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La fortezza (1983): un’oscura e distorta favola sulla seconda guerra mondiale

Ci sono misteri che, forse, sono destinati a restare tali per sempre… Oggi, ad esempio, ne affrontiamo uno piuttosto grosso, l’oggetto più strambo e misterioso della rubrica… Macho Mann!

Chi ha costruito le piramidi? Sette per nove? Cosa rappresenta Stonehenge? Perché Michael Mann ha diretto “La fortezza”? Così… Su due piedi, i più grandi quesiti in stile Roberto Giacobbo dell’umanità sono più o meno questo, perché prendendo ad esempio un altro grande regista di Chicago come William Friedkin, anche lui ha firmato tanti polizieschi che hanno fatto la storia del cinema, ma dal grande pubblico sarà eternamente ricordato solo per un film, un horror.

Michael Mann con Hurricane Billy condivide la città di nascita, ma l’andamento della sua carriera è stato opposto: il nostro Michele Uommo non ha mai avuto paura di sporcarsi le mani immergendole fino ai gomiti nel cinema di genere, anzi, potremmo dire che i generi li ha coperti quasi tutti come vedremo da qui alla fine della rubrica, ma non è certo una novità la sua scarsa attrazione verso il cinema Horror, dettata più che altro da limiti tematici, secondo il regista di Chicago questo genere non gli permetteva di sviluppare a pieno la sua poetica. Eppure, sulla carta “The Keep”, tratto dal romanzo di omonimo di F. Paul Wilson del 1981 poteva essere l’anomalia, nel senso positivo del termine, l’occasione per Mann di portare avanti le sue tematiche anche utilizzando un genere a lui meno congeniale, far fare un salto di qualità anche all’Horror per poi passare ad altro, sotto con il prossimo genere e storia da affrontare, purtroppo la storia produttiva del film ha voluto altro per il risultato finale.

Lasciate una speranza voi che entrate (su questo set)

Le riprese del film iniziarono nel settembre del 1982 e durarono tredici settimane, a cui vanno aggiunte altre nove settimane utilizzate da Mann per girare ulteriori scene necessarie ad assecondare la sua maniacale cura per il dettaglio per aggiungere i necessari effetti speciali, ma i problemi arrivarono quasi subito, abbandonata l’idea di girare in Romania, il set scelto da Mann fu una vecchia cava di ardesia a Glyn Rhonwy nel Galles del Nord, tra nebbia e pioggia perenne, insomma: il clima ideale per girare un film dell’orrore.

Uno degli elementi chiave per la riuscita del film era il mostro, l’entità trattenuta all’interno della fortezza del titolo, risvegliata dai soldati Nazisti arrivati in forza, questo enorme mostro che secondo le esigenze della storia avrebbe dovuto mutare forma, diventando sempre più potente ad ogni nuova evoluzione (in pratica un Pokemon) risponde al nome di Radu Molasar, per dar forma a questa creatura, Mann ha voluto il talento del fumettista e a sua volta regista francese Enki Bilal, se avete un cappello in testa questo è il momento di toglierlo in segno di rispetto.

Penso che se Michele Uommo potesse, farebbe sparire anche questa sua foto sul set.

Scartata l’idea di fare di Molasar un complesso robot, si è infine optato per una forma umanoide, ma nel frattempo Mann dovette mediare anche sul finale: lo scontro in grande stile tra la creatura e il suo guardiano Glaeken Trismegestus (l’attore Scott Glenn) faceva a cazzotti con l’idea della Paramount di mettere sul tavolo altri soldi per un film, che in fase di produzione era già andato oltre il budget stabilito, quindi Mann dovette accontentarsi di uno scontro finale più canonico rispetto ai suoi bellicosi piani originali… Ma quando piove grandina, tipico detto del Galles del Nord.

La post produzione va di male in peggio: il supervisore degli effetti visivi Wally Veevers a cui il film è dedicato viene e mancare e con lui se ne vanno anche molte delle idee originali per animare Molasar, in compenso, quando Michael Mann fornisce alla Paramount il montaggio definitivo del film, la casa di produzione si mette le mani tra i capelli, 210 minuti a loro detta sono un’enormità, quindi Michele Uommo è costretto a tagliare il suo film a 120 minuti, ma le prime proiezioni di prova sono disastrose e (come sempre come succede ad Hollywood) quando quelle vanno male dopo la casa di produzione ha carta bianca, “The Keep” viene mutilato con tagli barbarici per stare tutto comodamente dentro 90 minuti, durata ideale sulla carta, ma non per le ambizioni della storia e di Mann.

