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Lawrence d’Arabia (1962): il più colossale dei colossal colossali

1962, un ragazzino di sedici anni già molto innamorato della settima arte, si intrufola in un cinema per vedere “Lawrence d’Arabia”, il ragazzo trattandosi di un bipede come ne abbiamo visti pochi, viveva tormenti puberali tutti suoi, da grandi desiderava già fare il regista ma malgrado la giovane età affrontava già la difficoltà che il percorso prevede.

Si spengono le luci in sale, parte l’overture di quattro minuti sulle note della titanica colonna sonora di Maurice Jarre, alla fine dei duecebto e passa minuti del colossale colossal di David Lean, il ragazzo giunge all’unica soluzione possibile: «Posso anche lasciar perdere con questa storia di fare il regista, tanto nessuno farà mai meglio di così», storia vera che è anche la prima scena di un bellissimo documentario della HBO del 2017, dedicato proprio a quel ragazzino, che di nome fa Steven e di cognome Spielberg.

«Cassidy l’ha toccata piano per questo inizio di post», «Ci vuole epica per il lavoro di oggi»

Ora, mettetevi nei miei panni, se anche uno dei più grandi registi viventi su questo gnocco minerale che ruota attorno al sole, alza le braccia al cielo quando si tratta di commentare il capolavoro di David Lean, cosa potrei aggiungere io, scalcagnato pilota di Bare Volanti in occasione dei sessant’anni di questo classico del cinema? Forse una cosa sola per davvero, collocarlo dove merita di stare, tra i Classidy!

I nostri cugini dall’altra parte della grande pozzanghera nota come oceano Atlantico, hanno un’espressione – in realtà ne hanno una per tutto, nel caso mancasse, la inventano – ovvero “larger than life” che non è un pezzo dei Backstreet Boys ma le tre parole perfette per descrivere un personaggio come Thomas Edward Lawrence, archeologo, scrittore e soprattutto ufficiale dei servizi segreti di Sua Maestà britannica, per alcuni il più grande uomo che la storia ricordi, per altri il più spudorato esibizionista che abbia mai popolato la terra, citando una frase del film. I fatti riportano il suo contributo fondamentale nella cosiddetta Rivolta araba al tempo della grande guerra ma secondo voi, Hollywood poteva farsi scappare uno così? Mai nella vita.

Il primo a mettere gli occhi sulla storia del personaggio fu il regista Alexander Korda, che partendo dal libro di memorie di Lawrence intitolato “I sette pilastri della saggezza” (1922) tentò di portare la storia al cinema, ma nemmeno avere un altro Laurence (ovvero Oliver) nei panni del protagonista aiutò.  L’unico abbastanza matto e affascinato dal deserto con il talento per provarci fu proprio David Lean, con alle spalle la produzione della Rank Organization, la stessa che aveva già finanziato i suoi “Breve incontro” (1945) e “Grandi speranze” (1946), Lean sembrava pronto a fare l’impresa, ma le difficoltà finanziarie della Rank trasformarono tutto in un falsa partenza, ma per conquistare Acaba per il regista, ci sarebbe stato ancora tempo.

Il deserto per David Lean avrebbe dovuto aspettare, ma non per molto.

L’occasione arrivò quando nessuno ad Hollywood poteva negargliela, con il trionfo di Il ponte sul fiume Kwai David Lean era pronto a dirigere il film della vita, quello che un regista può permettersi di realizzare solo dopo aver raggiunto la vetta, quello che può consacrarti o stroncarti, siccome come avrete intuito, per determinazione, lucida follia e ambizioni è impossibile separare David Lean da Lawrence d’Arabia, come se i due fossero uno l’alter ego dell’altro (ego è la parola chiave), il regista inglese era pronto, anche per l’ultimo intoppo.

