2024. Anno del dragone secondo il calendario cinese, quindi l’anno giusto per trattare il film di oggi, protagonista del nuovo capitolo della rubrica… Like a Stone!
Dopo aver visto sfumare la possibilità di portare al cinema la sua versione di Conan, e dopo il modesto successo al botteghino di un film diventato di culto con il tempo come Scarface, Oliver Stone è ancora un ex giovane vincitore di premio Oscar, con un paio di horror di scarso successo sotto la voce “regia” della sua filmografia, anche la sua storia russa, intitolata “Defiance” viene resa obsoleta dalla politica estera messa su da Michail Gorbačëv. Inoltre, anche se Tom Cruise nella testa del nostro Oliviero poteva essere perfetto nel ruolo del protagonista per il suo “Platoon”, l’aria era cambiata, Hollywood non voleva sentir parlare di storie di guerra realistiche, tanto che Tommaso Missile sarebbe diventato un po’ famosimo proprio per un titolo bellico sì, ma con poco a cui spartire con il realismo e la verità che Stone voleva raccontare.
La soluzione arriva dall’Italia, perché sì, è ancora una volta il momento di veder sbarcare l’immarcescibile Dino De Laurentiis su questa Bara, personaggio che Stone nella sua autobiografia “Cercando la luce” (2020, la nave di Teseo) descrive come una sorta di Zorba il greco, che vince e un attimo dopo perde soldoni al casinò mentre riempie il piatto a tutti di lenticchie (‘so soldi ragioniere! Cit.) per festeggiare il capodanno in Costa Azzurra con i suoi ospiti. Il 1984 in arrivo sarà un grande anno, Dinone aveva messo le mani sui diritti del romanzo di Robert Daley intitolato “Year of the Dragon” e aveva sotto contratto Michael Cimino per dirigerlo. La notizia? Cimino vuole proprio Stone come co-sceneggiatore.
Un lavoro che per il nostro Oliviero sarà pagato meno della sua sceneggiatura per Scarface, perché contro il braccino di legno di De Laurentiis sono andati sotto tutti, ma nell’accordo Stone strappa al produttore un budget di sette milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti spirati per scrivere e dirigere di persona “Platoon”, forse il 1984 per lui sarà davvero un anno buono, anche perché “L’anno del dragone” è comunque nella sue corde, un poliziesco tosto sullo stile di Il braccio violento della legge oppure Serpico, sul tema delle triadi cinesi, con protagonista un poliziotto reduce del Vietnam, motivo per cui Cimino ha voluto proprio Stone a scriverlo, per renderlo più realistico (storia vera), ad accumunarli ovviamente, non è difficile capirlo, ma è ovviamente il Vietnam.
Stone tratteggia il capitano Stanley White in parti uguali sulla sua esperienza laggiù nel ‘Nam e su un colorito agente di polizia di Los Angeles che aveva conosciuto, polacco di origini e con la propensione a spararla grossa, su questo trova il pieno sostegno di Cimino che bisogna ricordarlo, nella sua filmografia ha almeno un film dell’ispettore Callaghan come sceneggiatore, ma come regista secondo Stone è l’opposto di Brian De Palma, il cui unico punto in comune descritto nell’autobiografia sta nella volontà di Cimino di rifare alla sua maniera la scena degli specchi infranti di Scarface, più grossa ed esagerata, scegliendo di mandare in pezzi degli acquari. Per il resto è chiarissimo dal testo che Stone, l’approccio Depalmiano non l’abbia mai amato, troppo concentrato su Hitchcock per i suoi gusti, Cimino invece è un comandante di plotone che lui è disposto a seguire nella giungla di “Year of the Dragon”, uno che fa ricerche (oppure le delega a qualcuno di fiducia) su tutto, il tipo di tessuto dei vestiti, la tipologia delle armi, un regista capace di ripetere la gestualità delle riunioni della mafia cinese (per altro in un montaggio alternato con la riunione della polizia che deve qualcosa a M – Il mostro di Düsseldorf), per non parlare di un’altra infinità di dettagli che nel film nemmeno si vedono ma che Cimino DEVE sapere per avere il controllo su tutto, una precisione che costa e fa lievitare il budget, d’altra parte parliamo del regista che arrivava dal clamoroso (e immeritato) flop de I cancelli del cielo, il film che ha messo fine alla libertà creativa dei registi della New Hollywood oltre che alla United Artists.
