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La spina del diavolo (2001): un fantasma è un evento terribile condannato a ripetersi all’infinito

Il 9 ottobre compie gli anni un regista amatissimo come Guillermo del Toro, insieme ai miei compari abbiamo deciso di ritornare alle vecchie abitudini, un post per festeggiare il compleanno tutti insieme, anche perché siamo in piena “Spooky season”, quindi ottima occasione per scrivere di un Horror che amo molto.

Dopo aver detto la sua su due classici archetipi horror, come i vampiri di Cronos e i mostri insettoni giganti del suo disastroso esordio americano, Guillermo del Toro ha pensato di elaborare in maniera molto personale la classica “Ghost Story”, un soggetto che era sul fondo della testa del regista messicano fin dalla sua adolescenza e che ha potuto mettersi in moto solo nel 1994. Un momento chiave durante un’anteprima di Cronos è stato l’incontro con Pedro Almodóvar, diventato produttore di un film che si è concretizzato solo sette anni dopo, perché la costante per del Toro e un po’ tutti i grandi registi apprezzati da questa Bara è sempre la stessa, la difficoltà nel trovare fondi per le proprie opere.

La poetica di Guillermo del Toro nasce da un punto di vista ad altezza bambino.

“El espinazo del diablo” ha la sfortuna di essere stato riscoperto dopo l’enorme successo del film successivo di del Toro, visto in retromarcia, andando indietro come i gamberi, per molto, troppo pubblico potrebbe risultare una versione minore, con decisamente molti meno mostri impersonati da Doug Jones. Eppure è con questo film che la poetica di del Toro si è completamente definita, mettendo l’immaginazione del messicano sulla mappa geografica e associando il suo nome al concetto di saper utilizzare il cinema di genere, non solo con manifesto amore per la materia, ma anche in modo brillante. Insomma con “La spina del diavolo” (che non parla di corrente elettrica) Guillermone nostro si è confermato essere il prescelto, destinato a portare equilibrio nella Forza che regola il cinema “alto” e quello “basso”, differenza che qui alla Bara non abbiamo e per questo abbiamo sempre apprezzato del Toro fin dai suoi esordi.

Personalmente è sempre l’elemento fantastico quello che mi convince a vedere un film, a leggere un libro o un fumetto, del Toro lo ha sempre utilizzato con tanto sale in zucca, le sue sono spesso analisi lucide della realtà, filtrare attraverso la lente dell’elemento sovrannaturale, molti hanno colto la palla al balzo e cavalcato le origini “latine” del regista, per associarlo a movimenti letterari come il realismo magico, in realtà la poetica di del Toro è leggermente spostata a sinistra, che sia il mercato dei Troll di Hellboy o il mondo dei vampiri di Blade, per il regista l’immaginario non è una via di fuga, al massimo è quello da abbracciare anche quando devi affrontare (e annullare) l’apocalisse, come il sudario di un fantasma il nostro mondo copre quello sottostante, quello magico, ma entrambi coesistono e non credo sia un caso se del Toro ha utilizzato proprio un fantasma e dei bambini (e un fantasma bambino, come Santi) per delineare per sempre la sua poetica.

Cosa vi dicevo dell’altezza bambino?

Nella Spagna del 1939, durante gli ultimi giorni della sanguinosa guerra civile spagnola, Casares (Federico Luppi, il primo attore feticcio del regista) e Carmen (Marisa Paredes) gestiscono un orfanotrofio sperduto nel mezzo del nulla, che come il villaggio di Asterix resiste ancora e sempre all’invasore. I due collaborano con i repubblicani e cercando di tenere al sicuro i bambini, una condizione di eterno “memento mori” ben riassunto per immagini dalla bomba, un gigantesco ordigno sganciato nel cortile di questa sorta di fortino di frontiera, miracolosamente inesploso, un monolite, che immagino pieno dei meccanismi e ingranaggi che piacciono tanto a del Toro che inceppandosi sta lì, vivo ma morto, forse per sempre a ricordare ai protagonisti quello che sarebbe potuto essere, quello che forse sarà, in ogni caso nulla di rassicurante.

Tipo la Bomba boomerang di Pelù ma fotografata meglio.

Il bello dei bambini? Nel loro essere privi delle sovrastrutture tipiche dell’età adulta, affrontano questo mondo e quello appena sotto il sudario con la stessa apertura mentale, infatti il problema del nuovo bambino arrivato nell’orfanotrofio, Carlos (Fernando Tielve), è più che altro quello di trovare il suo posto in questo micro-mondo, aver ereditato il letto di Santi, un bambino morto proprio la notte in cui è caduta la bomba non è un gran biglietto da visita, ma se gli adulti si impegnano a proteggere il fortino in tutti i modi dalla nera influenza delle truppe di Franco, Carlos si lancia nella ricerca di questa figura inquietate che gli altri bambini chiamano “Il sospiroso”, che potrebbe essere proprio Santi, desideroso di vendetta.

