Bara, non se ne trova nemmeno uno diretto da John Woo. Ci sarà un motivo no?
La verità è che avevo in testa di mettersi sulle tracce
del regista nato Wu Yu-sen molti anni fa, subito dopo la rubrica su John Carpenter, per completare un’ideale
“Trilogia dei John”, ma poi ho preso il ritmo e ho pensato che bisognava trattare prima altri nomi, come Leone e Peckipah, per essere davvero pronti ad
intraprendere il viaggio con il genio del cinema di Hong Kong. Quindi con uno dei miei
gruppi preferiti nelle orecchie
partiamo, il nome di questa rubrica è pronto da anni, benvenuti al primo
capitolo di… Who’s better, Woo’s best!
Kong, quel manipolo di registi che hanno portato una ventata di autorialità nel
cinema popolare cinese, in una versione locale della “Nouvelle Vague”, i vari Ann
Hui, Tsui Hark e Patrick Tam, il nostro John Woo ha fatto un percorso
differente, nato in Cina si è trasferito ad Hong Kong giovanissimo, facendo una lunghissima
gavetta prima di arrivare alla regia e successivamente, a dirigere i film che
lo hanno reso il Maestro che ancora oggi è giustamente considerato.
Una produzione nutrita e sommersa di titoli che in
occidente non sono mai arrivati, nemmeno quando praticamente da solo e armato
del suo cinema, Woo ha fatto da ponte con l’oriente. Da quella vasta
produzione, oltre ad un quantitativo nutrito di commedie, solo un paio di
titoli sono reperibili sul mercato home video in inglese, procedendo in ordine cronologico
cominciamo il nostro volo con “Last hurrah for chivalry”, il titolo con cui Woo
nel 1979 ha saputo iscriversi a quel pugno di registi della new wave
hongkonghese, a ben guardare con un film fuori tempo massimo, ma già proiettato
nel futuro, mi tocca invocare il solito Anders Celsius, andiamo per gradi.
In quel periodo i titoli più in voga e richiesti a gran
voce dal pubblico erano essenzialmente due, classici film di Kung-Fu e
commedie, ecco perché John Woo ha avuto modo di farsi le ossa con “Hand of
Death” (1976), che nel cast prevede anche la presenza dei due “amigos” Jackie Chan e Sammo Hung. Anche se il desiderio di Woo era quello di realizzare
qualcosa di differente, più personale e meno prodotto in serie, l’occasione
arrivò proprio nel 1979, sotto l’egida della mitologica Golden Harvest di
Raymond Chow, il nostro ha finalmente avuto l’occasione di scrollarsi di dosso l’etichetta
di regista di commedie, che gli era rimasta incollata per “colpa” dell’enorme
successo al botteghino di “Money Crazy” (1977), tanto da restare incastrato in
un’infilata di titoli identici, tutti basati su umorismo slapstick che Woo
candidamente odiava, tanto da arrivare ad un passo dal mollare tutto per
dedicarsi solo alle regie televisive, in voga in quel periodo grazie alla
produzione della Radio Television Hong Kong (storia vera).
Per nostra fortuna e più in generale, per quella della
settima arte, “Last hurrah for chivalry” scritto dallo stesso Woo anche se
accreditato alla regia come John Y. S. Woo, diventa l’occasione per rendere
omaggio al suo grande Maestro, Zhang Che (o Chang Cheh) di cui Woo è stato
disepolo e regista di seconde unità a lungo, imparando molto dal suo stile, per altro con un tempismo notevole.
Già perché sul finire degli anni ’70 il classico Wuxia stava vivendo
una sorta di ritorno, grazie a titoli come “The Butterfly Murders” (1979) di
Tsui Hark e “The Sword” (1980) di Patrick Tam, il momento giusto per Woo per
entrare a gamba tesa con un titolo in grado di omaggiare i vecchi lavori del
suo Maestro, ma anche di strizzare l’occhio ad altri grandi nomi del cinema. Trovo
sempre impressionate il modo in cui John Woo in ogni intervista, trovi sempre
il modo di paragonare il suo cinema a quello dei Maestri occidentali,
dimostrando oltre la sua preparazione in materia, ance la sua propensione a
guardare a questa parte del mondo, per arricchire la sua visione.
