo di buone intenzioni.

«Ma chè davero semo finiti in un firm de arti marziali?»

La furia di Mei investe la vita di Marcello, figlio dello sugar daddy che è sparito insieme a sua sorella. Mentre Mei cerca giustizia, i personaggi italici si sono rassegnati al fatto che un vecchio puttaniere si sia lasciato dietro figlio, moglie, ristorante e debiti. La ruggente furia vendicativa dell’est contro la rassegnazione italica di chi cerca solo di andare avanti e dimenticare. La seconda sterzata però arriva all’improvviso, porta il racconto su terreni più sporchi e oscuri, e prepara un’altra epica scazzottata, il classico duello uno contro cento. L’arena è il ristorante del facente funzione di capomafia cinese Mr. Wang, pure lui abile nel combattimento che, si capisce, sarà protagonista dell’inevitabile resa dei conti finale.

Segue l’immancabile voglia di tenerezza tra la guerriera cinese e il cuoco italiano che ha fatto gridare qualche penna stipendiata di troppo al film sentimentale, alla storia d’amore (sigh!)

Il remake di “Vacanze romane” che ho sempre sognato

Il film si lascia guardare con la promessa di intrattenerti a suon di combattimenti (e la mantiene) ma ha tanto altro da dire. Il valore aggiunto sta in una sceneggiatura che è tutto un equilibrismo tra i mondi che cerca di raccontare.

“La città proibita” sarebbe potuto piacere a George Romero non per chissà quale omaggio al maestro di Pittsburgh, quanto per la filosofia di fondo dell’usare il cinema di genere per un racconto politico. E credetemi, questo è un film politico su più livelli, perché dietro le scazzottate per conquistare i cultori del genere, e gli italianismi del cinema nostrano messi lì per ingraziarsi l’italiano medio e farlo sentire a casa, Mainetti lavora ai fianchi dall’inizio alla fine, smantellando miti e pregiudizi italiani pezzo per pezzo. Non è un caso se tutto ruota intorno a un ristorante che strangola le vite di chi ci sta dentro, e se il villain Mr. Wang finisce per essere uno dei personaggi più sfaccettati e interessanti, buono non solo per la resa dei conti con tanto di flasback leoniano.

Non è un caso nemmeno che i personaggi più rilevanti nella dinamica degli eventi non siano i giovani protagonisti, ma i vecchi che sono la faccia più ingombrante dei rispettivi mondi, e le cui azioni hanno stravolto le loro vite.

Mainetti è fissato: dopo Jeeg Robot ecco Mazinga (questa la capite solo se avete visto ACAB)

Marco Giallini più di tutti deve fare l’equilibrista con quel che gli dà la sceneggiatura. Se la gioca con quella sua faccia un po’ così, atteggiandosi da amicone, da boss di strada, una tigre di carta che la regia (anche con la scelta delle musiche) tenta sempre di alleggerire, mascherando gli aspetti più controversi sul filo della macchietta. Peccato solo che la voce dell’attore non sia a posto e in qualche scena pesa, non per colpa del suono in presa diretta all’italiana.

Mainetti aspetta l’ultima ripresa per colpire quei dinosauri reazionari che del film sono bersaglio principale, con un ultimo colpo di scena che mette in prospettiva l’intero racconto e la sua natura più politica. Ma rende giustizia anche a una scrittura fatta di un’infinità di contrappesi, così com’è l’intricato e delicato meccanismo di una Roma multietnica dove convivono tante anime che non si escludono a vicenda.

Tutto questo in un film figo da vedere che intrattiene alla grandissima, diverte e tira pure qualche mazzata direttamente allo spettatore. Mainetti ci sta provando a svegliare il cinema italiano, e lo sta facendo a schiaffoni. Picchia più forte Gabriè, che qua siamo duri di comprendonio. Andate a vederlo in sala. O dico a Xiao Mei che siete delle brutte persone.

P.S. Mille grazie a Quinto Moro per aver commentato il film! Vi invito tutti a passare a scoprire qualcuno dei suoi lavori, che potete trovate QUI.

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