Quale occasione migliore per portare avanti la tradizione dei Versus della Bara Volante, se non questa, quindi allacciatevi le cinture, sarà un volo un po’ movimentato!
Alive – Sopravvissuti (1993)
Ogni anno butto giù una lista di titoli che compiono gli anni di cui mi piacerebbe scrivere, “Alive” era uno di questi ma purtroppo, visto che ogni tanto dormo anche io, nel corso del 2023 non sono riuscito a farlo. Con mia somma sorpresa, quando ho visto spuntare “La società della neve” sul paginone di Netflix ho pensato: «L’aereo di una squadra di rugby che precipita sulla Cordigliera delle Ande… Ehi ma questo è Alive!» (storia vera).
Se siete più o meno della mia leva, allora “Alive” lo avete scoperto in qualche replica televisiva, Canale 5 o Italia 1 che fosse francamente non lo ricordo, ricordo invece il trauma, quella sì. Il giorno dopo a scuola, tutti a parlare di questi ragazzi, poco più vecchi di noi, costretti a mangiare carne umana, i resti dei propri compagni defunti nell’impatto per poter sopravvivere, con nella testa il classico: e tu cosa faresti in una situazione così di chi, su un aereo di linea, con la stessa leggerezza di prima, non ci sarebbe salito mai più.
Non che “Alive” fosse il primo adattamento del disastro aereo delle Ande, avvenuto il 13 ottobre del 1972 (un venerdì, traete le vostre conclusioni da soli) raccontato nel libro di Piers Paul Read intitolato “Tabù – La vera storia dei sopravvissuti delle Ande” e portato al cinema nel 1976 nel film “I sopravvissuti delle Ande” con Hugo Stiglitz, si lo so, state citando un certo film di Tarantino in questo momento. Quello che forse non ricordate invece è il modo in cui la tragedia ha colpito la cultura popolare, gli americani ad esempio ci sono andati sotto bevendo dall’idrante con questa storia, la leggenda infatti narra che Frank Marshall stesse discutendo del soggetto parlando al cellulare della sua macchina – roba per ricchi nei primi anni ’90, ma in quanto terzo esponente del trio completato da Kathleen Kennedy e Steven Spielberg, in linea di massima la pecunia non mancava – quando un camion di colpo gli tagliò la strada, sul paraurti del mezzo l’indelicato ma popolarissimo adesivo, stra venduto a Yankeelandia, quello con su scritto: “Rugby players eat their dead”. Segni del destino, comunque meno sfortunati di un aereo che precipita sulle Ande.
Due parole su Frank Marshall me le concedete? La sua filmografia alle voci “Produttore” e “Produttore esecutivo” è una spremuta della vostra infanzia, proprio perché i suoi compari erano i due citati lassù, come regista arrivava dritto dal film che ha contribuito a spargere la paura di cui porta il titolo, ovvero Aracnofobia ed ironicamente sarebbe finito a dirigere “8 amici da salvare” (2006), che poi era il remake americano Disneiano di quella mazzata sui denti che era il bellissimo “Antarctica” (1983). Tanto per restare in zona traumi.
Quello che mi ha sempre mandato in tilt i neuroni stile flipper di “Alive” era questa cosa per cui, un’infilata di ragazzotti americani al 100% interpretavano personaggi di nome Javier, Gustavo, Carlitos senza averne minimamente l’aria, basta dire che il più rappresentativo del gruppo, quello che più volte spiccava per capacità di anticipare il futuro, coraggio dimostrato e per essere fatto a forma di Ethan Hawke, interpretava Fernando Parrado, non proprio il protagonista, però quello che ancora oggi si tende a ricordare di più in un cast dove nessuno ha avuto la sua stessa carriera, anche questo un fattore.
Quello che non ricordate invece è che il narratore del film, Carlitos Paez da adulto, era interpretato da John Malkovich il cui faccione compare all’inizio e alla fine del film. Avete presente Richard Dreyfuss in “Stand by me”(1986)? La versione locale.
