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L’autista (2017): Adelante! Adelante! C’è un uomo al volante

Le rapine in
banca sono il sale del cinema, per tanti anni, però, il tizio che sta fuori in
auto, con il motore acceso e le porte aperte è stata solo una figura indistinta
che giusto il Maestro Walter Hill ha saputo valorizzare in quel capolavoro di “Driver
l’imprendibile” (1978).


Ultimamente a
raccogliere il testimone di Gualtiero Collina ci ha pensato più di un regista, il
primo tra tutti Nicolas Winding Refn nel 2011 con “Drive” e più recentemente
anche Edgar Wright con il bellissimo Baby Driver, probabilmente l’ultimo film
in cui avete visto recitare Kevin Spacey, quindi fatevelo bastare.
Ad unirsi a
questo ragguardevole club riportano idealmente tutti agli anni ’70 di Walter
Hill ci pensa un esordiente, Jeremy Rush, che arriva da un paio di cortometraggi e pare avere già le idee chiare, ma anche il produttore giusto, il mio amico Joe
Carnahan, uno che mi piacerebbe veder dirigere più film, visto che è dal 2014
(e proprio con la storia di un autista)
che non lo si vede più, purtroppo.
Il suo zampino si
vede, perché l’ambientazione di “Wheelman”, disponibile su Netflix con il
titolo “L’autista” è tutta notturna e molto anni ’70, sembra davvero di vedere,
non dico un film di quel periodo, ma almeno uno ambientato in quel decennio, finché l’autista Frank Grillo non si mette l’auricolare e inizia a
parlare al cellulare. Che bello quando una storia riesce a tener conto della
tecnologia moderna, una mossa che apprezzo sempre.



“Un tizio losco a bordo di una bara volante ci segue con i fari spenti”.

Carnahan era lo
stesso che a lungo ha accarezzato l’idea di fare un film su Daredevil proprio
ambientato negli anni ’70 (storia vera) e qui in Geremia Corsa trova una degna
spalla, perché il film è la storia proprio di uno di quegli autisti che aspettano
fuori mentre qualcuno svuota le casse ed è proprio qui che inizia e si
ambienta quasi tutta la trama: in macchina.

Rush apre la
pellicola tenendo la macchina da presa sui sedili posteriori dell’auto del
protagonista e ci fa guardare da lontano il personaggio di Frank Grillo che
poi entra in macchina e parlando al telefono idealmente ci racconta la sua
storia: divorziato e con una figlia 13enne Katie (Caitlin Carmichael) a casa per
il weekend, il nostro ha ricevuto un ordine diretto, lasciare in braghe di
tela i due rapinatori, partire sgommando e portare i soldi della rapina in un
punto preciso della città. Anche se non è una mossa molto professionale, il
nostro accetta anche perché uno dei suoi due compari è un gentiluomo che si fa
chiamare “Motherfucker” interpretato dal sempre bravo Shea Whigham, che qui si vede troppo poco, ma fa in tempo a
sfoggiare una cresta di capelli alla Travis Bickle, tanto per rimanere il tema
anni ’70.
Da qui le cose si
complicano, il committente che compare sempre solo come una chiamata da fuori
città sullo smartphone del protagonista, vuole i soldi e cambia le carte in
tavola, per farlo rapisce la moglie del protagonista, quindi i 92 minuti di
durata di “Wheelman” lo rendono un film quasi in tempo reale, tanto parlato per
ovvie ragioni, ma anche con un ottimo ritmo.



“Alla prossima curva semino quella cassa da morto”.

A ben guardarlo, “L’autista”
ricorda molto “Locke” (2013) scritto e diretto da Steven Knight, però decisamente più di genere rispetto al film con
Tommaso Resistente alla guida, perché Frank Grillo sta mettendo su una più
che decente carriera da eroe d’azione alternativo e qui si carica sulle
spalle (anzi, sui primi piani) tutto il film, non dev’essere semplice tenere lo
schermo per 90 minuti, recitando tutti i dialoghi da solo in auto, fingendo di
parlare con qualcuno dall’altra parte del telefono, ancora più complicato
tirare fuori un film d’azione da questa premessa, ma Grillo e Rush ci sono
riusciti.

La trama è
tirata, non ci sono tempi morti e il duello verbale tra l’autista e i suoi
avversari telefonici diventa spesso un duello fisico, contro un sicario in moto
prima e tanti sicari armati nel finale, il tutto sfruttando l’abitacolo
dell’automobile come unica location del film.



Se soffrite il mal d’auto, forse è meglio vedere un altro film.

Le volte che Jeremy
Rush tradisce questo principio e porta la macchina da presa (e il suo protagonista)
fuori dalla macchina, in realtà non fa che ribadire il concetto, perché anche
quando l’azione ci viene mostrata dal punto di vista della figlia Katie, la
ragazza è comunque sempre vicino alla macchina, anche quando cambia come nel
finale, quanto padre e figlia zompano sopra una Porsche bianca (con un vistoso
numero 13 sul cofano) per l’ultima tiratissima scena d’azione.



Una scena davvero
efficace perché prevede sia un inseguimento in auto che una sparatoria e la
decisione cinematografica estrema di tenere sempre la macchina da presa e il
protagonista in auto, diventa quasi poetica nella scena (che non vi rivelo) che
conclude il film.

“Smettila di seguirmi Cassidy, fermati o ti riduco a un colabrod!”.
Insomma, in un
cinema moderno che è sempre più ossessionato dal tenere bassi i costi, Jeremy
Rush riesce a farlo abbracciando un genere che prima di questo film pareva
richiedere per forza inquadrature a bordo strada per mostrare le sgommante. Non
dico che Geremia Corsa cambierà la storia del cinema, quello proprio no, ma
quello che poteva essere un palloso e troppo parlato esercizio di stile, si
traduce in un film d’azione con una sua identità, che vi intratterrà come si
deve per tutta la sua durata, quella giusta, 90 minuti per me è il tempo
perfetto per un film.

Se vi scappa di
buttare un occhio al film, ora sapete cosa aspettarvi, intanto teniamo tutti
gli occhi su Jeremy Rush, per essere un esordio è piuttosto buono, vedremo se e
cosa ci riserverà per il futuro.
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