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La stagione della strega (1972): Il femminista più alto del mondo

La rivoluzione è un atto sconvolgente che può destabilizzare
tutti, anche quelli che l’hanno iniziata, oggi parliamo di quello che
succede dopo le rivoluzioni, nel nuovo capitolo della rubrica… Lui è leggenda!

Malgrado il fatto che La notte dei morti viventi, sia un vero e proprio spartiacque, uno di quei
titoli capaci di determinare un “Prima” e un “Dopo”, nessuno è profeta in
patria, i critici europei sembrano un po’ più pronti di quelli americani a
tessere le lodi del film d’esordio di Romero che, da parte sua, cosa fa? Hai
appena rigirato il cinema horror (e non solo) come un calzino, la cosa più
logica da fare non resta che… Una commedia.

Prodotto dal fidato John Russo, “There’s always Vanilla”
esce nel 1971, penso che qui da noi in uno strambo Paese a forma di scarpa non
sia nemmeno mai uscito e, ammettiamolo, non ci siamo persi poi molto, ma non
sono io a dirlo, lo stesso Romero per anni non ha mai avuto problemi ad
ammettere che questo è di sicuro il suo peggior film, anche per colpa di uno
sceneggiatore piuttosto pigro, con ben poco interesse per la sua storia,
infatti pare che Rudolph J. Ricci abbia abbandonato il set a metà delle
riprese (storia vera).

Eccola qua, la commedia romantica diretta da Romero, film che abbiamo visto in nove (uno era Romero).

“There’s always Vanilla” è la storia di Chris Bradley
(Raymond Laine) un soldato di ritorno dal Vietnam che vive come un eterno
Peter Pan, guadagnandosi qualche spicciolo suonando la chitarra in giro e senza
gran voglia di far altro, almeno finché non conosce la bella Lynn (Judith
Ridley), modella di cui s’innamora. Nel mezzo, un’ex fidanzata diabolica e un
padre paziente che cerca di convincerlo a tagliarsi i capelli, trovarsi un
lavoro, mettersi la camicia nei pantaloni e altre cose così… Insomma: il padre
putativo degli zombie al cinema, ha diretto una commedia romantica, lo so è
difficile da credere, ma è andata proprio così!

“There’s always Vanilla” dura troppo, è difficile goderselo
perché il personaggio di Raymond Laine pontifica sui massimi sistemi e spesso
guarda in camera dialogando con noi spettatori per spiegarci quello che abbiamo
appena visto nel film, difficile cavare fuori qualcosa di buono da una
sceneggiatura così, infatti Romero che arrivava dalla pubblicità, dedica del
tempo allo spot di una birra a cui lavora la bella Lynn (per la serie scrivi
dirigi di quello che conosci) e cerca di dare enfasi alle contestazioni
contro la guerra del Vietnam che stanno sullo sfondo alla storia, dirigendo
degli attori piuttosto scarsi fra i quali spicca davvero solo Raymond Laine
(tenetemi l’icona aperta su di lui, che più avanti torna), insomma: una cosa per
completisti Romeriani che lascia intendere quanto sia sempre stato complicato
per la Leggenda, fare film anche dopo una pieta miliare come La notte dei morti viventi.

Strano non esista un’edizione Italiota del film intitolata tipo che so “…e alla fine arriva Zombie”.

Quindi, a questo punto, la Leggenda che cosa fa? Si getta
nuovamente nel caldo abbraccio del genere che ha contribuito a rivoluzionare,
ma con il suo stile, dopo aver modificato per sempre la percezione del
pubblico dei morti viventi e come farà ancora in carriera (lo vedremo in
questa rubrica a breve) Romero decide di dire la sua su un altro classico
“Mostro” del genere Horror: la strega.

Il tutto, ovviamente, sempre con il suo stile e con ben pochi
mezzi, messi a disposizione dal produttore Jack Harris. Infatti, Romero scrive
la sceneggiatura, cura la regia, il montaggio e la fotografia della pellicola
e sforna un film della durata di 130 minuti che, però, ad Harris non piace per
niente ed è qui che la travagliata storia produttiva della pellicola comincia.

Non so voi, ma a me sembra tutto, tranne che un horror femminista.