Possiamo criticare tutto, ma non lo stile della regia.

Per via di tutti questi guai, l’uscita del film viene posticipata da giugno a dicembre del 1983, questo non solo fa del film un mio coscritto, ma anche un flop al botteghino natalizio, una Waterloo tale che scatena un effetto domino: i Tangerine Dream alla seconda (e purtroppo ultima) collaborazione con il regista dopo Strade Violente, non pubblicheranno mai la loro notevole colonna sonora per via dei diritti e dell’ondata di recensioni negative dei critici (in un film con pochi dialoghi, la musica è diventata subito un bersaglio), mentre Mann ha quasi disconosciuto il film, distribuito in VHS e LaserDisc, in molti Paese tra cui uno strambo a forma di scarpa resta un inedito, quindi scordatevi il blu-ray. Il regista di Chicago da sempre attivissimo con nuovi montaggi dei suoi film per le edizioni in home video (a volte facendo anche scelte sciagurate, dettate da quella cura per il dettaglio sempre in azione) di “La fortezza” non vuole sentire parlare nemmeno per sbaglio, nell’ottavo episodio di “The Director’s Chair”, dove Robert Rodriguez intervista tutti i suoi predilettinon viene fatta menzione alcuna su “The Keep”, un silenzio assordante da parte del regista che, come sempre, anche nei suoi film dice più di mille parole.

La storia è ambientata nel 1941, tra i Carpazi in Romania, presso l’immaginaria cittadina di Passo Dinu, dove un convoglio di camion e mezzi Nazisti guidati dal capitano Klaus Woermann (Jürgen Prochnow), soldato che combatte per la svastica, ma con una manifesta disillusione nei confronti dei valori (valori? Vabbè, chiamiamoli così) che questa rappresenta, si ritrova al comando di una di quelle missioni che è facile intuire siano figlie delle manie del Führer, se nel pieno della Seconda Guerra Mondiale i Nazisti potevano permettersi di cercare l’Arca dell’Alleanza oppure di provare ad evocare demoni da dimensioni parallele, perché non un viaggetto alla fortezza di Passo Dinu?

«Nazisti… Io la odio questa gente. Quindi, potrete comprendere il mio travaglio interiore»

Quello che trovano è un monolite costruito al contrario, non per tenere gli invasori fuori, ma per impedire a qualcosa di uscire… Ora, parliamoci chiaro: Mann ha affrontato quasi tutti i generi, ma le sue storie sono state quasi tutti archetipi narrativi raccontati così bene sotto tutti i punti di vista, da farci dimenticare dettagli per cui Strade Violente non è altro che la solita trama del criminale che vuole fare un ultimo colpo prima di smettere, quindi anche “La Fortezza” alla fine è il solito Horror con qualcuno che evoca il male che andrebbe solo lasciato in pace, solo che a farlo qui sono i Nazisti, quindi se in un film i cattivi sono i Nazi, per me già parti con il passo giusto.

La scena in cui i soldati colti da avidità cercano di portarsi a casa le croci d’argento incastonate nelle pareti della fortezza mette subito in chiaro lo stile del film, Tangerine Dream in sottofondo, un utilizzo magistrale della fotografia (firmata da Alex Thomson) e nebbia, nebbia come se non ci fosse un domani, usata in modo artistico, utilizzata per mostrare l’avvento del male sì, ma nebbia senza tirar via la mano, come dove sono cresciuto io, come nella partita a Tennis di Fantozzi.

«Allora, ragioniere, che fa? Batti?», «Ma… Mi dà del tu?», «No, no! Dicevo: batti lei?» (cit.)

