Tra i compleanni più importanti del 2025, non potevo non dare tutta la priorità possibile ad un film che è un vero classico, a mio avviso non solo del cinema Horror, perché ridurre la portata de “La moglie di Frankenstein” al solo cinema di genere – a cui orgogliosamente appartiene – sarebbe davvero riduttivo, perché si sono tante storie dentro un solo grande film, meritano tutte di essere raccontate.
Si è iniziato a parlare di un seguito di Frankenstein un minuto dopo la sua uscita, quindi fin dal 1931, la Universal aveva messo in cantiere il progetto già per il 1932, tanto che il produttore Carl Laemmie Junior ad un certo punto, prese in considerazione anche l’idea di procedere senza più James Whale in cabina di regia, anche perché i vari copioni, uno più esagerato dell’altro, tutti scritti con la regola aurea dei seguiti nel cuore (uguale al primo, ma di più!) sfidavano veramente troppo la morale, perché “The Bride of Frankenstein” è prima di tutto la storia della guerra, vinta da Whale contro la censura del codice Hays, combattuta a colpi di battaglie, solo ad una prima occhiata vinte dai censori.
Whale sapeva di poterselo permettere e non aveva la minima intenzione di fare un solo passo indietro, nel frattempo era diventato un mammasantissima alla Universal, grazie al successo de “Il castello maledetto” (1932) e L’uomo invisibile, per questo il regista chiese e ottenne piena libertà creativa, ad una sola condizione, di poter essere lui stesso a vedersela con la censura, consapevole che i censori vanno prima di tutti assecondati, ma soprattutto ingannati, ogni bravo regista che ha avuto la meglio sul “Final cut” del proprio film potrebbe raccontarvelo.
Se ai tempi del primo capitolo il regista non aveva ancora pienamente sviluppato il suo stile, al momento di affrontare “The Bride of Frankenstein”, James Whale aveva dalla sua un pieno controllo del mezzo cinematografico e una decisa propensione verso l’umorismo, quello che oggi definiremmo camp, lo stesso che nel corso del tempo è stato associato – o si è alimentato – con l’orientamento sessuale di Whale, posso dirlo? Riletture comode, facili e anche banali. Hai un regista omosessuale, fin troppo facile rivalutare tutto sotto quest’ottica come hanno fatto in tanti (anche il film “Demoni e dei” del 1998 con Ian McKellen nei panni del grande regista), quando era chiaro che Whale puntasse più in alto, dritto alla giugulare.
L’obbiettivo finale di James Whale era quello di sbertucciare tutti, la religione, il patriarcato (in tempi non sospetti), la religione, i censori, la religione e lo stesso pubblico, che prima invocava mostruosità sul grande schermo, ma allo stesso tempo era pronto ad additare il diverso come nel primo capitolo la folla faceva con la Creatura. Forse anche per questo Whale, pur tradendo – e spesso anche di molto – il materiale originale di Mary Shelley, macchiandosi per altro della GRANDE COLPA, ovvero quella di aver largamente contribuito a diffondere la falsa informazione sul fatto che Frankenstein sia il nome della Creatura e non come invece è, del creatore, per certi versi ha saputo anticipare le riletture femministe del testo di Mary Shelley, facendo venire a galla alcuni elementi del romanzo, ma utilizzando a pieno la forza espressiva del cinema, anche per questo, siamo non solo di fronte ad uno dei migliori seguiti di sempre, ma ad un Classido!
La prima trovata brillante di Whale? Un prologo dove Mary Shelley ipotizza un seguito del suo romanzo, quindi a suo modo un passaggio di testimone tra letteratura e cinema, sottolineato dalla grande idea di far impersonare il personaggio a Elsa Lanchester, se siete tra i giusti l’attrice che indicate con il dito ogni volta che replicano Mary Poppins in tv e a proposito di Poppins, la profondità della scollatura dell’attrice è stato a lungo uno dei temi caldi dei censori, che distratti a guardare, diciamo il dito e non la luna (anche se stavano guardando altro) hanno concesso a Whale di perdere apparentemente tutte le battaglie, ma di vincere la guerra.
Perché mentre Joseph Breen, censore capo della commissione Hays, si batteva come un leone per limitare le inquadrature su Elsa Lanchester a primi piani, Whale faceva sì con la testa e concedeva apparentemente tutto ai censori, ma intanto con il sorriso, faceva allegramente il cazzo che voleva come dicono in Francia: una satira impunita ai matrimoni, alla sessualità, alla religione e a Dio stesso, fino ad arrivare al cuore della vicenda, quel mondo di demoni e dei di cui parla il Dottor Pretorius (Ernest Thesiger, preferito anche ai più celebri Bela Lugosi e Claude Rains) ad un sempre più assoggettato Dottor Henry Frankenstein (Colin Clive).