La produzione procede spedita, senza grossi intoppi va detto, se non un piccolo problema sul finale, Cimino e Stone per il cattivo pensano ad un’accusa di bigamia che lo incastra definitivamente, d’altra parte Al Capone è finito in carcere non per i suoi crimini ma per evasione fiscale no? A Cimino quel finale piaceva, a De Laurentiis faceva platealmente schifo: bigamia?! Ma siete scemi? Agli americani non piacerà mai questa roba, riscrivete tutto e ficcateci dentro una bella sparatoria! Detto fatto, per altro alla grande visto che il duello sul ponte resta ancora oggi uno dei finali più tesi, tragici, realistici e visivamente potenti che io ricordi tra quelli visti al cinema.
Ma se la fase creativa della scrittura fila liscia, quando si inizia a girare il film, per Stone si ripete lo stesso destino riservato per lui da Alan Parker con il suo Fuga di mezzanotte, nella sua autobiografia il nostro Oliviero Pietra è critico riguardo alla riuscita sullo schermo di alcuni dei dialoghi del poliziotto impersonato da Mickey Rourke, per lui un po’ troppo piatti e non abbastanza sardonici, qualche riscrittura o qualche seduta di lettura del copione in più secondo Oliviero avrebbe fatto un gran bene al film, ma Cimino lo tiene lontano dal set perché eventuali riscritture non sarebbero state gratis e l’ombra di un altro I cancelli del cielo era dietro l’angolo eppure nulla di tutto questo basta, anche mantenendo il budget sui ventiquattro milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti, il film va male al botteghino. Stone aveva capito la pancia del pubblico, per nulla interessato a dure storie realistiche, il bagno di sangue economico traumatizzò così tanto Dino De Laurentiis che quando acquistò i diritti per “Red Dragon” di Thomas Harris, gli fece cambiare il titolo in Manhunter, con i draghi aveva chiuso, non ci sono abbastanza lenticchie nel mondo per contrastare la sfiga che portano, anche se questo non gli ha impedito nel 1990 di radunare nuovamente la banda per “Ore disperate”, Dinone De Laurentiis signore e signori, prendere o lasciare.
“L’anno del dragone” è un film bellissimo, fa parte di un’ideale trilogia che esiste solo nella mia testa, composta da “Yakuza” di Pollack (prossimamente su queste Bare) e Black Rain, anche se a ben guardare nel suo essere così cinese dentro ha parecchio di “Chinatown” di Polański, ma con ben due attori presi direttamente da Grosso guaio a Chinatown, Victor Wong nei panni di uno dei vecchi capi della triade e Dennis Dun, nei panni della giovane recluta, versione orientale dell’Andy Garcia de Gli Intoccabili, prima bersaglio degli insulti razzisti del protagonista («I cinesi bloccano sempre il traffico, guidano come scrivono la musica, da destra a sinistra») e poi uno dei personaggi “motivazionali” per Stanley White.
Per essere un film in cui lo stesso Stone mette in dubbio l’efficacia dei dialoghi, per me “L’anno del dragone” resta un gran film, uno di quelli dove i protagonisti si urlano in faccia gli uni con gli altri e poi un minuto dopo sono pronti a sfondare la porta a spallate per salvarsi, il tipo di film con cui sono cresciuto e che non trova riscontro nella realtà, dove molti (colleghi di lavoro e presunti amici) che si atteggiano a fieri portatori di cromosoma Y, alla prima discussione corrono a nascondersi. Non so se sono io fuori dal tempo o questo film, visto che oggi farebbe ancora incazzare tutti con i suoi dialoghi realistici e incuranti di offendere qualcuno («Il primo poliziotto che prende soldi si becca un cazzotto dal sottoscritto», «E se è una donna», «Si becca un’altra cosa»), anche se per me il difetto peggiore resta la scena di stupro, che per mia fortuna avviene almeno fuori scena, ma risulta senza conseguenze, visto che chi la subisce pochi minuti dopo sembra stare benissimo, problemi che si notato e che fanno parte dell’andamento ondivago di un film che in ogni caso, resta bellissimo e molto intenso, anche quando sembra cambiare direzione.