La Columbia Pictures era pronta quanto Lean, ma l’uscita di “Ross”, uno spettacolo teatrale che raccontava l’omosessualità di Lawrence al tempo della Royal Air Force era un tipo di pubblicità che alla casa di produzione non interessava, anzi. Curioso che a teatro, nei panni di Lawrence ci fosse Sir Alec Guinness, il futuro Emiro Faysal del film di Lean, che dovette attendere che “Ross” scomparisse dai teatri prima di poter iniziare a dirigere il suo film, insomma una lunga attesa che però è valsa il risultato, perché in linea di massimo “Lawrence d’Arabia” gli sarebbe riuscito anche benino, voi che dite?

Un personaggio che abbiamo visto crescere, letteralmente!

“Larger than life” si diceva, tradotto male più grande della vita, che poi ricorda un po’ quello che diceva Alfred Hitchock, il cinema? È come la vita senza i tempi morti (cit.) e il passo scelto da David Lean per il suo colossal è proprio questo, enorme, gigantesco, colossale appunto, un cinema che travalica anche le vite di personaggi alla quale si ispira, talmente grande da dare l’impressione di non poter stare all’interno dei bordi dello schermo. Si inizia con l’overture d’apertura che fa iniziare il racconto dal punto ideale, ovvero la sua fine, dall’incidente in motocicletta che ha messo fine alla vita di Thomas Edward Lawrence, lo stesso che durante il suo funerale raccoglie generiche parole di elogio, perché di una leggenda si può solo parlare bene, finché uno degli invitati non squarcia il velo di ipocrisia e facendo per davvero iniziare il film, un lunghissimo flashback che di fatto è la storia in più atti di come Thomas Edward Lawrence è diventato Lawrence d’Arabia, l’uomo che passa dal non volersi far fotografare a mettersi in posa per le foto.

Iniziamo dall’inizio, anche se in questo caso si tratta della fine.

«Solo due tipi di persone si trovano bene nel deserto, beduini e Dei. E lei non è tra questi», tra le tante righe di dialogo epiche del film, questa è la prima, quella che mette in chiaro come Lawrence sia uno che non ha nulla a cui spartire con gli altri bipedi della sua specie, non è un beduino e nemmeno un Dio, ma sa già che si divertirà nel deserto ed è qui che Lean piazza il primo di tanti grandi colpi: con la spavalderia che lo contraddistingue, per rispondere al suo superiore Lawrence accende un fiammifero che diventa la sua risposta al famigerato caldo del deserto evocato dall’ufficiale, il protagonista soffia sul fiammifero e Lean con una scelta di montaggio che non esito a definire geniale, stacca subito su questa inquadratura larga sul deserto, con la musica di Maurice Jarre che parte tonante e se guardare film è un’esperienza sensoriale che non può contare sulla nostra percezione della temperatura, David Lean è un tale Maestro da superare anche questo limite, in una sola geniale ellissi ci fa idealmente associare il calore del fiammifero alla temperatura del deserto, oltre a dirci tutto della spavalderia del suo protagonista, uno dei migliori casi di “Show, don’t tell” della storia della settima arte.

Signore, signori, il cinema al suo meglio.

A questo aggiungete la prova di Peter O’Toole, attore che ha battuto la concorrenza per il ruolo di nomi come Marlon Brando, Anthony Perkins, Montgomery Clift e Albert Finney, quest’ultimo licenziato in tronco da David Lean dopo due giorni di riprese (storia vera). O’Toole non convinceva la Columbia Pictures, il suo 1,88 di altezza era decisamente troppo per impersonare l’1,65 del vero Lawrence, ma beccami gallina se guardandolo recitare non sembra di assistere ad un uomo in missione. Se David Lean sul set potrebbe essere stato più o meno come la parodia che lo stesso O’Toole offriva di lui, quando lo ha senza mezze misure imitato in “Professione pericolo” (1980) è innegabile che l’attore Irlandese ha saputo calarsi nella parte fino al mimetismo completo, oltre a beccarsi il nomignolo di “Padre delle spugne” presso i beduini, per via del cuscinetto che utilizzava per cavalcare a dorso di cammello, in più di un’occasione la leggenda di O’Toole e quella di Lawrence d’Arabia si sono sovrapposte come in un caso di possessione dello spirito del personaggio, pare che O’Toole in una concitata scena sia stato disarcionato dal suo cammello, rimanendo miracolosamente appeso all’animale e uscendone illeso, proprio come pare sia accaduto al vero Lawrence nella battaglia di Abu El Lissal nel 1917.

