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La forma dell’acqua (2018): abbracciare il mostro dentro di noi

Guillermo Del Toro è un regista che non ha un grosso pubblico, molto appassionato quello sì, ma non vastissimo in termini di numeri, altrimenti “Pacific Rim” (2013) avrebbe avuto già dodici seguiti ed “Hellboy” sarebbe una trilogia, invece di dover aspettare le nuove interpretazioni rispettivamente di Steven S. DeKnight e Neil Marshall, per inciso: Buon lavoro ad entrambi, vi attendo a braccia aperte.

Ma la capacità di Guillermone di guadagnarsi appassionati non è da sottovalutare, ognuno ha la sua ragione personale per apprezzare il cinema di Del Toro, la mia, se dovessi riassumerla è molto semplice: la passione per i mostri che amavo disegnare da bambino è il punto di contatto tra me e il regista messicano e quando lo sento raccontare che per fare questo film ha rinunciato al seguito di “Pacific Rim”, non faccio fatica a credergli.

Gli credo anche quando racconta che “The Shape of Water” è nato come risposta al suo interrogativo infantile, me lo immagino il piccolo Guillermo seduto per terra davanti alla televisione a guardare il classico “Il mostro della laguna nera” (1954) di Jack Arnold e chiedersi come proseguiva la stramba storia d’amore tra Julie Adams e il mitico Gill-Man, forse il più sottovalutato tra i mostri della Universal, ci ha provato John Carpenter a riportare in auge l’uomo pesce senza riuscirci (storia vera) e lo abbiamo visto comprimario in roba storica come Scuola di Mostri, ma per il nostro Gill-Man, davvero poca gloria, ci voleva il talento di Del Toro per mostrarci che pinne e branchie possono essere usate non solo per spaventare, ma anche per fare un gran film come questo. Ve lo dico solo per sicurezza, da qui in poi possibili SPOILER ittici!

Tenetemi l’icona aperta su questo classico, ci vediamo alla fine del post.

1962, piena guerra fredda, in una base che sembra quella del B.P.R.D. di Hellboy, ci sono grandi scienziati al lavoro su qualcosa di grosso, ma a noi non interessano minimamente, perché fin dal primo minuto, complice la voce narrante, Del Toro mette in chiaro che il punto di vista è quello di una “Principessa senza voce” e anche se l’ambientazione potrebbe sembra quella di un film di spie o addirittura un horror della Universal, in realtà la persona più importante della base, è la signora delle pulizie Elisa (Sally Hawkins), giusto perché sia chiaro da che parte sono schierati Del Toro e tutto il suo film.

Miglior personaggio femminile dell’anno? Abbiamo una candidata!

La routine di Elisa è rigorosa: sveglia sempre alla stessa ora, bagno e uova sode per il pranzo, poi viaggio in pullman fino alla base militare per il turno notturno di pulizia insieme alla logorroica Zelda (Octavia Spencer). A casa ad attenderla nessuno, se non il vicino di casa Giles (un Richard Jenkins da applausi) pittore superato dal progresso passionato di musical e di torte al lime, cioè… in realtà, le torte al lime gli fanno schifo, però gli piace il ragazzo del ristorante, quindi Elisa lo asseconda e basta. La vita di Elisa viene totalmente sconvolta quando alla base viene portato un cilindrone ripieno d’acqua, ma soprattutto di una creatura anfibia che sta a metà tra Gill-Man e l’Abe Sapien proprio di Hellboy che, infatti, è interpretato dal solito mascherato Doug Jones, attore feticcio di Del Toro.

Possiamo tenerlo? Giuro che gli cambierò l’acqua tutti i giorni!!

La creatura è stata catturata dal cattivissimo colonnello Strickland (Michael Shannon… Mi alzo in piedi e applaudo!), anche voi mal sopportate chi non si lava le mani dopo essere andato in bagno? Ecco, questo è il primo dettaglio che scopriamo di Strickland, il resto è pure peggio. La creatura e i suoi polmoni che gli consentono di respirare ovunque potrebbero essere la svolta nella corsa allo spazio contro gli odiati Russi, con cui ha qualche contatto di troppo lo scienziato imputato a sezionare studiare la creatura, ovvero il dottor Hoffstetler (Michael Stuhlbarg, altro giro, altro grande attore che arriva da “Boardwalk empire”), sì, ma prima bisognerà passare sul cadavere della determinata Elisa, fermamente intenzionata a salvare la creatura con cui ha intrecciato una rapporto molto stretto ed ecco che il tuo classico film di spionaggio con i mostri diventa una storia d’amore.

