All’interno di tutte le filmografie, esiste un titolo diverso dagli altri, uno che incarna tutte le caratteristiche proprie del regista titolare dell’infilata di pellicola, ma che per qualche ragione, incassi, mancati premi, in qualche caso sanguinoso flop, non viene riconosciuto come merita.
Mi viene da pensare a Munchausen per Gilliam o a Talk Radio per Stone, ma non ho dubbi ad identificare in “La conversazione” di Francis Ford Coppola, il suo capolavoro quasi dimenticato o per lo meno, incastrato tra gli altri titoli indubbiamente storici che sono sempre i primi che vengono fuori quando si parla del regista di beh, Il Padrino.
In una filmografia piena di classici della storia del cinema e titoli di culto, su cui qualunque altro regista avrebbe costruito una carriera e che per Coppola sono comunque (ottime) seconde scelte, lo zio di Nicolas Cage ha trovato il tempo di dirigere anche questa perla, che ho l’occasione di trattare in vista dei suoi primi cinquant’anni e che a differenza di quello che si potrebbe pensare, con tutto il suo spirito anni ’70, in realtà è nata prima, molto prima.
Ancora oggi è inevitabile non associare “The Conversation” al Watergate che ha travolto l’amministrazione Nixon, forse ai tempi qualcuno deve aver pensato anche ad una sorta di film istantaneo, visto che tra lo scandalo e l’uscita del film ballano solo due anni, in realtà il seme nella testa di Coppola è nato guardando il classico di Antonioni Blow-Up, un’indagine che parte da un elemento colto per caso, lo stesso titolo che avrebbe influenzato anche altri registi della New Hollywood.
La verità è che Coppola avrebbe voluto portare al cinema “La conversazione” ben prima, anche prima de Il Padrino, il titolo che gli ha regalato fama ed eterna – e meritata – gloria, ma che lo ha anche etichettato per sempre, non è un caso se il regista abbia passato la vita a ricordare a tutti la sua natura di vero creativo, di artista amante della sperimentazione anche con la sua casa di produzione, l’American Zoetrope. A distanza di anni ancora fioccano le interviste in cui Coppola dichiara che gli unici due film in cui ha potuto fare sperimentazione ed essere il tipo di artista che avrebbe voluto essere davvero sono stati due, “Non torno a casa stasera” (1969) e questo, che per altro è anche il titolo che il suo protagonista Gene Hackman, indica tra i suoi preferiti tra quelli in cui ha recitato, per tutti questi motivi e per l’introduzione, direi che ci sono gli estremi per il Classido.
Se dell’aria di innovazione era ben presente anche ne Il Padrino, per Coppola non era abbastanza, con l’enorme successo dell’adattamento del romanzo di Mario Puzo, il regista ha ottenuto carta bianca per un film sontuoso, che racconta in parti uguali di intercettazioni e sensi di colpa, un caso emblematico di un artista che annusando l’aria, capisce in che direzione sta tirando il vento a livello istintivo, perché le tecnologie sfoggiate nel film, guarda caso, erano le stesse che hanno messo nei guai l’amministrazione Nixon con lo scandalo Watergate, ma etichettare “La Conversazione” a solo questo elemento, notevole ma secondario, sarebbe un grosso errore di valutazione.
Questo allineamento tra storia (del film) e Storia (di un Paese) è stato quasi fortunoso, perché come detto l’idea per il soggetto venne in mente a Coppola guardando il film di Antonioni da cui pesca elementi che ne sottolineano il legame, oltre alla casualità della scoperta, la presenza di un mimo in una scena chiave è un dettaglio non da poco, così come le fotografie scattate da Stanley (John Cazale, purtroppo pochi film in carriera, tutti mitologici) alle ragazze che si truccano nei finestrini riflettenti del pulmino per le intercettazioni, sono un rimando al lavoro di fotografo del protagonista di Antonioni, anche se i legami con Blow-Up sono essenzialmente due: il coinvolgimento di Walter Murch e la scena di apertura.
