Siamo quasi alle ultime curve per questa rubrica, ma non si alza il piede dal pedale seguendo lo spirito del suo titolare, avanti tutta perché il titolo di oggi non molla un colpo, bentornato a… Like a Stone!
Sembrava scritto nelle stelle che le strade del regista Oliver Stone e del romanziere Don Winslow prima o poi si sarebbero incrociate, la filmografia del nostro Oliviero è riassumibile in tre grandi filoni: documentari, film spesso molto politici e altri, più di genere, anche se tutte queste tipologie si sono sempre influenzate una con l’altra, sfoggiando le tematiche care al regista.
“Savages”, in italiano “Le belve”, non proprio la migliore delle traduzioni, ma coerente con il nostrano titolo del romanzo del 2011 di Winslow, perfetto per fare da base ad un’ideale trilogia per Stone, composta da Assassini Nati, continuata con U-Turn e completata con questo, indubbiamente il più debole dei tre, ma forse è un po’ il destino di questo soggetto, visto che molti considerano lo stesso romanzo un lavoro minore di Winslow, però se facciamo i paragoni con il suo bellissimo “L’inverno di Frankie Machine”, embè gente, allora un buon sessanta o settanta percento dei libri risulterebbe robetta.
Il romanzo è cinico, ovviamente violento e scritto come sempre con un taglio già molto cinematografico, infarcito da smitragliate di dialoghi e una buona dose di decadente romanticismo, leggendolo Stone deve aver pensato che fosse il titolo giusto per rimettersi in careggiata dopo un flop sanguinoso e due incassi modesti, rispettivamente, Alexander, W., il seguito di Wall Street.
All’adattamento contribuisce in prima persona Don Winslow, dopodiché ci rimette le mani direttamente Oliver Stone insieme a Shane Salerno, il risultato chiaramente porta i segni del passaggio del nostro Oliviero, lo si nota in tutte quelle righe di dialogo in cui i protagonisti disquisiscono, si ok, noi siamo criminali ma vendiamo erba, non siamo mica come quelli in giacca e cravatta di Wall Street, poca roba ok, ma chiaramente farina del sacco di Stone. Risultato? Un Don Winslow che però a differenza di Tarantino, non ha fatto scenate o messo su il muso eternamente, anche se è chiaro che qualche passaggio a vuoto nella trama si trova.
Ad esempio quando Ophelia “O” Sage (Blake Lively) rapita, ottiene di scrivere alla madre, Stone si diverte a comparire nel suo solito cameo, qui particolarmente leggerino e pop in contrapposizione con la condizione del personaggio, ma il personaggio della madre di O presente nel libro, è stato completamente tagliato, peccato anche perché per la parte era già stata assunta Uma Thurman. Posso essere cattivo? Non ho riscontri, solo una mia illazione, per me Stone ha tagliato il personaggio perché nel confronto diretto tra bionde, Uma deve aver cancellato dalle mappe geografiche l’ex Gossip Girl Blake Lively, ma ribadisco, è solo una mia illazione. Vi parlo della trama e poi continuiamo con le differenze, non perché io voglia essere alternativo alla sezione di Wikipedia che di solito si intitola “Differenze con il romanzo”, ma perché sono i punti dove l’approccio autoriale di Stone si è manifestato apertamente.
La miglior erba del mondo ovviamente è americana, non è sempre così nei film? Sono i migliori in tutto no? Nello specifico i due maghi della marijuana sono il pacifista che cita Buddha di nome Ben (Aaron Johnson, o Taylor-Johnson, fate voi) e l’ex Navy Seal che si porta ancora dentro la guerra (chissà perché a Stone interessava la storia eh?) di nome Chon (Taylor Kitsch), oltre a produrre e vendere un gran prodotto, vivono un felice ménage à trois con la bella Ophelia, come quella bipolare di “Amleto” ma fatta a forma di Blake Lively, voce narrante, bella tra le belve, donzella in pericolo e responsabile alla semplificazioni tipo Casellati, stando alle sue parole Chon scopa e Ben fa l’amore. Fine della caratterizzazione del trio.