Un uovo va preso per la gola. Volevo dire un uomo! cioè un Uomo-Pesce. Oh insomma avete capito!

Tu prova a mettere in mano una trama del genere ad un regista meno capace, appassionato o conoscitore dei generi cinematografici e stai sicuro che verrà fuori una roba capace di scontentare tutti, troppo horror per chi vuole il barattolo di miele, troppo melenso per chi vuol i mostri, ma per nostra fortuna, a scrivere e dirigere c’è un Guillermo del Toro che anno di grazia 2018, sta in uno stato di forma artistica (non era una battuta sul suo girovita giuro!) che levati, ma levati proprio, il risultato è che “The Shape of Water” è un film unico, non il più bello diretto dal regista Messico, ma probabilmente il più bello dai tempi de “Il labirinto del fauno” (2006), un film diverso da ogni altra cosa proprio perché fa della diversità la sua principale virtù.

Non credo che Del Toro volesse schierarsi politicamente, anzi direi proprio di no, però guardando “La forma dell’acqua” non ho potuto fare a meno di pensare che Guillermo deve aver preso bene l’elezione di quello parrucchinato che sta alla Casa Bianca, questo film sembra la risposta gentile ai metodi (e ai concetti) rozzi del nuovo presidente, un Messicano che fa un film in cui gli eroi sono una signora delle pulizie nera ed un’altra portatrice di un handicap fisico, in cui Richard Jenkins interpreta un omosessuale e il personaggio da salvare è quello che in qualunque altro film sarebbe il mostro da inseguire con il forcone, mentre qui il vero cattivo è un agente del governo, maschio, bianco ed eterosessuale che sogna una Cadillac, ma è più viscido e schifoso di qualunque mostro anfibio.

Del Toro ama così tanto i mostri, che dirige vestito da Dylan Dog.

Sì, perché Del Toro questo film lo avrebbe voluto dirigere tutto in bianco e nero, proprio come “Il mostro della laguna nera” (storia vera) e lo ha ambientato nel 1962, ma la storia e i suoi personaggi sono più attuali che mai, un inno alla diversità che procede per passaggi di trama che sanno anche di metaforoni sottolineati con il pennarello a punta grossa (quando hai un pesce alto due metri come protagonista è una cosa che può accadere), ma che funzionano così bene da risultare un film risoluto e delicato come Elisa, la sua protagonista. A ben guardarlo, “The Shape of Water” sembra voler dire che là fuori, intendo fuori dall’acqua sulle terre emerse, il mondo è un posto brutto, dove ci sarà sempre qualcuno pronto a puntarti il dito e a chiamarti mostro solo perché non fai parte della maggioranza, ma che in qualche modo invita a cercare il “mostro”, l’anomalia, anzi l’unicità dentro ognuno di noi, perché è proprio quella a renderci speciali.

Pensavate che la bella e la bestia ballassero tutto il tempo canzoni di Gino Paoli?

“The Shape of Water” è un valzer ballato in punta di piedi, magari sulle note volutamente retrò dell’azzeccata colonna sonora di Alexandre Desplat che alla rabbia cieca dei reazionari risponde con un sorriso, una carezza e la risoluta dolcezza di chi dice: “Sì, sono diverso da te e proprio per questo sono bellissimo”, già solo per questa ragione, dobbiamo sperare che gli Dei del Cinema conservino Del Toro e il suo talento per un milione di anni.