Come ad esempio la lunga sequenza di “Mamma cocaina”, con cavalli e location che mettono in chiaro gli echi Western già presenti nel film (più avanti ci torneremo), una lunga porzione di storia in cui si vede tutta la volontà di realismo di Cimino, oppure una delle scene migliori del film, quella che De Laurentiis voleva tagliare per non far calare il ritmo, ovvero la litigata tra Stanley White e sua moglie Connie (Caroline Kava), un’altra scena che sembra presa di peso da un altro film dove i due attori possono scatenare tutto il loro talento, per definire quei rapporti umani che sono sempre alla base dei film di Cimino e rendono quello che accade dopo, ancora più drammatico.
Visto che ho aperto il vaso di Pandora, la prova di Mickey Rourke è micidiale, fa strano rivederlo oggi con la sua faccia originale (e la voce di De Niro se siete abituati a guardare i film doppiati) però il suo personaggio ha tutti i principi degli eroi dei film di Cimino, rappresentanti di una mascolinità dolente, tormentata e costretta a spingersi fin dove non vorrebbe. Il contributo di Stone è fondamentale nel tratteggiare un personaggio per cui la guerre non è mai finita (mi sa che mi è scappata una cit.), un soldato che combatteva contro gli orientali – che lui ovviamente non chiama così – ed è ancora in guerra, come diventa chiaro nelle rasoiate rappresentate dai quei dialoghi efficacissimi («Non puoi bombardare i nemici come in Vietnam», «In Vietnam nemmeno li vedevo i nemici qui si!», oppure ancora «Una guerra come in Vietnam ma questa volta non perderò per colpa della cazzo di politica!») per non dire del paradosso rappresentato dal perdere la testa per una giornalista, a sua volta orientale come la Tracy Tzu interpretata da Ariane Koizumi, un tipo di personaggio, quello della bellezza orientale di turno, che proprio grazie a titoli come “L’anno del dragone” viene da associare a Cimino, ma ha parecchia cittadinanza anche nella produzione di Stone come vedremo nel resto della rubrica.
Inoltre Stanley White cavalca alla perfezione gli echi Western di un film estremamente cinefilo, senza mai lanciare in faccia le fonti allo spettatore, Cimino e Stone dimostrano di avere fatto loro le lezioni dei grandi Maestri, oltre alla già citata scena ambientata il Thailandia, si riducono i gradi di separazione con un classico che Cimino ha sempre dichiarato di amare molto come “Sentieri selvaggi” (1966), in entrambi i film abbiamo un pistolero reduce di guerra, nemmeno velatamente razzista, entrambi sono alle prese con una donna contesa e allo stesso modo, fanno irruzione durante un funerale. Ma a ben guardare Cimino e Stone sfoggiano tutto il loro buon gusto cinematografico, senza mai farlo pesare allo spettatore, ci sono nasi incerottati come nel “Chinatown” di Polański, per non dimenticare i punti di contatto con “L’infernale Quinlan” (1958) oltre alla donna che subisce violenze, il gran finale sul ponte mi ha sempre fatto un po’ pensare al film di Orson Welles.
Alla sua uscita il film non è andato come merita, ad oggi è un culto che ben rappresenta, oltre al cinema di Cimino, anche un modo di pensare ai polizieschi che ormai è estinto, anche se nella carriera di Stone il nostro titolare di rubrica ha dovuto mandare a segno un’altra battuta d’arresto, con il grande successo al botteghino dei vari film nati sulla scia di Fratelli della notte, ovvero il ben più popolare Rambo, quel mezzo accordo strappato per “Platoon” andò in fumo, ancora una volta la verità nella vita e ad Hollywood non sembrava pagare dividendi.
Eppure il nostro Oliviero Pietra aveva delle novità per inaugurare un anno, il 1986, che per lui sarebbe stato fondamentale, anche grazie all’adattamento di un romanzo su cui questa volta, avrebbe avuto molto più controllo creativo, o almeno, quelli sarebbero stati i piani. Ci sono otto milioni di storie e tra sette giorni, parleremo di una di queste, la rubrica su Stone è solo all’inizio, non mancate!
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