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La maschera della morte rossa (1964): sessant’anni e un omaggio a Roger Corman

Nella lista di compleanni del 2024, uno era segnato, ovviamente in rosso per svariate ragioni, parliamo di un sessantennale, quindi roba grossa, per di più diretto da Roger Corman, quindi roba grossissima, mai avrei pensato che sarebbe diventato un post alla memoria perché banalmente, ho sempre stupidamente pensato a Corman come eterno e per certi versi, lo è.

L’uomo che ha insegnato al mondo che non esiste differenza tra il cinema considerato “alto” e quello “basso”, dalla produzione infinita, che ha tenuto a battesimo tutti, ma proprio tutti i più grandi registi, un monumento, ma come tale non va ammirato e basta ma capito, i suoi Poe-film sono un ottimo modo per farlo.

Ogni volta che potrò, riporterò Corman su questa Bara, che non esisterebbe nemmeno senza il suo lavoro.

“La maschera della morte rossa” è il settino di otto titoli, tutti prodotti dalla AIP e molto, ma molto liberamente ispirati alle opere del buon Edgar Allan, nello specifico per questo Corman ha pescato a piene mani dal racconto omonimo ma anche da “Hop-Frog”, anche se il desiderio di Corman di gettarsi anima e corpo su questo soggetto era antecedente al suo “I vivi e i morti”  (1960), ma qualcosa nella sceneggiatura proprio non gli andava già, ecco spiegati quindi i quattro anni necessari per passare dalla stesura del copione al set.

Il primo copione, scritto dal fidato Charles Beaumont faceva pizzicare il “senso di avvocati” di Corman, troppo simile nel suo giudizio a “Il settimo sigillo” di Bergman, meglio evitare una facile accusa di plagio, per questo il copione (in più di un senso di questa parola) già pronto nel 1961 venne messo nella mani dal vulcanico regista e produttore da Robert Towne e Barboura Morris, ma niente, nemmeno la storica collaboratrice di Corman riesce a convincerlo, si torna alla versione di Beaumont ma rimaneggiata da un quarto sceneggiatore, R. Wright Campbell. Potete immaginare, in un tale mischione stile rugbistico capire chi ha fatto cosa non è semplice, l’idea del principe Prospero satanista era sicuramente di Beaumont, la scelta di “tagliare” il tutto mettendoci dentro un po’ di “Hop-Frog”, un nano e lasciare comunque tracce di Bergman viene assegnata d’ufficio a Campbell, ma quello che conta è che così, finalmente Corman si convinse a girare il film.

«Cosa vuol dire che sei daltonico?»

Se per sua abitudine Corman gestiva due, a volte anche tre set in contemporanea, nel senso che usando le stesse location girava più film in parallelo, facendolo spesso in tre settimane, per “The Masque of the Red Death” il nostro ci si dedicò anima e cuore girandolo nella bellezza di cinque settimane, che per lui saranno sembrata un eternità, perché in mezzo bisognava considerare anche la trasferta in Inghilterra e il tempo passato a lamentarsi della lentezza della troupe di Albione (storia vera), anche se va detto fuori dai denti, l’unico acquisto di cui Corman non poteva proprio lamentarsi, era un giovane direttore della fotografia, che rientra di diritto tra i grandi registi lanciati da Corman, mi riferisco a Nicolas Roeg.

Ora, sarebbe un crimine dare tutto il merito del risultato al solo Roeg, anche perché dalla regia di Corman qui, traspare tutta la sua passione e il trasporto per questo adattamento, ma è innegabile che la fotografia di Roeg abbia reso “La maschera della morte rossa” unico, Corman aveva già sperimentato con l’uso del colore in precedenza, ma qui ha raggiunto un apice mai più replicato, quindi a mia volta porto un po’ di rosso in questo post con il logo dei Classidy!