Questo vuol dire calarsi totalmente nella parte, cammello compreso.

Ci sono momenti nella storia in cui gli eventi accadono attorno al protagonista, in altri “Lawrence d’Arabia” è palesemente costruito sul percorso di trasformazione da ufficiale inglese a leggenda del deserto, ogni singolo momento del film è leggendario, vogliamo parlare dell’entrata in scena del personaggio che ricopre il ruolo di coscienza del protagonista? Omar Sharif non doveva essere nemmeno nel film, la produzione voleva Alain Delon e se vi sembra strano, vi ricordo che l’Emiro Faysal, futuro Faysal I d’Iraq ha il volto dell’inglesissimo Sir Alec Guinness.

«Ti stavo aspettando Lawrence, ci rincontriamo finalmente, ora il cerchio è completo” (quasi-cit.)

Dopo una disastrosa prova con un paio di lenti a contatto marroni, David Lean si è liberato di Alain Delon affidando il ruolo dello Sceriffo Alì ad Omar Sharif, regalandogli per altro quella che tra le migliori entrare in scena di un personaggio nella storia del cinema, potrebbe giocarsela almeno per il podio, quella del pozzo in cui Sharif è un puntolino all’orizzonte perché il passo di “Lawrence d’Arabia” è quello del grande cinema, colossale, tanto da spingere lo sguardo quasi oltre il limite del rapporto: 2,20:1.

Ruoli indimenticabili assegnati a sostituti cinque stelle, extra lusso.

La trasformazione da Thomas Edward Lawrence a Lawrence d’Arabia avviene solo dopo il trionfo in un’impresa folle, la conquista della città di Acaba che prevede l’attraversamento suicida del deserto (il più bello e sofferto a ovest di quello di quando Leone ha chiesto di fare lo stesso ad Eastwood), più che una singola scena di fatto un intero atto del film, visto che prevede la lunga sequenza dell’attraversamento, infinite cavalcate tra la sabbia e Lawrence che matto come un dromedario, torna indietro per salvare un singolo uomo, tutto l’idealismo e la follia delle grandi imprese tradotta in cinema al suo meglio.

Ci sono due momenti chiave che mi piacciono tantissimo, li ha sottolineati anche quel ragazzo che vide la prima volta il film a sedici anni nel già citato documentario della HBO, il processo di trasformazione in Lawrence d’Arabia si completa con una singolare scena di “vestizione dell’eroe”, quella in cui O’Toole indossa gli iconici abiti bianchi e poi tira fuori il coltello per usare la lama lucente come se fosse uno specchio, per riflettersi vanesio e felice della sua nuova condizione, raggiunta con bruciante determinazione, più bruciante delle temperature del deserto.

Vanesio, all’inizio del suo lungo processo di trasformazione.

Prima di veder tornare in auge il coltello, di mezzo succede di tutto, dall’arrivo di Awda Abu Tayi, interpretato da Anthony Quinn che in questo film snocciola solo frasi mitiche (quella sulla madre e lo scorpione non è male, ma la mia preferita resta: «Ringrazia il tuo Dio che quando ti ha fatto sciocco, ti ha dato anche la faccia da sciocco, me ne vado altrimenti mi sporco le mani con il sangue di uno sciocco»), oppure la scena della nave che spunta dalla duna di sabbia, roba che sta a metà tra “Fitzcarraldo” (1982) di Herzog e la nave nel deserto di guarda caso, Incontri Ravvicinati, perché sono sicuro che Spielberg ci ha pensato al suo film preferito mentre girava quella scena, d’altra parte il regista ha dichiarato che prima di iniziare a girare, si rivede sempre il film di Lean per un po’ d’ispirazione (storia vera).