Il produttore modifica il titolo originale “Jack’s Wife” nel
più pruriginoso ed ammiccante “Hungry Wife”, ma soprattutto sforbicia di ben 40
minuti il girato e promuove il film come se fosse una roba soft core, una vera
truffa considerando che nel film non c’è nemmeno una scena di nudo. Che, poi,
dev’essere anche quello che hanno detto i pochi spettatori che si sono fatti
fregare dalla trovata messa su da Harris, infatti la pellicola è un flop
clamoroso che pare destinato all’oblio. Soltanto dopo il successo commerciale
di “Zombi” (Dawn of the Dead, 1978) Romero riuscirà a rimettere insieme i pezzi
del film e farlo uscire in sala in una versione prodotta da Nancy M. Romero
(prima moglie di zio George) della durata di 104 minuti, perché nel frattempo,
purtroppo, una buona parte del girato sforbiciato da Jack Harris era andato
perduto per sempre.

Al pari del celebre pezzo dei Donovan del 1967 che si sente
nella pellicola, il titolo definitivo diventa “Season of the Witch”, qui da noi
“La stagione della strega”, un film con più cose da dire di quello che si
potrebbe pensare ad una prima occhiata e che con un travaglio meno doloroso
avrebbe potuto essere anche migliore, ma anche qui, non lo dico io, lo diceva
proprio zio George che per anni non ha mai nascosto che l’unico sui film che
sarebbe stato pronto a sottoporre ad un auto-remake, sarebbe stato proprio
questo (storia vera).

“Che noia, che barba, che barba, che noia!” (cit.)

Joan Mitchell (Jan White) è una bella signora prossima agli…
‘anta, che apparentemente ha tutto, una bella casa nuova piena di televisori e
lussi vari, una figlia adolescente di nome Nikki (Joedda McClain) che
decisamente non dipende più da lei e un marito pieno di soldi e ben poche
attenzioni, anzi, quelle poche che le rivolge sono anche poco gradite visto che
la tratta… Si può dire “abbastanza di merda” su questo blog? Ah sì, è il mio,
quindi decido che si può dire.

Per fortuna, l’adorabile (ma anche no) maritino Jack è spesso
in giro per lavoro, quindi Joan passa molto tempo da sola e fa la conoscenza
di un signore di cui avevo un’icona da chiudere: Gregg Williamson (interpretato
guarda un po’, dal Raymond Laine di “There’s always Vanilla”) carismatico
professore della figlia, tuttologo, bohémien e buono a nulla, quasi una
continuazione del personaggio interpretato dallo stesso attore, nel precedente
film di Romero.

“Bel vestito, chi sei? Kelly LeBrock?” , “Detto da te con il cappello da Mr. Magoo”.

Il simpatico Gregg, ad una festa organizzata da Joan, pensa
di allungare una di quelle sigarettine arrotolate tutte un po’ storte, con
dentro la DROCA, ad una delle amiche della donna, ma siccome è simpatico come
una notifica da Equitalia, in realtà dentro c’è solo tabacco, uno scherzone che
serve solo a godersi la reazione esagerata della donna e farsi quattro risate,
insomma: i personaggi maschili di questo film vanno dallo “Stronzo” al “Testa di
cazzo” facendo surf su tutte le sfumature di idiozia che ci sono nel mezzo. Se
ci sono troppe parolacce nel post ditemelo, ok?

Sì, perché Romero mette in chiaro la sua posizione fin da
subito, il film inizia con una scena onirica: Joan segue suo marito nei boschi,
con i rami che le graffiano la faccia, passando davanti a bambini che gattonano
nell’erba ed altre trovate molto Bunuelliane, soltanto per essere chiusa in
una gabbia, presa a colpi sul “muso” con un giornale arrotolato e poter uscire
solo con il guinzaglio, un incubo di Joan che non richiede proprio Sigmund
Freud per essere psicoanalizzato, ecco.

Sigmund Freud Luis Buñuel, analyse this.

Specialmente nella parte iniziale del film George A. Romero
ci dà dentro con i simbolismi, non è ancora chiaro se Joan sia sveglia, oppure
stia ancora dormendo, però ogni volta che si guarda nello specchio, vede se
stessa come una vecchia (anche abbastanza spettrale) destinata a morirci in
quella casa, perché “La stagione della strega” è una bella analisi sulla
solitudine femminile, vista dal punto di vista di un uomo come Romero che in
ogni suo film, trova il modo di dire la sua sullo stato sociale, perché per la
Leggenda, arte e critica sociale vanno a braccetto e una non esclude mai
l’altra.

