Home » Recensioni » Le ali della libertà (1994): o fai di tutto per vivere, o fai di tutto per morire

Le ali della libertà (1994): o fai di tutto per vivere, o fai di tutto per morire

Tutti i “Fedeli lettori” sanno che zio Stephen King compie gli anni il 21 settembre, per quel giorno abbiamo qualcosa che bolle in pentola, ma siccome il 2024 è ricco di titoli di livello, non posso perdere l’occasione per rendere omaggio ad un Classido che compie i suoi primi trent’anni, “Le ali della libertà”.

Quando tempo era che non aprivo un post sparando il logo rosso dei Classidy subito, pronti via? Da parecchio, di solito mi prendo più tempo per introdurlo ma gente, siamo al cospetto di uno dei film più amati della storia del cinema, ho ben pochi dubbi, perché fin dalla sua uscita “The Shawshank Redemption” di Frank Darabont è diventato un classico istantaneo, al tempo stesso il film che ha dimostrato che razza di talento fosse il nostro Frankuzzo, ma anche che King, non era solo uno scrittore Horror, nicchia amatissima ma che ancora oggi, risulta un’etichetta sulla fronte, utilizzata per sminuire.

Provo un piccolo paragone generazionale, molti della mia leva hanno scoperto il Punk con il pop Punk dei Green Day, esattamente come tanti di noi si sono avvicinati all’horror grazie a King, per certi versi questo film, che ha messo sulla mappa geografica la novella da cui è tratto, è stato un po’ il “Good Riddance (Time of Your Life)” di King, il titolo che dimostra che oltre al rumore e al casino del Punk (o dell’Horror) c’era anche altro, in trent’anni, l’amore per “Le ali della libertà” è solamente aumentato, non ho mai capito come mai Morgan Freeman sia più idolatrato di Tim Robbins, ma questo cambia poco, avrei potuto chiudere con il logo rosso sparato così, pronti via.

La reazione del pianeta davanti a “Le ali della libertà”.

Note biografiche che conoscete tutti: prima di Mike Flanagan e con più successo di critica e pubblico rispetto Mike Garris, Frank Darabont è diventato il cantore di King al cinema, per il suo primo lungometraggio ha pensato bene di fare una scelta da “Federe lettore”, invece che puntare a qualche titolo Kinghiano noto, lui ha scelto uno dei racconti contenuti nell’antologia “Stagioni diverse” (1982), una delle tre (su quattro) che sono diventate un film. “Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank” rende protagonista il famigerato carcere immaginario di Shawshank, citato spessissimo nelle storie e nei racconti di King, diventato talmente popolare anche grazie al film di Frankuzzo, che quando Bryan Shaw alzava “alley-oop” che il suo compagno di squadra ai Lakers Shaquille O’Neal che andava a schiacciare con strapotenza a canestro, il movimento venne ribattezzato “Shawshaq Redemption” (storia vera), giusto per dirvi di quanto questo film ormai sia radicato nella cultura popolare e così, ho anche smarcato la quota cestistica di oggi.

Come entrare nella storia con un solo ruolo, ma essere comunque meno amato di Morgan Freeman.

Partiamo dalle origini, “Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank” non è un racconto horror, è la novella con cui King ha reso omaggio ai classici carcerari, ci trovate dentro elementi che arrivano direttamente da “Fuga da Alcatraz” (1979) oppure da “L’uomo di Alcatraz” (1962), l’amore per il materiale originale è talmente manifesto che zio Stevie ogni tanto si cita addosso, su carta il lavoro di Andy Dufresne viene rallentato nel periodo in cui gli viene appioppato un compagno di cella, un grosso nativo americano che non parla mai, che non aggiunge nulla alla storia (e scompare nel giro di poche pagine) con cui King però, doveva omaggiare un film che amo molto, quindi non ho nulla da criticargli.

In “Le ali della libertà” troviamo tutti i canoni del film carcerario, dal direttore della prigione potente e stronzo (Bob Gunton che ricorderete eternamente per questo ruolo) fino al minacciosissimo capo dei secondini, un energumeno violento, pericoloso, tratteggiato in maniera quasi ironica se non ti trovi dal lato sbagliato del suo manganello, e che sia minaccioso non ci sono dubbi, visto che ad impersonarlo è il Kurgan di Highlander, ovvero il grande (in tutti i sensi) Clancy Brown.