Per trovare qualcosa di simile, per anzianità, appartenenza al genere e risultati, bisogna scomodare Mario Bava, l’unico che utilizzava il colore in maniera altrettanto creativa, ma i suoi film avevano spesso dei movimenti di macchina da presa più estrosi, più creativi e moderni, Corman invece è un uomo in missione con il compito di utilizzare un’impostazione inizialmente classica, per mettere in scena tutte le bassezze morali dell’umanità, anzi, di una parte specifica della società, quella più ricca.

Prospero (Vincent Price) e il suo costante impegno nel maltrattare i sottoposti è alleviato solo dall’esigenza di inserire qualche personaggio positivo per evitare di essere falciato dalla censura e soprattutto dalle donne in scena, Francesca (Jane Asher) che le prova tutte per portare un po’ di etica nella mostruosità morale del principe e Juliana, impersonata da una Hazel Court da cui è impossibile togliere gli occhi di dosso, una bellezza magnetica che va di pari passo con la sua prova.

Che le vuoi dire? Stupenda anche quando si marchia a fuoco.

La satira nei confronti dei ricchi è palese, l’obbiettivo di Corman chiaro, i ricchi devono morire e Vincent Price si conferma un signore, il primo a capire il tono e gli intenti del film, mettendo su una prova vistosamente guascona, per un malvagio che si barrica dietro ideali che non hanno alcun senso, anche perché sono una semplice scusa per giustificare la totale mancanza di umanità che non solo lo caratterizza, ma letteralmente lo diverte! Lo vediamo chiedere ai suoi ospiti comportarsi come animali giusto perché tutto questo aggrada il suo perverso senso dell’umorismo, un’ondata umanoide di mancanza di morale che finirà per infettare anche la purezza di Francesca, anche se per lo meno lei verrà dispensata dal destino di Prospero e della sua corte.

La questione chiave poi tiene ancora banco da sessant’anni, sarà anche vero che Corman ha sfruttato il nome di Edgar Allan Poe come faceva con i set altrui presi in prestito, in questo caso da Becket, ma si è sempre sottovalutato il Corman regista rispetto a quello produttore, spesso molto aggressivo e rapace nel vendere i suoi film. La prosa di Poe non può essere adattata pagina per pagina, bisogna ragionare in termini cinematografici e fare un adattamento, i tradimenti di Corman nei confronti del materiale originale non sono mai stati una mancanza di rispetto, Roger Corman Poe ha dimostrato di averlo letto, capito, masticato e fatto proprio il lavoro dello scrittore, insomma quello che i registi dovrebbero fare SEMPRE, nel passaggio da un formato all’altro e di fronte ad un adattamento.

Arte su pellicola, Roger Corman 1964.

Gli elementi aggiunti sono fisiologici, necessari a raggiungere la lunghezza minima di un lungometraggio (in questo caso 85 minuti), alcuni di questi sono calati nel gusto e nello stile del cinema del periodo, che nel corso degli ultimi sessant’anni è cambiato esattamente come sono cambiate le mode, ma l’essenza stessa del racconto resta inalterata, portata in scena con rispetto e con un livello di furiosa creatività mai più replicata, l’asticella è stata alzata così tanto in quel finale che la concorrenza arrivata dopo, ha solo potuto alzare le mani o nel caso di Mike Flanagan, per la sua versione di Poe, ha dovuto puntare su un massacro con folle sciolte nell’acido, nel tentativo di non risultare anonimo nel confronto diretto con Corman.

Il finale, quel finale, la da sempre sottovalutata regia di Corman qui raggiunge apici di cinismo mai più toccati, un trionfo di inquadrature sghembe e montaggio velocissimo (quindi più simile a quello a cui siamo abituati oggi come spettatori) che in coppia con la fotografia acida, nel senso lisergico del termine di Roeg, regala il più grande balletto di morte mai visto, un trionfo di massacro furente, perché scagliato contro coloro che per diritto di nascita, si sono da sempre impigriti nel considerarsi assolti, non potevo chiudere il 2024 senza rendere omaggio a questo capolavoro, ma soprattutto al regista che lo ha firmato, grazie di tutto mister Corman, questa Bara non esisterebbe nemmeno senza film come questo.

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