Una volta evocato il male, da qualche parte in Grecia, un tale con la faccia spigolosa di Scott Glenn che scopriremo chiamarsi Glaeken Trismegestus, si risveglia di colpo decidendo che piuttosto che stare sul bel mare blu greco (ricordatevelo, per Mann il mare e il blu sono sempre sinonimo di libertà e serenità per i suoi personaggi) è arrivato il momento di visitare la graziosa (si fa per dire) Passo Dinu, se volete spiegazioni aggiuntive del perché, il film non ve le fornirà, vi toccherà leggervi il buon romanzo originale, perché i tagli brutali subiti dal film questo ci forniscono.

Ad esempio, come risolvere il problema delle scritte in una lingua morta sulle mura della fortezza? Facile! Facciamo arrivare dal più vicino campo di concentramento il dottor Theodore Cuza (interpretato da un giovane Ian McKellen invecchiato per motivi di trama, quindi Ian McKellen ha il destino di essere eternamente anziano) che in cambio dei suoi servigi chiede di portare con sé fuori dal campo la figlia Eva (Alberta Watson, il cui personaggio cambia nome del passaggio da romanzo a grande schermo), come ci arrivano i due a Passo Dinu? Con il teletrasporto credo, perché l’effetto dei tagli di montaggio brutale ottiene anche questa “magia”, in “La fortezza” non ci sono dissolvenze o cambi di scena, i personaggi un attimo prima sono in un posto, quello dopo sono in un altro, con buona pace della credibilità di una storia in cui alla fine Molasar, ritratto prima come un banco di nebbia semovente e poi come una sorta di Gormito, un Exogino gigante a metà tra Abominio (uno degli avversari dell’Incredibile Hulk) e l’Apocalisse di Oscar Isaac, sembra l’elemento più sensato della storia.

Un Gormito se siete giovani, un Exogino se siete più della mia leva.

Sempre per effetto dei tagli eseguiti con un machete arrugginito, quando Glaeken arriva sul posto, il primo impulso che sente di dover assecondare è quello di accoppiarsi in maniera romantica, eh? Ma inutilmente enfatica con Eva che se da un punto di vista umano posso anche comprenderlo, da quello narrativo molto meno, ma purtroppo “The Keep” è tutto così: nebbia, stile da vendere, logica a tratti e storia incerta.

Eppure, questo enorme pasticcio resta comunque un disastro – con notevoli e comprensibili attenuanti – firmato da uno con talento da vendere, non me la sento di bocciare completamente “La fortezza”, anzi credo che sia un film che nel poco spazio di manovra disponibile tra un taglio sanguinoso di montaggio e l’altro, sia ancora un film in grado di affascinare e crescere di forza ad ogni visione, non credo di averlo visto più di tre o quattro volte, ma quell’atmosfera da horror classico resta suggestiva, anche se fuori tempo, visto che gli anni ’80 del cinema horror americano, sono stati quelli con più sangue, budella, trippe  mutilate e deformate, tutta roba che a Michele Uommo palesemente non interessa.

Gli occhi più blu blu blu blu blu blu blu blu blu blu di Paul Newman Scott Glenn (quasi-cit.)

Ora, io non ho una chiara idea di chi abbia costruito le piramidi, quello che so su Stonehenge l’ho letto in un fumetto di Asterix e se mi chiedete quanto fa sette per nove, ho bisogno di un momento per rifletterci su, ma posso provare a lanciarmi nell’interpretazione di “The Keep”, dovesse andare male spero almeno che Giacobbo si ricordi di me.

Non si sa perché Michael Mann abbia deciso di dirigere questo strano film che spicca nella sua filmografia come Woody Allen su un marciapiede di Harlem, universalmente riconosciuto come il suo lavoro più debole al netto del travaglio produttivo, più facile, invece, capire (destreggiandosi tra film e romanzo originale) come mai Macho Mann abbia scelto proprio questa storia. Un dettaglio è il viso dell’Exogino Molasar una volta raggiunto l’ultimo stadio della sua evoluzione, non è facile notarlo, ma il volto della creatura è stato ricalcato su quello estremamente caratteristico di Scott Glenn, per sottolineare come il buio (Molasar) e la luce (il guardiano del nome greco che mi fa venire voglia di Gyros), siano due facce della stessa medaglia.

Vista così sembra un po’ la giostra degli Egizi di Gardaland, ma con la Paramount non si patteggia.