Joan, di fatto, è troppo vecchia e legata ai vecchi valori che
le sono stati insegnati dalla generazione precedente, per poter cavalcare in
libertà la contestazione del ’68, come potrebbe fare, ad esempio, sua figlia
diciannovenne Nikki, ma comunque in questa società si sente stretta, non
rappresentata e proprio per questo si affida a rituali ancora più antichi,
ovvero la stregoneria.
Affascinata da una cartomante, Joan si appassiona
all’esoterismo, armata di un comodo librone intitolato “Come diventare una
strega in dodici comode mosse” (o qualcosa così) e sulle note di “Season of
the Witch” dei Donovan, Joan decide di diventare una strega, a suo modo, una
presa di posizione, un modo per ribellarsi, perché se guardiamo alla storia,
appena una donna ha provato a rialzare la testa, c’era subito qualche uomo
detentore del potere, pronto ad additarla come strega.

Tutto materiale per l’investigatore bibliofilo.

Se i morti viventi per Romero erano una minaccia generica
capace di mettere l’umanità spalle al muro, dimostrando quanto siamo pronti ad ammazzarci
l’uno con l’altro, qui l’idea è quella di mettersi in scia ai movimenti
femministi, per mettere alla berlina il bigottismo della società americana,
usando la figura della strega in maniera provocatoria, un archetipo horror al
servizio della critica sociale, un trattamento che Romero riserverà anche ai
vampiri come vedremo più avanti nel corso della rubrica (non vedo l’ora!).

L’abilità di zio George sta nel mescolare realtà e finzione,
quando Joan sorprende Gregg a letto con la figlia, qualcosa in lei si spezza,
convincendola a barricarsi sempre di più nella nuova identità che la donna ha
voluto per sé stessa, ovvero quella della strega, per questo Joan inizia a
sognare un minaccioso uomo mascherato da demone che la perseguita nei sogni.

Ecco magari, la peperonata la sera prima di andare a letto, anche no.

Ad ogni nuovo trauma la sua distanza con la società aumenta
in favore della sua volontà di essere una strega, pare che sul set, quando
l’attrice Jan White ha pronunciato per la prima volta le parole «Io sono una
strega!» si sia formata una grossa e rumorosa crepa sul soffitto che Romero ha
subito imputato ad una delle luci di scena roventi e troppo vicine al muro, ma
che ha comunque fatto fare un bel salto di paura a parecchi componenti della
troupe (storia vera).

George A. Romero sacrifica i momenti horror in favore
dell’atmosfera, questo si traduce anche in qualche lungaggine di troppo,
esattamente come in “There’s always Vanilla”, Raymond Laine si ritrova a
pontificare sui massimi sistemi allungando un po’ il brodo, ma Romero è bravo a
mescolare le carte, quando Joan schiaffeggiata ingiustamente dal marito davanti
a tutti, sogna di uccidere il demone che la perseguita, non è volutamente
chiaro se questo sia un desiderio inconscio o un fatto reale, ma sta di fatto
che il signor Mitchell lascia questa valle di lacrime e sua moglie vedova.

Pensavate mi fossi dimenticato della tradizione dei titoli di testa?

La morte del marito è accaduta veramente? É stato un atto
di vendetta? Oppure un tragico incidente indotto dalla convinzione della donna
di essere davvero una strega? Inizio a sembrare Lucarelli con tutti queste domande, diciamo che importa poco, perché Romero conclude il discorso
nel modo più malinconico possibile: Anche se libera dal marito e strega a tutti
gli effetti dopo il rituale di iniziazione, alla festa a casa sua, gli ospiti
parlano ancora di lei come della signora Mitchell, o anche peggio, della moglie
di Jack, come se una donna non potesse avere una sua misura senza un uomo al
suo fianco. George A. Romero, un femminista di un metro e novantaquattro!

“Sicura di essere proprio una strega? Perché così sembri più Moira Orfei”.

Insomma: dopo la rivoluzione di La notte dei morti viventi e
lo sbandamento cercando se stessi anche nella commedia, Romero ha la strada tracciata,
la sua missione è quella di utilizzare l’horror per pungolare tutte le
idiosincrasie della nostra società, andando a colpire nelle parti molli e non
protette. “La stagione della strega” è un film con problemi di ritmo che, però,
ha già le idee molto chiare e la prossima settimana vedremo come Romero abbia
deciso di percorrere quella strada a grandi passi e quando sei alto un metro e
novantaquattro hai una falcata molto lunga.

Ci vediamo qui, tra sette giorni, con un nuovo capitolo di
questa rubrica, portate la maschera anti-gas, tornerà utile!
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