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La mano (1981): cinque dita di (rabbiosa) violenza

Mentre sei impegnato a vivere la tua vita, fatta di routine e certezze, magari mentre ti arroghi l’illusione di fare piani per il futuro, succede qualcosa e quello che davi per certo e sicuro, ti viene strappato via, anche in modo drammatico se necessario, lasciandoti con un misto di vuoto, depressione, senso di colpa e rabbia, soprattutto rabbia, parliamo di questo nel nuovo capitolo della rubrica… Like a Stone!

Oliver Stone nella sua autobiografia “Cercando la luce” (2020, edita da la nave di Teseo) si descrive senza pietà quando si tratta di difetti, ma è chiaro che abbia una considerazione di se stesso altina, più di molti suoi colleghi, normale quando hai visto in faccia la morte in Vietnam e a trentatré anni ti sei portato a casa un Oscar per la sceneggiatura di Fuga di Mezzanotte. Il nostro Oliviero Pietra che nel libro si descrive come alto e possente (quindi ho scoperto di esserlo anche io, visto che siamo alti uguali) è un cristone dal sorriso irriverente, con una lunga zazzera di capelli corvini che ha calpestato sotto i suoi calzari i troni ingemmati di Hollywood, amante della compagnia femminili e anche di qualche sostanza ad uso, diciamo ricreativo. Stone è un Cimmero cresciuto leggendo Edgar Rice Burroughs e Robert E. Howard, normale che grazie al successo di Guerre Stellari, gli abbiano proposto di adattare Conan per il grande schermo, il lavoro giusto per uno con le sue ambizioni.

La saga di Conan è composta da molte storie e romanzi, un’evoluzione da barbaro a Re di Aquilonia che nella testa di Stone era già una serie di film fantasy eroici, in grado di anticipare di decenni quello che Il Signore degli Anelli avrebbe fatto molto dopo. Se Tarzan era un eroe proletario, per Stone il Cimmero di Howard era decisamente più capitalista, pronto a tutto per la giusta causa sì, ma anche per il denaro (è l’uso di sostanze nella sua versione), con questo personaggio il nostro Oliviero pensa in grande e scrive allo stesso modo, anche troppo.

Oliviero con un po’ di locandine di suoi film, ma occhio quello in basso.

Ed Pressman, che aveva offerto a Stone la possibilità di scrivere la sceneggiatura, non si fidava abbastanza di lui per fargliela anche dirigere, il nostro, consapevo di quello che stava sfornando battendo sui tasti era dello stesso avviso, nel suo copione era prevista una battaglia con un esercito infernale (prima dell’armata delle tenebre di Raimi), composto da porci mutanti, umano dal volto porcino, sciami di insetti demoniaca e soldati con teste di iena insomma, Stone si era goduto la libertà che la carta bianca, la fantasia e il talento ci concede. Il risultato era qualcosa che non si sarebbe mai potuto produrre con meno di quaranta milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti e il sostegno di qualcuno esperto di effetti speciali come Joe Alves, anche se Stone non aveva di certo smesso di puntare in alto, lui voleva questo giovanotto inglese di nome Scott, l’altro però quello impegnato con Alien che proprio per questo, gli disse di no. E così dopo il “tradimento” di Friedkin per “Nato il quattro luglio”, il nostro mandò giù anche la delusione firmata Ridley Scott.

Mentre Oliviero è impegnato in letture del suo copione con Arnold Schwarzenegger, perfetto perché uscito apparentemente da un’illustrazione di Frank Frazetta, Stone conosce l’unico altro bipede sul pianeta con lo stesso quantitativo di bava alla bocca della sua all’idea di realizzare un film su Conan, un vecchio amico di questa Bara come John Milius, innamorato dell’iconografia di Robert E. Howard e dell’idea del potere della spada. Uno dei loro primi incontri descritto da Stone nella sua autobiografia è incredibile, Milius, provocatore nato, secondo Stone era un uomo che nelle pose e nel modo di parlare imitava uno dei suoi miti, John Huston, per cui Milius aveva scritto una sceneggiatura, inoltre si divertiva a soppesare i suoi interlocutori, accogliendoli nel suo ufficio giocherellando con un detonatore di una mina Claymore piazzata sulla sua scrivania, oggetto misterioso per la maggior parte di quei senza nerbo (agli occhi di Milius) di Hollywood.

Due eroi della Bara insieme, troppo mito per una sola immagine!

«Ehi ma quella è una mina Claymore, una volta una di quelle mi ha quasi ucciso in Vietnam» questa è la frase con cui Stone si è guadagnato la stima di Milius, due opposti con molto in comune, oltre all’essere due dei prediletti di questa Bara. Da una parte il surfista che sognava di combattere nel ‘Nam ma non ha mai passato la visita di leva, il teorico della guerra, innamorato del potere della Bomba (quella con la “B” maiuscola), della spada e del fucile, dall’altra il veterano che in Vietnam ha combattuto per davvero ed è tornato con il sogno di poter raccontare a tutti la verità su quell’orrore, in due combinano per portare Conan al cinema, con Milius che modifica ed espande il passato e la formazione del giovane Conan (la monumentale scena iniziale della ruota) a cui Stone aveva dedicato mezza paginetta e dopodiché, strappa via tutta quella roba fantasy con bestie e mostri, per la gioia del braccio di legno del produttore pagante Dino De Laurentiis.