Il giovane Steven in sala, prendeva diligentemente appunti.

Ci sono talmente tante scene leggendario in “Lawrence d’Arabia” che basta davvero solo scegliere, l’attacco al treno, con l’attentato fallito a colpi di Lugher nei confronti di Lawrence, ormai più mito che uomo, che resta in piedi fiero a guardare negli occhi il suo attentatore, fino al momento in cui tutto cambia e l’idealismo del protagonista si infrange, dopo essere stato catturato dai Turchi (in una scena che mi fa sempre pensare per stramba associazione di idee a “Fuga di mezzanotte” il film del 1978 di Alan Parker), di colpo il nostro protagonista scopre che nel deserto non tutto è pulito, parafrasando una delle cento frasi iconiche del copione.

Facce nate per il grande schermo, in uno dei più grandi film di sempre.

Dopo le violenze subite Lawrence, se già prima iniziava ad accennare una tendenza alla megalomania («Per uccidere me ci va una pallottola d’oro»), dopo qualcosa in lui si spezza e arriva la violenta rappresaglia contro i Turchi («Dio aiuti gli uomini che sono là sotto», «Ma sono Turchi», «Che Dio li aiuti»), una mattanza grondante sangue da cui Lawrence si risveglia come dal trance, qui David Lean, sempre raccontando per immagini di più e meglio di mille parole, riprende nuovamente la scena del coltello, Lawrence prova a specchiarsi di nuovo nella lama insanguinata, solo allora realizza in cosa si è trasformato, da qui inizia la sua malinconia per l’Inghilterra consapevole di essere ormai a metà tra i due mondi, il deserto lo ha cambiato per sempre e se tocca ai giovani fare la guerra, sono i vecchi che devono poi amministrare citando Alec Guinness, quell’enorme pasticcio tipo burocrazia italiana che è la nuova nazione araba neonata.

Non tutto nel deserto è pulito, vero Lawrence?

Se dovessi descrivervi tutte le scene leggendarie di questo film, ci metterei più tempo di quanto non ne abbia impiegato Lean a dirigerlo, ci sono poche pellicole perfette nella storia del cinema, non tutte durano più di 200 minuti, eppure in “Lawrence d’Arabia” non un solo fotogramma è fuori posto, se penso alla settima arte al suo massimo espressivo sono titoli come questi quelli che mi vengono in mente, anche il suo finale malinconico mi fa impazzire, con Lawrence che lascia il deserto, l’autista della Rolls che quasi invidioso gli dice: «Beato te che torni a casa», mentre una motocicletta li supera, quasi una visione del futuro destino del personaggio, quello che noi già conosciamo perché David Lean ce lo ha mostrato all’inizio di questo capolavoro.

Casa? Si ma quale casa? (un silenzio che urla più di mille parole)

«Questa non è gente comune», «Io non ne voglio di gente comune!», forse “Lawrence d’Arabia” sta tutto qui, per realizzare il più colossale dei colossal colossali, non ci voleva gente comune, ci volevano talenti del calibro di David Lean e del cast di tecnici e di attori messi insieme, visto che ho iniziato con Spielberg finisco con lui, sempre nel citato documentario il regista definisce il suo film del cuore come un vero miracolo, sono perfettamente d’accordo ma anzi rincaro la dose, perché un miracolo prevede un intervento superiore, in questo caso l’impresa portata a termine da David Lean era davvero l’unico modo per rendere omaggio ad un personaggio che è stato più grande della sua leggenda, che per essere raccontato, aveva bisogno di cinema più grande, tanto da ispirarne altro, anche quello dei Maestri della settima arte come Spielberg e Scorsese che non a caso, si sono prodigati per il restauro della pellicola di “Lawrence d’Arabia”.

Questa piccola Bara che ama tanto il cinema, non poteva non viaggiare nel deserto per il prestigioso compleanno ed ora se volete scusarmi, sempre a dorso di Bara cavalco verso il tramonto tra le dune… Overture!

Sepolto in precedenza giovedì 7 luglio 2022

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