“Háoxiá” che sui mercati in lingua inglese abbraccia l’espressione
“Last hurrah”, che per gli anglofoni è sempre sinonimo di ultima cavalcata,
quindi perfetto accoppiato alla “chivalry” del titolo, ha tutte le
caratteristiche dei classici wuxia, ma con un tocco più crepuscolare, quasi da
film western. Infatti più che imitare le inquadrature rese popolari da Akira Kurosawa (quello che veniva
chiesto di fare ad ogni regista di Hong Kong), Woo vuole mettere ritmo, ritmo e
ancora ritmo nei suoi film d’azione, scegliendo primi o primissimi piani
pescati direttamente dal cinema di Leone, a chiudere idealmente un cerchio di
contaminazioni tra cinema orientale e occidentale, iniziato proprio da Leone nel 1964.
Anzi, diciamola tutta, un piede nella tradizione
orientale, uno sguardo ad occidente e il mento bello alto, rivolto al futuro.
Con il famigerato senno di poi, quello che regala a tutti dieci decimi di
vista, potremmo dire che “Last hurrah for chivalry” per tematiche, struttura, quella spolverata
di melodramma e contenuti, contiene gia tutti i semi dei futuri film del regista, quelli che
insieme alla produzione di Ringo Lam, andranno a formare quella categoria
battezzata Heroic bloodshed, di cui
parleremo diffusamente e fino allo sfinimento perché se non si fosse capito, ho
una rubrica su John Woo e nessuna paura di usarla! Spargete la voce.
Rivali che si scoprono simili, quasi fratelli d’arme, l’amicizia
come valore assoluto sempre raccontata in modo virile, mai sporcata da tracce
di “Broomance” scappato di mano, togli le katane ai protagonisti di “Last
hurrah for chivalry” mettigli delle 45 automatiche, una in ogni mano ed è
praticamente impossibile distinguere questo film dalla produzione successiva del genietto
nato Wu Yu-sen.
Si inizia con un matrimonio, una trovata che se avete
familiarità con il cinema di Woo, dovrebbe già ricordarvi qualche altro suo
glorioso titolo, qui si tratta di quello del giovane Kao Pang (Lau Kong) che però viene interrotto
malamente dall’entrata in scena del losco Pai, vecchio nemico della famiglia
Pang. Pronti via, grazie ad un gruppo di mercenari al soldo del cattivone, John
Woo può già dirigere la prima scena di combattimento del film, visto che gli
sgherri uccidono la moglie del protagonista e feriscono gravemente anche Kao,
che curato dal proprio Maestro torna in forma, pronto per la vendetta. Fino
qui, puro wuxia, siamo con tutte le zampe dentro al canone.
Per battere Pai l’invincibile, ci vuole un po’ di aiuto, l’ideale
sarebbe riceverlo da Chang, anche noto come “la spada magica” (interpretato da Wai
Pak), quello che Pai non sa è che Chang ha fatto una promessa solenne alla
madre, giurandole di non combattere mai più, nel tentativo di costruirsi un…
domani migliore (occhiolino-occhiolino, gomitino-gomitino), anche se il titolo
di re degli spadaccini fa gola a molti, motivo per cui i personaggi coloriti
non mancano, a partite da Tsing Yi (Damian Lau), di verde vestito e sempre
attaccato alla bottiglia, uno pronto a bersi anche il vino cerimoniale, poco
importa se ha un retrogusto di incenso, sempre di vino si tratta. E poi è gratis oh!