Difetti? Ci sono, in un film che elogia così la diversità è anche giusto che ci siano, ad esempio per quanto disgustoso (e lo è molto ve lo assicuro) il cattivone di Michael Shannon sembra fermarsi sulla linea invisibile della censura, è chiaro che la sua attrazione sessuale per Elisa, sia una versione distorta e lussuriosa dell’amore puro e tenero che c’è tra la ragazza e la creatura anfibia, ma il film pare minacciare un’aggressione da parte di Strickland che, invece, resta solo accennata. Lo so che sto guardando il pelo nell’uovo (sodo), ma mi ha lasciato la sensazione di un limite che Del Toro non ha voluto valicare che, però, tira un po’ il freno a mano al cattivone.

«Ringrazia che dobbiamo passare il visto della censura»

Inoltre, forse per ragioni di minutaggio, la capacità di leggere il linguaggio dei segni di Zelda, in un attimo si trasforma in una specie di telepatia del personaggio di Octavia Spencer che in mezzo secondo capisce tutto il piano di Elisa senza esserne al corrente. Ok, sono un cagacazzo lo so! Però questi difetti ci sono e a fine film ti lasciano, per assurdo, con la sensazione che Guillermo del Toro potrebbe fare ancora meglio di così! Il che è una bella promessa per il futuro considerando che per me “The Shape of Water” è già tra i migliori film dell’anno, garantito al limone!

Sì, perché come autore Del Toro per la terza volta in fila dimostra che come per Crimson Peak, al netto di una trama lineare è bravissimo a creare un mondo, in cui i personaggi che vivono al suo interno, è chiaro che abbiano un passato e una storia ben delineata (Guillermo ha fornito agli attori pagine e pagine scritte di suo pugno con il passato dei singoli personaggi), un mondo credibile e
visivamente splendido nella realizzazione, anche grazie alla fotografia di Dan Laustsen. Del Toro porta sullo schermo un 1962 rugginoso e umido, in cui i cattivi stanno sicuri all’asciutto, mentre i buoni sono immersi in acqua come la creatura impersonata da Doug Jones, oppure tra pioggia e bagni nella vasca sono sempre fradici d’acqua.

Non stare troppo nella vasca, che poi ti viene la pelle da pesc… vabbè fa niente.

Ma oltre a tenere sempre la macchina da presa intorno ai protagonisti, Del Toro sa anche come scriverli e come dirigere gli attori che li interpretano, ottenendo da tutti il meglio, al fidato Doug Jones sembra quasi che abbia chiesto di scomparire anziché apparire, ad esempio, non fa mai la classica mossa in cui mostra le sue ditone chilometriche, proprio perché questo Gill-Man magari somiglia pure ad Abe Sapien e come lui è ghiotto di uova, però è chiaro siano due personaggi diversi, più istintivo e “rettile”, la creatura di questo film è capace di svolte Horror (i gattofili sono avvertiti), ma anche di pentimento e dolcezza, quando mette una mano pinnata sulla testa di Giles beccandosi da Richard Jenkins uno spassoso «Non credo sia molto igienico» sembra il vostro cane quando ha capito di aver fatto una marachella.

«Bravo pescetto, bravo, ora vai a cuccia su, nuota»

A proposito di Jenkins niente, questo attore ogni volta trova il modo di confermare la mia idea su di lui: talento capace di bucare lo schermo anche in ruoli minori, è stato l’unico del cast a non essere la prima scelta (per il ruolo Del Toro voleva Ian McKellen) e anche l’unico ad essersene fregato delle pagine fornite dal regista con il passato di Giles, qui risponde con un personaggio fantastico che al pari di Elisa, riflette su se stesso e compie un arco narrativo completo. Giles è quello che ribadisce meglio che “The shape of water” sarà pure ambientato nel 1962, ma parla della nostra società di oggi. La frase «A volte penso di essere nato troppo tardi o troppo presto» riassume meglio i dubbi esistenziali di personaggio che sa di non avere niente di sbagliato, ma è costretto a nascondersi lo stesso.

Michael “Capoccione” Shannon, invece, non era così bastardo dai tempi di “Boardwalk Empire”, sono di parte perché quando si tratta di lui mi lancio sempre in lodi sperticate, a mio avviso, tutte meritate, qui ha il compito di farsi odiare dal pubblico, cosa che gli riesce alla perfezione, con un personaggio disgustoso sotto tutti i punti di vista, un servo dei padroni con un’altissima considerazione di se stesso, visibilmente disgustato da tutti i “Perdenti” a cui non vuole essere associato («Io non fallisco io risolvo»), marcio come le sue dita che garantiscono da sole sia la metafora che un paio di pennellate Horror che quando c’è Guillermo di mezzo, per fortuna non mancano mai.