La richiesta di collaborare con il potente cartello della spietata boss messicana Elena (Salma Hayek) viene gentilmente rifiutato, anche perché Stone lo descrive come un’acquisizione, non propriamente pacifica, in odore di mezza critica satirica alle grandi operazioni che fanno a Wall Street. Si passa quindi alle vie meno amichevoli, Elena grazie al suo brutale braccio destro Lado (Benicio del Toro) fa rapire O pensando di tenere per le palle i due produttori di piante con foglie a sette punte, sottovaluta la loro reazione, seguono sparatorie.
Per raccontare questa storia, Stone e Shane Salerno danno molto più spazio ad alcuni dei personaggi secondari, il viscido Lado e l’agente corrotto della DEA, contatto all’interno del “sistema” dei due protagonisti, interpretato da Johnn Travolta che fa valere i trascorsi e il peso dello “Star System”, posso dirlo? Scelta saggia, perché il trio Aaron-Taylor-Blake saranno stati nel 2012 anche belli belli in modo assurdo (cit.) e in rampa di lancio, ma sono abbastanza tre pali, nell’ordine in cui li ho elencati, con Lively fanalino di coda, specialmente se opposti al trio di vecchie glorie Salma-Benicio-Travolta, che francamente se li mangiano di traverso.
Per assurdo è con il personaggio di Salma Hayek (che dà un senso anche alla sua parrucca frangettata) che Stone riesce a parlare ancora di figli e genitori, una cattiva sfaccettata interpretata in modo sanguigno. In una scena in particolare è bellissimo vedere la fierezza di Salma Hayek dall’alto del suo metro e un burrito di altezza, cazziare tutti i suoi cristonando come un camionista Messicano incastrato nei quaranta gradi all’ombra del traffico di Mexico City.
A proposito di essere sanguigni, lo dico sempre Benicio del Toro ha l’aria di uno che se per caso gli cade la cenere della sigaretta nella birra, se la beve doppiamente di gusto, anche se non è la sua pinta, ma era stata abbandonata mezza bevuta sul tavolo del Bar. Qui è un personaggio da sputi in faccia, letteralmente visto che O gli sputazza un litro di saliva e lui non fa una piega, anzi, altra gran prova trucida per un attore dato fin troppo per scontato.
Travolta in uno dei primi ruoli in cui ha finalmente rinunciato al parrucchino, ha il triplo del giro vita dei due due novellini con cui spesso battibecca ma anche il triplo del carisma, insomma una non competitiva sul piano dello scontro generazionale.
Dal punto di vista stilistico Stone cerca di tornare ai fasti di Assassini Nati, ma in versione molto più morbida, con gli angoli smussati o in generale, con i bordi arrotondati, quindi non mancano le sequenze in bianco e nero e la colonna sonora sparata, anche se meno memorabile rispetto al 1994. Ma in generale è proprio la lettura di secondo livello di natura politica a mancare, oppure risulta intrinseca, se Mickey e Mallory erano i figli dell’America post-Vietnam, Ben, Chon e O sono i nipotini di quello stesso Paese, i cui valori sono sempre più annacquati e il confine con quello che normalmente consideriamo una vita criminale è sempre più labile, specialmente con una classe dirigente come quella contro cui Stone si è sempre scagliato.
Dove il regista forse provoca per davvero però è nella struttura stessa del suo adattamento, se il romanzo terminava con un finale più cinico, Stone ci gioca, prima lo racconta, poi letteralmente riavvolge la storia per offrici un secondo finale, questa volta quasi lieto, dove per lo meno il titolo originale del film trova una spiegazione, ed è un gioco a carte scoperte il suo, perché è la stessa O in apertura a dirci che malgrado la voce narrante sia la sua, questo non la mette al sicuro, insomma la libertà creativa che Stone non trova più ad Hollywood, è nella scrittura, che poi ha rappresentato l’inizio della sua carriera, che il regista torna a cercarla.
A distanza di anni dalla sua uscita, questo terzo capitolo della trilogia “Pulp” di Stone non ha lasciato traccia, di sicuro non nella memoria degli spettatori ed è il più debole dei tre, non per questo dimenticabile, forse poco memorabile, ma per fortuna abbiamo ancora un altro capitolo prima di concludere l’opera, tra sette giorni qui, ultimo capitolo della rubrica, non mancate!
Creato con orrore 💀 da contentI Marketing