Anche perché parliamoci chiaro, ci sarà un motivo se i nostri amici Yankee sono andati sotto bevendo dall’idrante con questa storia no? A bocce ferme è una trama che unisce lo scalpore, il tabù ancestrale del cannibalismo, per di più praticato per esigenza da bravi ragazzi della porta accanto, ad una trama che è quando di più Spielberghiano ci possa essere. Non è un caso nemmeno il fatto che proprio zio Steven (che nel 1993 aveva le mani abbastanza piene) l’abbia sbolognata, con un passaggio all’indietro tipico del Rugby, al suo compare Frank Marshall. Al netto di un budget di trentadue milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti non precipitati sulle Ande, il film si piazzò al quarantatreesimo posto dei film più visti in un’annata in linea di massima pienotta e ovviamente, dominata da Spielberg. Questo non gli ha impedito di diventare patrimonio del palinsesto televisivo e di colpire in mezzo agli occhi il vostro amichevole Cassidy di quartiere.
Rivedendolo a trent’anni dalla sua uscita, va detto che la scena più movimentata, l’incidente aereo, per realismo dei dettagli si mangia ancora di traverso alcune altre scene analoghe. Certo, quando la coda dell’aereo si stacca in volo gli effetti speciali mostrano le rughe ed è impossibile non pensare ad una certa serie televisiva, ideata da uno che da grande avrebbe voluto essere Spielberg, ma invece è un cretino venditore di fumo oltre che mia nemesi numero uno. Ma questo è un altro discorso.
Da qui in poi Frank Marshall mette su un passo da cerimonia, sottolineato anche dall’avere un compositore cinque stelle extra lusso come James Newton Howard, in grado di sottolineare ogni passaggio del film con il tono (anche greve se necessario) più azzeccato. Dove un’altra collezione di rughe viene sfoggiata invece sono i dialoghi, io capisco che la faccenda della carne umana fosse, anzi tutt’ora, è un tema molto scabroso. Quello che ricordo bene quanto mi colpì ai tempi, era la ritualità dell’atto, narrato quasi come un momento di passaggio per i ragazzi costretti ad infrangere per esigenza un tabù, non ricordavo invece dialoghi così carichi e ammettiamolo, ben più che didascalici, roba del tipo: «E la nostra innocenza? Che fine farà dopo che avremmo fatto una cosa del genere?», tutto giusto se vuoi che il tuo messaggio arrivi anche all’ultimo degli spettatori distratti, ma siamo in zona dialoghi scritti con il pennarellone a punta grossa e sussurrati in un megafono. Gli slittini improvvisati sulla neve e il finale liberatorio contribuivano ad alleggerire il carico emotivo di una storia che definirei “solare”, anche per il semplice fatto di essere quasi sempre illuminata a giorno, ma su questo punto lasciatemi l’icona aperta, tra un po’ ci torneremo.
Questo nel corso degli anni non mi ha mai impedito di traumatizzarmi e riacutizzare la sofferenza vedendo e rivedendo questa storia di “Bimbi sperduti” (occhiolino-occhiolino) molte volte nel corso degli anni, sempre con cautela perché su quell’aereo, a cuor leggere non ci sono salito mai, almeno fino a quando Bayona non mi ha imbarcato a forza contro la mia volontà e utilizzando l’inganno, come faceva l’A-Team con P.E. Baracus.
La società della neve (2023)
Ora immaginatevi il vostro amichevole Cassidy di quartiere, aggrappato ai braccioli della sua poltrona, con il pilota Juan Antonio Bayona che lo saluta dalla cabina di pilotaggio, mentre realizza di essere di nuovo dentro “Alive” solo con un titolo diverso. Ok che sono il vicepresidente del John Lithgow Fan Club, ma qui si esagera!
Vi ero debitore di un’icona da chiudere, lo faccio subito: dove Marshall ambientava tutto in pieno sole forte dell’aver girato il film in maniera cronologica rispetto agli eventi della storia, Bayona aggiunge tutto il buio, il freddo della neve non baciata dal sole, lo sporco e in generale il terrore, che il precipitare sulla cordigliera delle Ande si porta dietro. Magari tra trent’anni saranno tutti famosi come Ethan Hawke, glielo auguro, ma al momento Bayona sceglie intelligentemente facce nuove, ragazzi che si chiamano Enzo, Matías, Agustín e Tomas e non fanno fare tilt al mio cervello, che ha meno neuroni che palline in un flipper quando impersonano Numa, Roberto, Nando o Gustavo. Tutti punti a favore di Bayona.