Se il piano di Coppola era quello di fondere i concetti chiave del film di Antonioni con il mondo della sorveglianza audio, colui che lo ha reso possibile è stato Walter Murch, che per Coppola è stato oltre che montatore, anche tecnico del suono e consulente artistico, il talento di cui il regista aveva bisogno per raccontare la storia di Harry Caul.
Un uomo grigio, un quarantaduenne che dimostra almeno vent’anni in più perché Gene Hackman era già rugoso e accigliato alla nascita, un personaggio chiaramente ispirato all’Harry Haller de “Il lupo della steppa” (1927) di Hermann Hesse: nome comune, passato sconosciuto, vestiario anonimo e comportamento indecifrabile per tutti, dalla sua amante al suo collega di lavoro Stan. Un uomo incapace di ogni forma di fiducia, alienato rispetto alla società, un essere statico, sicuramente non un caratterino friccicarello, il cui unico fiato di vita sembra utilizzarlo per soffiare dentro ad un sassofono sulle note di pezzi Jazz, che per confronto diretto, sembrano l’esatto opposto rispetto all’andamento della sua esistenza.
Gene Hackman lo interpreta così, con una prova minimale ma non vuota, al massimo svuotata come l’anima del personaggio, il cui linguaggio del corpo risulta essere impressionante, perennemente fuori posto come quando si mette a letto con la sua amante senza nemmeno togliersi l’impermeabile e pericoloso, guardingo, un animale messo all’angolo quando qualcuno minaccia il suo spazio, il suo lavoro e la sua privacy e qui arriviamo al tema cardine.
Cosa vi dico sempre dei primi cinque minuti di un film? Sono quelli che ne determinano tutto l’andamento, il fatto di essere cresciuto con esempi come questo film di Coppola, mi ha portato verso questa conclusione, anche perché parliamoci chiaramente, i primi minuti de “La conversazione” sono la quinta essenza di questa teoria, il campo largo dall’alto sulla piazza beh, spiazza, non offre nessun punto di riferimento al pubblico, che non sa esattamente cosa guardare, come in una di quelle tavole “Dov’è Wally?”, stessa cosa, con l’unico appiglio del mimo, per altro un vero mimo di strada, che attira lo sguardo con la sua esibizione. Una “mossa Kansas city” per gli occhi perché quando dalla folla emerge l’anonimo Harry, si passa dal totale al dettaglio, dal campo largo della Union Square di San Francisco all’inquadratura ravvicinata ma siamo già nel campo della piena sperimentazione, visto che grazie al montaggio (video e sonoro) di Murch, diventa chiaro che quello che vediamo è allo stesso tempo anche quello che ascoltiamo, il punto di vista è quello dello strumento di registrazione, reso però visivamente, il mondo come di solito lo “vede” Harry, intento ad ascoltare ossessivamente la registrazione e da una frase in particolare…
In questo scarto tra campo largo e dettagli, tra quello che crediamo di sentire e quello che pensiamo di vedere, sta tutto il valore de “La conversazione”, che fa della paranoia di Caul uno strumento narrativo, in quello che diventa oltre che un Thriller, quasi un neo-noir basato sull’ossessione per la soluzione del mistero legato ai nastri incriminati e al destino della coppia di amanti composta da Mark (Frederic Forrest) e Ann (Cindy Williams), la moglie del misterioso direttore impersonato da Robert Duvall, un “Maestro” il cui apprendista è un altro pretoriano la cui carriera è stata proprio lanciata da Coppola e insieme a Duvall forma il volto (non per forza buono) dell’istituzione, anche se lo so che per noi spettatori Harrison Ford sarà eternamente uno degli eroi.
Il vero punto di forza de “La conversazione” sta proprio nel lato più fortemente sperimentale della narrazione, là dove chiunque altro si sarebbe limitato ai meccanismi del Thriller, Coppola innova costringendo il pubblico ad utilizzare tutti i suoi sensi, dando importanza in ugual misura alla componente sonora e a quella visiva, con risultati di stampo Hitchcockiano.