Il risultato? Il film lo conoscete, un capolavoro monumentale diretto da Milius che ha lanciato nell’empireo Schwarzenegger, ma una delusione sulla lunga distanza un po’ per tutti, specialmente quando De Laurentiis non ha voluto finanziare i sogni di trilogia sul personaggio di Milius, sfornando una cosina come seguito intitolata Conan il distruttore. Lo stesso Oliver Stone che per il Cimmero sognava di vederlo sul trono di Aquilonia alla fine del decimo film a lui dedicato, ha capito che Hollywood può essere una giungla, letale quasi quanto quelle che lui ha attraversato in colonna ad un plotone nel Vietnam.

La Cimmeria per Stone è stato il Vietnam.

Consolazioni? Essenzialmente due, il solito Ed Pressman che sostiene che il successivo copione scritto da Stone, “Demolished Man” tratto da “L’uomo disintegrato” di Alfred Baster era un lavoro anche migliore di Conan ed Elizabeth Burkit Cox, “quella giusta” stando a papà Stone con cui Oliver convola a giuste nozze il 6 giugno del 1981, lo stesso anno in cui il nostro torna anche dietro alla macchina da presa, grazie ad un mezzo accordo tirato per i capelli con la Orion Pictures.

La casa di produzione si carica sulle spalle i costi ma impone un altro Horror a Stone che ricordiamolo, era allo stesso tempo il regista di un invisibile titolo da sala grindhouse come Seizure e il fresco vincitore di un Oscar con uno dei più angoscianti capolavori mai visti, insomma era uno che molti suoi colleghi aspettavano di veder cadere per togliersi la soddisfazione di etichettarlo come un bluff, uno da un gran colpo di culo e via, insomma un Diablo Cody meno tatuato. Tra i soggetti disponibili Stone sceglie di adattare per il grande schermo, mi sembra il caso di dirlo, di suo pugno (ah-ah!) “The lizard’s tail” (1979), un thriller psicologico di Marc Brandel basato in parte sugli eventi del suo divorzio, la storia nella versione di Stone è gustosa perché ruota intorno al disegnatore di un fumetto di successo, una categoria spesso poco rappresentata in un genere come l’horror, che predilige avere scrittori (in crisi) come protagonisti.

I disegnatori di fumetti sono considerati così sfigati che anche i gatti neri scappano.

Jonathan Lansdale è il creatore di “Mandro” un eroe in pieno stile Conan, e anche se al tavolo da disegno troviamo sir Michael Caine, le mani che tratteggiano il selvaggio protagonista sono quelle di una leggenda come Barry Windsor-Smith, autore con cui Stone era entrato in contatto mentre era al lavoro su Conan, visto che il disegnatore ha sfornato alcune delle più belle storie del Cimmero pubblicate ai tempi per la Marvel Comics. Sapete come funziona quando si scrive no? Magari l’obbiettivo da trattare è un altro, ma come lungo un piano inclinato dentro il testo scivolano i sentimenti e i pensieri, più o meno sopiti di chi è intento a battere sui tasti.

Un fumetto che leggerei molto volentieri, disegnato da un gigante.

Lansdale è geloso della moglie che gli ha paventato l’opzione di tornare a New York, secondo il marito fin troppo vicina a quell’atletico insegnante di yoga che le ronza sempre attorno, ancora arrabbiati dopo una litigata i due si mettono in auto e durante un sorpasso un po’ forzato il nostro disegnatore fa quello che nei Simpson sconsigliavano di fare a Bart e compagni sul bus della scuola, ovvero sventolare le braccia fuori dal finestrino. In una scena drammatica a Lansdale viene recisa di netto la mano che utilizza per disegnare, la vita, che di colpo viene a reclamare quello che era una delle tue sicurezze, di cui ti trovi improvvisamente privato.

Cose da NON fare mai in auto, mai!

Uno sprofondare in una miseria che Stone descrive alla perfezione, il moncherino mostrato alla figlia, perfetto parallelo della coda di lucertola di una delle scene iniziali. La famiglia, che resta insieme più per pietà che per vero amore e il lavoro che per ovvie ragioni, va drammaticamente a Sud quando l’editore (aprire il vocabolario alla voce: produttore cinematografico) gli propone un autore più giovane e rampante per continuare il suo lavoro su “Mandro”. Anche qui, per il principio per cui chi scrive di qualcosa, riversa sui tasti quello che si rimesta nelle sue budella, siete liberi di vederci il film su Conan al posto del fumetto su Mandro e il rapporto tra Stone e Milius.