Subito dopo il prologo – sempre fondamentale negli Horror – la storia prosegue da un minuto dopo la fine del primo capitolo, creatore e creatura sono sopravvissuti, il primo alla caduta il secondo al rogo, questo spiega l’aggiunta del trucco con le ustioni sul volto di Boris Karloff, la cui creatura è per scelta del regista, caratterizzato come qualcuno con il cervello di un bambino di dieci anni e le voglie di uno di quindici (tipo Baby Herman insomma!) impegnato a vagare per le campagne, facendo la conoscenza di anziani non vedenti di cui, in maniera incredibilmente filologica poi, si sarebbe ricordato Mel Brooks.
Questo film è fatto con tanti pezzi, per raggiungere il suo obbiettivo Whale aveva bisogno di un cuore, per “The Bride of Frankenstein” questo organo fondamentale è Pretorius, che non a caso sarebbe stato citato a ripetizione nel cinema di Stuart Gordon, che proprio da questo seguito ha pescato molto. Il Dottor Pretorius, ha creato la vita sì, ma in scala ridotta, piccoli umanoidi che scimmiottano i nostri vizi, quelli di Pretorius sicuramente visto che lui stesso sostiene di immedesimarsi nel micro-peccatore che ha creato, ma ha bisogno di Henry Frankenstein per completare l’opera.
Un personaggio mefistofelico, capace di manipolare tutti, da Frankenstein con cui mette su un rapporto che per anni è stato letto in chiave omosessuale (d’altra parte sono due uomini che cercano di creare la vita eliminando le donne dall’equazione), ma anche la stessa creatura, preso all’amo con la promessa di una compagna. Per ottenere tutto questo Whale ha sacrificato tutto, la porzione della prima stesura del copione in cui Pretorius usava il cuore della moglie di Frankenstein per la sposa, ma anche il numero di morti ammazzati dalla creatura, passati da una trentina delle prime bozze ad appena dieci del montaggio finale, ma in compenso infilava sfottò all’iconografia Cattolica come se non ci fosse un domani.
Una “parodia del divino” come è stata definita, con la folla che crocefigge il mostro (volete un gioco alcolico? Si beve ad ogni rappresentazione della croce nel film, finirete in coma etilico) in cui il concetto cristiano della morte e successiva resurrezione viene rovesciato, la creatura prima resuscita dal mondo dei morti e poi viene crocefisso, non il contrario. 1935, questo film è ancora più moderno e coraggioso di tanta roba che esce oggi.
L’umorismo affilato di Pretorius, l’arma che Whale utilizza per irridere tutto e tutti, non fa presa sulla “matta”, il vero elemento che spariglia le carte, infatti l’unica su cui il mefistofelico Dottore non riesce ad avere presa e a manipolare a suo piacimento è proprio la sposa, con il suo aspetto ultra cesellato, ispirato a Nefertiti, un personaggio in grado di lanciare uno degli urli, forse l’urlo più iconico della storia del cinema, perché quel finale non si dimentica, per più di un ragione.
Quasi istintivo immedesimarsi con la creatura impersonata da Boris Karloff, il suo pianto è comprensibile, perché è quello di qualcuno che comprende che malgrado tutto, sarà destinato alla solitudine eterna, in qualche modo, più o meno drammatico, è un sentimento attraverso il quale siamo passati tutti, ma se parliamo di dolore, in una manciata di inquadrature, in pochissimi secondi sullo schermo, è la sposa a prendersi il film, il finale e la Storia del Cinema con tutte le maiuscole.
Grazie alle scelte delle inquadrature di Whale, viene esaltata la gestualità e l’espressività di Elsa Lanchester che in pochissimi secondi riesce a recitare nell’ordine: la presa di coscienza di chi capisce di essere viva, tutta la ragione del suo essere stata, diciamo, messa al mondo e il successivo destino da eterna schiava, compagna forzata di qualcuno – per di più un mostro orribile – che lei di certo non ha potuto scegliersi, normale urlare, urlereste anche voi e in quell’urlo, c’è dentro tutto lo sfogo di beh, robetta, il 50% della popolazione mondiale, soggiogata dall’altra metà.
Per essere un film che spegne quest’anno le sue prime novanta candeline, “La moglie di Frankenstein” è ancora fresco nelle tematiche, tanto che sia in chiave femminista, che a volte apertamente queer, ha generato figlie e figliocci che non sarebbero mai esistiti senza il fegato e la testardaggine di James Whale, che apparentemente ha perso tutte le battaglie con i censori, ma ha vinto quella che contava di più, vedi a volta cosa non può fare una scollatura e dei boccaloni intenti a fissarla eh?
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