I suoni d’ambiente ridotti per fare risalto alla traccia sonora principale, non solo crea un effetto straniante, ma permette allo spettatore di calarsi a livello inconscio nel modo che ha lo stesso Caul di percepire il mondo intorno, ormai così ossessionato dal dettaglio da perdersi nelle intercettazioni alla ricerca di una soluzione al mistero, mentre proprio quelle registrazioni, portano in primo piano il senso di colpa, che riemerge dall’inconscio, ben rappresentato dai momenti onirici, gli unici per altro dove come pubblico, veniamo a conoscenza di dettagli sul passato del misterioso e grigio protagonista.
Trovo quasi ironico che dopo una banale ricerca su Google, tutte le immagini più iconiche de “La conversazione”, prevedano Gene Hackman a tu per tu con una tazza del gabinetto, che ci abbia appoggiato sopra gli attrezzi del mestiere oppure per un riparo temporaneo, proprio dallo scarico arriva la scena più “sanguinaria” del film, che mette in chiaro come qualcosa dall’inconscio del protagonista sia riemergendo, in questo caso il suo senso di colpa.
In tutto questo gioco di intercettazione dell’intercettato, ci si muove tra uno stato di paranoia crescente cercando di collezionare informazioni da mezze frasi, da mezze verità, il risultato è un film fondamentale ottenuto con fatica, dal primo montaggio della durata di quattro ore e mezza, che prevedeva una lunga, lunghissima porzione dedicata ai vicini di casa del protagonista (poi sforbiciati) fino a tutto quello stile da cinéma vérité tanto ricercato da Coppola, passando per le difficoltà di Hackman nel restate all’interno di un personaggio tanto statico, lui da sempre caratterizzato da una tendenza al dài, facciamo che passa anche dal nervosismo – a volte anche aggressivo – del linguaggio del corpo dei suoi personaggi.
Uscito in patria il 7 aprile del 1974, “La conversazione” incassò giustamente pochino, circa quattro milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti, arrivando comunque ad accaparrarsi la Palma d’oro per il miglior film al Festival di Cannes e a gareggiare per gli Oscar insieme ad una tornata di titoli in odore di New Hollywood: “L’ultima corvè” di Hal Ashby, “Il mediatore” di Robert Mulligan, “Gang” di Robert Altman e Sugarland Express dell’altro compare di cene di Coppola, ovvero Steven Spielberg.
Il film ingiustamente non portò a casa nessun premio, nello stesso anno a fare i soldi grossi gù l’altro titolo di Coppola, quel Il Padrino – Parte II che oltre ad essere un capolavoro, ha deciso, forse per sempre dell’andamento della carriera del regista e per quali titolo sarebbe stato ricordato.
Eppure “La conversazione” resta un film sempre incredibilmente attuale, perché potranno anche cambiare i governi e la tecnologia, ma chi controlla la privacy controlla l’andamento della società e della storia, inoltre questo film ha aperto la diga dei grandi film politici americani degli anni ’70, il capolavoro quasi dimenticato di Coppola è il padre nobile dei vari “I tre giorni del Condor” (1975) e “Tutti gli uomini del presidente” (1976), per non parlare dell’omaggio reso a questo film da un altro quasi dimenticato come Tony Scott, che non solo ha replicato quasi identica la scena di Union Square, ma ha dato al paranoico Harry Caul (e al suo attore) quasi un seguito apocrifo con Nemico Pubblico, conferma del buon gusto di quello giusto di casa Scott e di quanto il film di Coppola sia sempre aggiornabile alle nuove tecnologie, che poi sono sempre le stesse vecchie paranoie.
Insomma, ogni filmografia ha un gioiellino dimenticato dalla storia, “La conversazione” è quello di Coppola, per i suoi primi cinquant’anni, cerchiamo di prendere la buona abitudine di citarlo più spesso, perché è stato il primo viaggio nel cuore di tenebra di un uomo, ben prima della barca lungo il fiume e del colonello Kurtz.
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