L’unica soluzione per Lansdale è prendere armi e bagagli e gestire la distanza dalla moglie cambiando tutto, anche mestiere, vederlo insegnare fumetti e disegno è l’occasione per Stone per rendere omaggio un altro po’ alla nona arte, per altro inaugurando una tradizione che non sempre è riuscito a rispettare, ovvero quella di apparire in piccoli ruoli nei film da lui stesso diretti, qui è il veterano senza tetto che insegue il protagonista per strada, quasi un riflesso della condizione di Lansdale che oltre alla mano, potrebbe aver perso anche il boccino.

Cinque dita di follia.

Dopo aver vagliato vari attori e incassato parecchi due di picche, “The hand” è diventato un progetto blindato quando sir Michael Caine ha accettato la parte, firmando per uno dei suoi film “alimentari”, infatti il grande attore britannico non ha mai nascosto di aver accettato il ruolo perché, cito testualmente, aveva bisogno di aggiungere un paio di stanza sopra il garage di casa (storia vera). Malgrado questo la sua prova è maiuscola, intenso, spaventoso e soprattutto passivo aggressivo come il ruolo richiede, così bravo da prendere in contropiede anche l’inesperienza del suo regista, che una volta ha fatto l’errore di chiedergli di recitare un certo sentimento, per sentirsi rispondere da uno stizzito Caine: «L’ho già fatto, guarda i giornalieri», ed in effetti era proprio così, lezioni di regia che si apprendono sul campo, non per forza nel modo più gentile possibile (storia vera).

Caine sul set spiega al suo regista che la sua mano po’ esse fero.

La mano del titolo è l’elemento horror in bella vista, così tanto che per animarla è stato chiamato un esperto come Carlo Rambaldi che è passato dalle manone di King Kong a Federica, la mano nemica di Stone, e anche qui, le varie personalità in gioco avevano tutte le loro visione. Per il nostro Oliviero la mano si doveva vedere poco, di sfuggita, un metafora semovente della rabbia del protagonista, per Rambaldi invece, giustamente orgoglioso del suo lavoro, la mano doveva essere sempre in scena, ecco perché nel tentativo di mediare Stone, si è inventato complicate inquadrature utilizzando una macchina da presa tipo quelle che oggi si utilizzano per fare Snorkeling, per portare lo spettatore nella trincea attraversata strisciando dalla mano assassina, trincea, proprio la parola che utilizza Stone nella sua autobiografia intitolata “Cercando la luce”.

Forse sarà anche un tentativo da parte sua di trovare un filo rosso nella su filmografia che passi anche intorno alle dita di questa mano, però anxhe qui c’è parecchia brutale sincerità, la verità che il regista ha sempre ricercato nei suoi film. Il personaggio di Michael Caine è un creativo frustato che non riesce più a produrre come vorrebbe, ma la chiave di lettura più profonda è proprio il senso di colpa del reduce, quel misto di rabbia che Stone conosceva bene e che nel libro descrive alla perfezione: ti è andata bene laggiù nel ‘Nam, hai portato a casa la pelle, ma dentro la tua testa qualcosa è cambiato, non lo sai quando la tua fortuna verrà a battere cassa e finirai come uno di quei reduci che un giorno, si spara un colpo in testa per farla finita.

Il simbolico cameo di Stone nel film, che inaugura la tradizione delle sue apparizioni anche davanti alla macchina da presa.

Le musiche di un giovane e già promettente James Horner fanno da ottimo tappeto a questa metafora da veterani fatta a forma di film di genere, che Caine si carica sulle spalle recitando alla grande la lenta discesa nella follia di un personaggio a cui è partita la brocca, oppure davvero è perseguitato dal suo arto fantasma tornato ad uccidere chiunque attorno a lui? Non vorrei esagerare, ma la scena finale è qualcosa che se non stringe la mano (ah-ah) a Psycho, almeno dimostra di averne capito la lezione, purtroppo è stato proprio il film a non essere capito, a partire dai produttori, Jon Peters e la Orion.

Ci vuole un grande attore per fare il pazzo alla grande.

Peters voleva che il film mettesse “una fifa blu”, Stone voleva qualcosa di più sofisticato e quando Peters ha preso le distanze dal film, di fatto lo ha condannato a morte al botteghino. Costato quattro milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti, nel primo fine settimane (l’unico che conta per gli incassi) il film ne ha portati a casa due, con Stone che comprava biglietti a caso nelle sale, un po’ per scaramanzia un po’ per sua stessa ammissione, perché risultava un po’ patetico.

Mentre il suo ex insegnante alla New York University Film School, ovvero Martin Scorsese, raccoglieva applausi con “Toro scatenato”, Oliver Stone, il giovane vincitore dell’Oscar con tutti gli occhi addosso, mandava a segno un bell’horror che comunque è stato il suo secondo disastro al botteghino in fila. Un disastro per un film che andrebbe un po’ riscoperto in cui l’unica soluzione era tornare alle basi, a battere sui tasti per raccontare altre storie, per altri registi, come ad esempio Scarface, ma questa è un’altra storia, che per altro vi ho già raccontato, quindi quello che manca è solo darvi l’appuntamento alla prossima settimana e al prossimo capitolo della rubrica, tra sette giorni qui, non mancate, perché si festeggia il capodanno sì, ma quello cinese.

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