«Ti è andata bene, credo di aver visto Christopher Lambert laggiù»

Ma visto che parliamo di facce giuste, Darabont dai suoi lavori precedenti come sceneggiatori si porta dietro i pretoriani che sarebbero spuntati anche in futuro in tutti i suoi lavori, Jeffrey DeMunn e più di lui William Sadler, sono alcuni degli ospiti del carcere che verranno travolti dell’anima d’acciaio e dall’incrollabile fede nella speranza di Andy Dufresne.

Ed ora la parte controversa di questo post, ma nemmeno tanto: qualcuno si offende se metto nero su Bara il fatto che a mio avviso, prima del finale di un certo B-Movie con i mostri, Frankuzzo Darabont già sapesse come migliorare King al cinema? In “Le ali della libertà” ci sono passaggi dove la storia funziona decisamente meglio, via le citazioni che non servono a Milos Forman, dentro soluzioni anche più drammatiche, ma che danno più forza al racconto e in alcuni passaggi, la qualità della scrittura è talmente alta che alcune trovate, prese di peso dalla carta stampata, per assurdo funzionano ancora meglio sul grande schermo. Un esempio stupidissimo ma significativo in tal senso? Quando Andy chiede a Red la ragione del suo nome, si sente rispondere: «Non lo so, forse perché ho i capelli rossi», trovata da niente da lettori, perché Ellis Boyd “Red” Redding nel racconto ha davvero i capelli rossi. Metti la stessa battuta in bocca a Morgan Freeman (scelta impeccabile di casting) e hai per le mani una finezza non da poco, e questo film ne è pieno.

«Ti immaginavo diverso nel libro», «Ero diverso, ma con me ti è andata meglio»

Il problema di un post su “Le ali della libertà”? Si finisce per elencare tutti i momenti drammatici, toccanti, divertenti ed emotivi, insomma a fare la trascrizione della trama, perché OGNI elemento di questo film è diventato giustamente patrimonio dell’umanità, ogni singola frase, battuta o voce fuori campo è centellinata alla perfezione, «Aveva l’aria di uno che sarebbe caduto al primo soffio di vento», una descrizione fatta ad arte di un sellerone come Tim Robbins, che esattamente come Morgan Freeman qui recita per la storia, anzi, sono sicuro che ancora oggi molto pubblico non conosca il nome dell’attore, ma abbia piantato nella memoria il suo bancaria uxoricista con sogni da escapista.

Come mai Andy Dufresne funziona così bene? Perché a differenza di un Clint Eastwood o di un Burt Lancaster, Andy non è un duro in grado di non farsi spezzare dal carcere, il bancario è uno normale, identico a voi oppure a me, uno che se finisse in un carcere, per di più ingiustamente, sarebbe davvero l’unico innocente di Shawshank ma anche un bersaglio mobile, uno destinato a non durare. Se poi ci mettiamo dentro il fatto che niente come le storie carcerarie è in grado di farmi friggere sulla poltrona, perché non penso che ci sia nulla di più spaventoso della privazione della libertà, il film di Darabont non sarà un horror, ma ha tutto per fare paura. Eppure quello che Andy Dufresne ha rispetto ad altri protagonisti di film carcerari è quello che oggi identificherebbero con un aggettivo alla moda abusato, quindi io preferisco definirlo stoico.

Se non è una delle immagini più iconiche di sempre, mi mangio il cappello.

È il suo stoicismo quello che gli permette di resistere alle attenzioni indesiderate delle “Sorelle”, con lo stesso stoicismo scrive una lettera alla settimana per avere più libri per la biblioteca e quando li ottiene, inizia a scriverne due ogni settimana. Andy Dufresne è un’icona di resistenza umana, in un film con l’abilità di raccontarti alla perfezione come tempo e pressione (come in geologia) siano i fattori chiave nell’ecosistema di Shawshank. Darabont è bravissimo a gestire il tempo del film, a farlo rallentare come quello che non passa mai in carcere, e poi a farlo scappare via, quando i personaggi parlano di mesi o anni passati, questo tempo di vita dei protagonista sfugge loro dalle dita, l’unico elemento che riesce a ridare valore a quel tempo (che non tornerà mai) è la speranza, quando Andy si rassegna, vive di momenti, in un non-tempo fatto di birre gelate da bere sul tetto dopo una giornata passata a dare il catrame.