Una storia da brividi ad altezza bambino, all’ombra della guerra, di una bomba e di un orrore come quello del Franchismo ancora più oscuro, nel bel mezzo del sole Spagnolo grazie alla fotografia del fidato Guillermo Navarro, il regista elabora alla sua maniera i canoni classici dell’Horror Gotico, solo che invece di un vecchio castello uscito da un film della Hammer o della AIP, qui abbiamo un orfanotrofio di frontiera che ha lo stesso identico impianto scenico e a ben guardare, anche stanze segrete, angoli bui, casseforti con dentro tesori e ovviamente un fantasma ad infestare il tutto, anzi due, visto che per certi versi il vero fantasma è la guerra, che non vediamo mai ma percepiamo, anche nel suo avanzare facendosi sempre più minacciosa.

Questi vasi torneranno anche in Hellboy, continuità interna sulle mensole.

La struttura poi è quella della storia di fantasmi, che è risaputo, sono tutte storie spezzate, anche se “La spina del diavolo” ha una struttura circolare, una ruota che gira destinata a ripetersi eternamente, che si apre e si chiude con lo stesso monologo, quello in cui la voce narrante si interroga su cosa sia un fantasma, se non un evento terribile destinato a ripetersi all’infinito, un istante di dolore, un insetto nell’ambra, ma senza dinosauri.

Cosa amo fortemente de “La spina del diavolo”? Il suo essere una storia di resistenza, quindi anche una presa di posizione politica, i deboli che si alleano per sopravvivere ai forti, il finale in tal senso è bellissimo perché se anche tutti noi sappiamo che direzione ha preso la Storia (a destra), vedere i bambini andare verso un futuro è quasi un piccolo atto di ribellione concesso dalla fantasia e dal mondo dell’immaginario, anche se qualcuno dovrà eternamente restare a vegliare sui resti, consapevole di aver fatto tutto per concedere a chi poteva farlo di resistere. Per questo Santi è un personaggio tanto riusciti, nasce come minaccia spaventosa, si evolve come una creatura che vive in un modo sovrapposto al nostro, quindi a volte selvaggio e a volte incomprensibile nei gesti, non aiuta che sia pallido, dallo sguardo morto e seguito da una nuvola di sangue dalla testa che se toccato, può lasciarti le dita macchiate di rosso, etereo ma spaventosamente reale oltre che fottutamente grandioso nella resa visiva, di fantasmi al cinema ne abbiamo visti tanti, ma Santi resta uno dei più iconici di sempre.

Santi, morto per diventare memorabile.

La sovrapposizione tra mondo reale e quello sovrannaturale per del Toro non è una fuga dal mondo e dalle responsabilità, non è mai una coperta calda in cui avvolgersi per avere sollievo dal non dover fare gli adulti per un po’. Il regista Messicano prende i canoni della storia di fantasmi Gotica e li fa propri, gli applica i suoi colori, la sua creatività la sua poetica e sforna un romanzo di formazione che è inevitabilmente anche un film politico perché funziona su tutti questi livelli di lettura, senza mai ammorbare il pubblico, perché è istintivo e diretto, perché riesce a parlare di un contesto storico preciso, meglio di molti libri di storia e lo fa mettendo le giuste dosi di passione in entrambi gli elementi.

Il dramma del Franchismo è raccontato con trasporto, in un modo giustamente partigiano ma mai lanciato in faccia al pubblico perché il fuoco resta comunque su quel modo di vedere il mondo, ad altezza bambino in cui un fantasma, quindi qualcosa di irrazionale, fa più paura di una guerra, qualcosa di concreto, perché l’elemento fantastico non è una fuga dell’orrore reale, è legato come il destino di Santi e quella bomba inesplosa piantata là fuori.

Cantatela a lui “Forever Young” se avete il coraggio.

Per assurdo “La spina del diavolo” funziona così bene perché ha ben chiaro in testa come il mondo e il mondo del sovrannaturale siano lì, siano qualcosa che esiste in contemporanea, credendoci, e facendo credere anche allo spettatore a questo racconto a dimensione di bambini che spaventa e affascina in parti uguali, un memorabile fantasma che è rimasto in ombra della sua bomba più o meno fino al 2006, prima di essere riscoperto da un’orda di spettatori usciti dal labirinto di del Toro con gli occhi giustamente a forma di cuore.

Il suo unico difetto è davvero solo questo, visto seguendo l’ordine della filmografia di cui fa parte è il manifesto programmatico del cinema del suo regista, scoperto a ritroso, una versione molto simile della stessa storia con meno trucco prostetico, quindi a suo modo un fantasma rimasto a vegliare, eternamente, su tutte le altre storie che sarebbero uscite più avanti dal testone vulcanico dell’uomo che oggi compie gli anni, ci tenevo ad avere questo film lasciato indietro, dato per scontato qui sulla Bara, per il resto dei festeggiamenti invece, cliccate fortissimo sui link colorati. Auguri Guillermone! Ora la palla passa a Il Zinefilo che affronta il gabinetto di del Toro (letteralmente!) e a Vengono fuori dalle fottute pareti con la sua sul film di oggi!

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