Il debito con gli Spaghetti-Western invece, John Woo lo
riscatta attraverso il personaggio di Preghiera, lo spadaccino vestito di
bianco armato di lama e frase maschia: «Chiunque sfiori la mia spada è meglio
che inizi pregare», voi lo vedete così, ma in realtà è molto più simile ai vari
Sentenza, Sartana, Django, Mannaja e compagnia sparante di quanto sembri.
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Colpire scivolando sulla schiena, scaldatevi perché entro la fine della rubrica dovrete saperlo fare tutti. |
A questo aggiungeteci una selva di personaggi che sono
puro materiale da wuxia, tagliagole dai nomi che sono tutto un programma come
Lupo o Lancia, oppure il Mago dormiente (che è meglio non svegliare, s’incazza)
in un crescendo di sfide e scene di combattimento in cui John Woo può letteralmente sbizzarrirsi. Le coreografie di lotta sono frutto dell’esperienza
accumulata nelle precedenti nove regie, quella che permette a Woo di dirigere
scena di combattimento lunghe, molto articolate ma sempre chiarissime nella gestione
dello spazio, tra cui spicca la lotta dei due protagonisti soli, a contrastare
un attacco di Ninja bianco vestiti.
Ma non manca nemmeno una sorta di “Cage match” degno del
Wrestling, quando i protagonisti devono liberarsi dei loro avversari,
combattendo dentro un’enorme gabbia calata dall’alto. Fino ad arrivare alla
scena delle candele, dove si utilizza tutto, anche l’astuzia, pur di battere l’avversario
con la sua boccetta di liquido sputafuoco.
La regia di John Woo per ritmo e trovate visive è
incredibile, primissimi piani e inquadrature sulle mani appoggiate sull’elsa
della katana pronta ad essere estratte, diminuiscono la distanza con il genere
Western, ma allo stesso tempo abbiamo già i rallenty puntualissimi, ad enfatizzare
questo o quel momento particolarmente violento o drammatico. I personaggi sono
come il loro regista, uno che nei contenuti speciali del DVD di questo film,
intervistato si definisce un “oldtimer”, uno come Napoleone Wilson, nato fuori
dal suo tempo, che vive secondo i vecchi principi, motivo per cui l’amicizia è
il più alto dei valori per i personaggi di Woo e il tradimento, la peggiore
onta possibile.
Il finale poi è fantastico, lo scontro contro il “Boss
finale” è diretto da Woo rifacendosi all’uso della suspence di Alfred Hitchcock per sua stessa ammissione. Il cattivone svolazzante, tipico del wuxia può
colpirti da ogni lato, riuscita metafora della minaccia che può arrivare da ovunque. Non ho idea se Woo avesse già visto Lo Squalo di Spielberg quando ha diretto questo finale, ma il suo
cattivo è come Bruce, grazie ad operatori appesi a loro volta a cavi come i
protagonisti, il terribile Pai può spuntare da tutti i lati, anche dall’alto, l’esito
del combattimento anche qui, è del tutto sovrapponibile ai pistoleri Wooviani,
con un’amicizia virile costruita sul campo, a colpi d’azione, che a volte
richiede un sacrificio, il più alto se necessario.
“Last hurrah for chivalry” non fu un grande successo di
pubblico, raccolse critiche tiepide, ma portò in scena momenti che per ritmo e
spettacolarità, furono la prova che l’allievo Woo aveva superato anche il suo
Maestro Chang Cheh. Non è semplicissimo da recuperare ma se vi piacciono i
wuxia, questo ultimo “Urrà” è crepuscolare il giusto per chiudere idealmente in
gloria l’intero genere, oltre ad essere il primo vagito dell’Heroic bloodshed pronto a nascere.
Nel prossimo capitolo della rubrica, tra sette giorni, un
altro importante passaggio della scalata di Woo alla vetta, quella dove possono
osare solo i Maestri come lui, perché qualcuno è bravo, ma John Woo è il
migliore e noi siamo solo all’inizio. Ho una rubrica su John Woo, spargete la
voce!