Sono sicuro che molto pubblico conosce Rita Hayworth più per questo film che per tutta la sua filmografia.

“Le ali della libertà” riesce a raccontare alla perfezione la vita in prigione, esemplificando concetti che altrove sarebbero materia per un romanzo russo, l’idea di essere “Istituzionalizzati” è qualcosa che Darabont (in contumacia King) descrive attraverso la storia di Brooks (James Whitmore), il percorso drammaticamente segnato che si ritroverà più avanti a percorrere anche Red. Ma dove la forza di questo film si manifesta, non è tanto nelle “citazioni involontarie” (il numero di volte in cui durante la parlata quotidiana ti ritrovi ad usare la frase di un film), quando proprio ti ritrovi in situazioni e dinamiche che ti ricordano qualcosa che questo film ha saputo descrivere alla perfezione, per me? Lo spirito, via via sempre più rassegnato con la quale Red si presenta davanti alla commissione per la libertà vigilate, ma sono sicuro che ognuno di voi ha il suo momento in cui, ancora oggi, al passaggio tv numero mille di questo film, riesce a ritrovarsi.

C’è un film dentro al film con la storia di Brooks.

Quello che ha saputo cogliere Frank Darabont, non è solo lo spirito del racconto originale di King, quando l’intuizione di avere per le mani una storia potenzialmente eterna, il film è ambientato nel Maine dell’anno 1947 ed è uscito nei cinema nel 1994, ma sono sicuro che anche tra altri trent’anni, chiunque lo guarderà per la prima volta riuscirà a farsi rapire nuovamente da questo film, un classico istantaneo nel 1994 a livello di critica (non di botteghino, la Warner dovette farlo tornare in sala dopo le candidature agli Oscar, per rientrare del budget, storia vera), il cui amore presso il pubblico non ha fatto altro che aumentare, se dovessi riassumerlo questo film, per me sta tutto nel sorriso sfidante di Andy, che mette i piedi sul tavolo e regala a tutta la prigione un giro sulle note di una canzone ben descritta da Red.

Esiste un piccolo spazio nella mente e nel cuore di un uomo, dove sarà sempre libero, quello di solito è il posto dove sta la musica.

Anzi, forse se dovessi riassumerlo a chi non lo ha mai visto o se dovessi provare a spiegarlo (mi sento come Red davanti a quelle due signore che cantano…) direi che Frank Darabont ha firmato quello che i nostri cugini Yankee chiamano un “Feel good movie”, uno di quel titoli che si guardano per sentirsi meglio, con una non piccola ma sostanziale differenza, per arrivare al nostro Zihuatanejo cinematografico, dobbiamo passare attraverso uno dei più rappresentativi drammi carcerari di sempre, che prevede privazione della libertà, ingiustizie burocratiche, violenze anche sessuali reiterate, abuso di potere e alla fine, un crimine vero, per raddrizzarne uno mai compiuto, alla faccia del “Feel good”.

A distanza di trent’anni, lo status di Classido de “Le ali della libertà” è soltanto cresciuto, non credo di aver mai conosciuto un detrattore di questo film e anche se fosse, mi dispiace per l’immaginario odiatore, Frank Darabont è riuscito a portare Stephen King ad un altro livello e dritto nella storia della settima arte, mica male per una novella no?

5 2 voti
Voto Articolo
Iscriviti
Notificami
guest
20 Commenti
Più votati
Recenti Più Vecchi
Inline Feedbacks
Vedi tutti i commenti
Film del Giorno

57 canali e niente da vedere: Big Mouth 8, Andor 2, The Handmaid’s Tale 6 e Good American Family

Da quanto mancava da queste Bare l’appuntamento con titolo Springsteeniano con le ultime serie viste di recente? Tantissimo, infatti sono pieno di titoli accumulati, forza, iniziamo! Big MouthStagione: 8Dove la trovate: Netflix Casa Cassidy, [...]
Vai al Migliore del Giorno
Categorie
Recensioni Film Horror I Classidy Monografie Recensioni di Serie Recensioni di Fumetti Recensioni di Libri
Chi Scrive sulla Bara?
@2025 La Bara Volante

Creato con orrore 💀 da contentI Marketing