“La società della neve” sposta l’attenzione fin dal titolo dal “cosa” al “come”, se agli americani interessava tanto la faccenda del cannibalismo, a Bayona interessa di più fare leva su una trama che parla del fare squadra per salvarsi la pelle, anche da parte di una squadra che non lo è nemmeno sul campo, il tutto riassunto nella prima scena di Rugby iniziale, didascalica ok, ma efficacissima in tal senso. Quando poi si arriva al momento “spaccatutto”, quello che sta sempre molto a cuore a questa Bara (per di più sensibile all’argomento del volo) il regista dalla sua ha tutti gli effetti speciali freschi che Marshall poteva solo sognarsi, infatti per essere un disastro è diretto davvero bene, ma non mi aspettavo nulla di meno dal regista dell’altrettanto drammatico “The Impossible” (2012), anche se ogni volta che penso a questo film, mi viene in mente come lo pronuncia il mio amico italo/basco (ciao Mattia!) ovvero “Lo imposible”. Lui lo pronuncia meglio.
Bayona è così astuto che avrebbe potuto basare il film sull’arco di maturazione di un personaggio in vista come Nando Parrado (Agustín Pardella), oppure sul suo “duello” con Roberto Canessa (Matías Recalt), invece è talmente bravo a fare di “La società della neve” un film corale, tutto ci viene narrato da uno come Numa Turcatti (Enzo Vogrincic), che per forza di cose in alcuni momenti chiave, non è nemmeno presente, quindi raccolta di sponda, mettendo in chiaro quanto il titolo scelto sia azzeccato per il tono della narrazione. Bayona ci racconta di come la razza umana cerchi sempre il modo di preservarsi anche nelle avversità, non puoi uscire dalla caverna? Allora arredala. Infatti i resti dell’aereo diventano a poco a poco un’imitazione di una casa e i personaggi si dividono i ruoli, creando se non proprio una gerarchia, almeno beh, una società in mezzo alla neve.
Ci sono scene che sono momenti di pura regia in questo film, che mi ricordano quanto Bayona sia afflitto da una sfiga atavica (e forse per questo attratto da storie di disastri), parliamo di un talento cristallino a cui sistematicamente viene chiedo di dirigere come altri, che sia come Peter Jackson oppure come Spielberg poco cambia, anche se per assurdo parliamo di qualcuno che la lezione Spielberghiana non solo ha dimostrato di averla capita, ma anche di averla assimilata. Per assurdo è molto più in stile Spielberg questo “La società della neve” di qualunque seguito Giurassico brutto, perché Bayona va a giocare nel campo del regista di Cincinnati dimostrando di conoscerlo quel gioco, schierando la sua versione dei “Bimb sperduti”, personaggi ordinari in situazioni straordinarie. Se non è Spielberg questo gente, allora non so proprio cosa lo sia.
Difetti? La lunghezza standard Netflix non aiuta (qualche minuto in meno avrebbe giovato) forse ancora una volta i dialoghi che fanno parecchio leva sul METAFORONE religioso, per buttare giù l’amaro boccone, si fa parecchio riferimento all’Eucarestia e al corpo di Cristo, anche se va detto che Marshall metteva molta più enfasi sulla questione del cannibalismo. Bayona non è interessato ad essere così morboso, infatti la faccenda scivola abbastanza in ruotine, forse anche un po’ troppo presto, ma sempre avendo in testa quel concetto di società del titolo, la razza umana, nel bene o nel male, si adatterà sempre a tutto per cercare di sopravvivere e portare avanti se stessa.
Non vorrei risultare troppo calato nel mio umorismo nero se dico che “Alive” era un buon film (ah-ah) con parecchi scricchiolii che Bayona è riuscito a migliorare, basta dire che quei trenta minuti finali, compensano il finale “a schiaffo” del titolo targato 1993 (Malkovich e tutti a casa… Ciao!), anzi per assurdo, potrebbero essere il punto di partenza di un altro film, tutto incentrato sul sollievo di un salvataggio miracoloso, della scoperta da parte della società del tabù (quindi la società della neve, contro quella in cui viviamo tutti quanti noi) e quant’altro, non che io voglia un altro assag… Un altro giro di giostra con questa storia, ma anche questo conferma della bontà del film messo su da Bayona. Minchia ho scritto bontà, non se ne esce!
Risultato finale: se “Alive” resterà eternamente un classico da trauma della mia infanzia, “La società della neve” è un titolo valido che troverete su Netflix, ennesima prova del talento di Juan Antonio Bayona, ora però non voglio più sentir parlare della cordigliera delle Ande per un altro po’ di anni, dopo questa doppietta mi sono meritato vacanze cinefile in posti meno faticosi.
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