Shannon esplode in una scena da pazzo in tre, due, uno…

Ma il vero capolavoro è Elisa, un personaggio di cui andare molto fieri, sia per chi come Del Toro lo ha scritto, ma soprattutto per Sally Hawkins che lo ha interpretato in maniera grandiosa, lo specchietto per le allodole è quella mezza spiegazione sul suo passato, essere stata trovata orfana abbandonata vicino ad un fiume, con quelle cicatrici ai lati del collo causa del suo mutismo che basta guardarle per veder comparire nella mente di tutti gli spettatori in sala, a carattere cubitali la parola: BRANCHIE!

Ma lo sono poi davvero? Del Toro intelligentemente non risponde, perché non è il passato di Elisa ad avvicinarla alla creatura, ma il suo presente, la sua condizione di ultima degli ultimi la rende un anima affine alla creatura anfibia, per alcuni un mostro per altri un Dio. Sally Hawkins recita con intensità e senza paura di niente, non è certo la vostra bellona da film di Hollywood, è una che potrebbe prendere il bus con voi la mattina per quanto appaia normale, ma brilla di luce propria e proprio per questo è perfetta per la parte.

La bellezza che si trova solo nelle cose ordinarie.

Senza emettere una singola sillaba comunica alla grande, la vediamo sognante davanti ad un vecchio film, incazzata e determinata nel portare avanti il suo piano di salvare la Creatura, oppure spavalda come un eroe d’azione quando sillaba un sardonico F.U.C.K. in faccia al cattivo di turno, ribadisco: teniamocelo stretto un personaggio così, perché non ne vedremo tanti così per un sacco di tempo.

Ehm, posso comprare una vocale?

Guillermo Del Toro è talmente abile che si destreggia tra i generi, il suo talento gli permette di poterli mescolare e farli funzionare anche per contrasto, quindi scordatevi quella cagata di La bella e la bestia in versione Disney, qui non ci sono belle e le bestie magari si pappano il vostro gatto, i mostri veri hanno la giacca e la cravatta e i generi qui sono in movimento come nella sala cinematografica sopra cui vive Elisa.

Infatti, si passa da un omaggio a Shirley Temple a “La storia di Ruth” (1960) ed è una non sorpresa scoprire dove scappa la Creatura quando fugge? No, perché davanti a registi così innamorati del Cinema è certo che il nostro Gill-Man lo ritroveremo incantato davanti alle immagini sul grande schermo, sicuro come la morte e le tasse.

Uguale a voi e a me, quando ci mettono davanti ad un bel film.

Ma sapete dove si vede il vero Autore? Quando può permettersi di rifare la scena di ballo di “Seguendo la flotta” (1936) con una muta e un mostro pinnuto al posto di Fred Astaire e Ginger Rogers ed ottenere come risultato una scena bellissima, invece di una parodia come scapperebbe di mano a qualunque regista di minor talento, una roba che guarda La La Land e gli dice: “Scansati, mi serve spazio per ballare”. Ed ancora meglio, pesca (tanto per stare in tema) dall’iconografia di “Il mostro della laguna nera” e in un attimo cambia genere da horror a film romantico come non accadeva dai tempi del Dracula di Coppola probabilmente.

Ciao, vi ricordate l’icona aperta lassù? Bene ora posso chiuderla.

Avviso ai naviganti e agli animi più sensibili: la possibilità di finire il film fradici è alta, dipenderà da voi capire se sarà il bagno di casa di Elisa sopra la sala cinematografica che perde, oppure di lacrime, sempre di acqua salata si tratta. Personalmente sono rimasto a bocca aperta come un pesce e ancora alcuni giorni dopo la visione avevo i pesciolini impegnati a muovere la coda nello stomaco… cos’ho detto lassù un milione di anni per Guillermo? Non bastano, facciamo due milioni.

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