Se fosse stato concesso al regista di montare il film secondo il suo piano originale, sarebbe stato più chiaro riconoscere in Glaeken, un altro dei professionisti Manniani, la cui vita è scandita dalla loro etica, dal proprio lavoro e la propria missione, in questo caso una suicida visto che se parti per affrontare il male, difficilmente tornerai a casa, malgrado il finale lieto imposto dalla Paramount e odiato dal regista. Da qui l’enfatica scena con Eva assume tutto un altro significato, nel cinema di Mann è pieno di donne amatissime dai loro uomini, in grado di incarnare la felicità e la stabilità che per gli eroi (e antieroi) Manniani è eternamente ricercata, ma al tempo stesso negata.

Per calarsi completamente nel genere Horror, poi, Mann mette in chiaro quanto Molasar sia l’entità alla base del mito dei vampiri (siamo in Romania, no? Quindi Transilvania, ha senso), ma allo stesso tempo con il personaggio del dottore ebreo interpretato da Ian McKellen, Molsar sembra incarnare il mito del Golem, menzionato nella Cabala ebraica e appartenente anche al folclore medievale, da sempre protettore degli Ebrei e storicamente destinato a ribellarsi a chi proverà ad utilizzare il suo potere. Chiaro che se da una parte hai un Golem pronto a far fuori “Quelli con la divisa nera e i teschi” venuti a fare del male e dall’altra, un personaggio odioso come l’ufficiale delle SS, il maggiore Kaempffer interpretato da Gabriel Byrne, lo scontro tra bene e male diventi piuttosto palese.

Non importa che tu sia ebreo o uno sporco Nazista…

Anche perché i personaggi di Gabriel Byrne e di Jürgen Prochnow, pur combattente sotto gli stessi colori, rappresentano la totale fedeltà al partito Nazional socialista e lo scetticismo nei confronti del suo operato, perché come sempre nel cinema di Michael Mann, l’eroe e la sua nemesi sono specchio uno dell’altro, che siano poliziotti o criminali oppure in questo caso il bene e il male in lotta, rappresentanti da Nazisti ed Ebrei.

… Gli artefatti umani non posso fermare il male che arriva dall’interno.

I temi cari al cinema di Michael Mann sono in qualche modo riscontrabili anche in questa disgraziata produzione, da qualche parte dentro questa fortezza massacrata dai tagli e dalle imposizioni della produzione, ci sono ancora tutti i segni del cinema Manniano, per un film che in un mondo ideale, forse, sarebbe stato il contributo di un regista al genere Horror, prima di passare ad altro, perché non bisogna dimenticare questo, sono i cinefili (non per forza con la pipa e gli occhiali, ma se vi va di immaginarli così non sarò certo io ad impedirvelo) che amano esaltare il cinema “alto”, nascondendo sotto il tappeto quello che loro considerano “basso”, come l’horror, appunto, questo atteggiamento non è certo quello di Michael Mann che ha sempre portato al cinema di genere al suo massimo potenziale artistico.

Di sicuro, però, la sua delusione per il risultato e per le condizioni di lavoro non lo hanno mai più fatto tornare a lavorare con il genere Horror (a meno di non voler intendere horror anche “Manhunter” a breve su queste Bare) o di voler mai più sentir parlare di questo lavoro, ma mosso dalla stessa totale assenza di puzza sotto il naso che affligge più i cinefili che i registi che poi i film li fanno per davvero, dopo una delusione cinematografica così, dopo tutta la fatica fatta per arrivare a brillare sul grande schermo, quello che per Mann è sempre stato il punto di arrivo ultimo della sua produzione, il regista di Chicago ha fatto una scelta intelligente: perché non raggiungere anche 44 milioni di persone alla volta tutte insieme, con una produzione fatta alla mie condizioni, piuttosto che un disastro al cinema dettato da quelle altrui? Meglio essere il Re sul piccolo schermo e fare la storia per davvero.

Il trasloco verso il piccolo schermo e fortune (e un clima) migliori.

Tra sette giorni qui, ripescate dall’armadio quella giacca con le spalline larghe che non usate più dagli anni ’80, con il prossimo capitolo affrontiamo la storia della moda e del costume, prossima fermata per questa Bara: Miami.

Sepolto in precedenza venerdì 18 marzo 2022

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