Quando nel 1992 Quentin Tarantino esordì alla regia, la storia del cinema ricevette una bella spallata in piena faccia, con un misto di ispirazioni più variegate del gelato all’amarena il risultato è il classico di oggi, siete sempre sintonizzati sula Bara Volante con tutto il meglio degli anni ’90, qui è il vostro Cassidy che vi parla e per iniziare con lo spirito giusto, un po’ di musica a tema.
Scrivere di “Le Iene” a trent’anni della sua uscita vuol dire affrontare a testa alta sei lustri di cultura pop occidentale, anche perché qualunque dato o fatto legato al regista di Knoxville, ormai fa parte di una sorta di moderna mitologia, attorno a Tarantino si è creata una letteratura che i suoi fan ripetono come i salmi e che tutti conoscono, quindi sarà inevitabile inciampare in aneddoti di pubblico dominio, ma proverò comunque a prendere tutta questa narrativa da un altro lato, nel tentativo di rendere omaggio ai cani da rapina di Tarantino.
Che sapesse scrivere il ragazzo di Knoxville, ormai ad Hollywood lo avevano capito tutti, Oliver Stone e Tony Scott con risultati diversi, avevano portato al cinema sceneggiature di Tarantino, ma nemmeno il suo mentore, lo Scott giusto Tony, quello che aveva portato sul grande schermo la sceneggiatura “della vita” di Tarantino, è riuscito a fargli mollare la presa su un copione che Quentin si era scritto volutamente con pochi attori e poche location, per farne il suo esordio alla regista.
Su questo mi voglio concentrare, perché nasce davvero tutto da quel plico di fogli che sulla prima pagina, sotto la voce “Dedicated to” snocciolava un’infilata di nomi che riassumevano quasi da soli tutte le fascinazioni e le ispirazioni del neo regista allora nemmeno trent’enne, l’elenco era così composto: Timothy Carey (attore a cui Tarantino avrebbe voluto assegnare il ruolo di Joe Cabot, storia vera), Roger Corman e André De Toth non necessitano di presentazioni, perché hanno saputo tirare fuori grande cinema anche con due spiccioli, proprio come si sarebbe ritrovato a fare Tarantino qui. Chow Yun Fat e John Woo, sono la prova buon gusto cinematografico di Quentin, che però per onestà intellettuale, avrebbe dovuto inserire anche Ringo Lam, visto che City on Fire ha fatto da modello anche più dei film di Woo. Da Jean Luc Godard e Jean Pierre Melville, arrivano il titolo e il tono della pellicola, Lawrence Tierney invece è l’attore a cui poi Tarantino ha effettivamente affidato il ruolo di Joe Cabot, per altro sudando sette camice poi per gestirlo, visto che Tierney beveva parecchio, roba che quando spariva misteriosamente dal set bisognava fare il giro dei bar per ritrovarlo e spesso, tra sbornia allegra e ciucca triste, più volte sono quasi arrivati alle mani con Tarantino (storia vera).
Il nome di Lionel White è interessante, visto che è lo scrittore del romanzo da cui è stato tratto “Rapina a mano armata” (1956), ma per sua ammissione Tarantino ha inserito lui, perché non voleva citare nell’elenco il nome di Kubrick, sono trent’anni che mi chiedo perché, purtroppo i giornalisti e i fan non fanno mai le domande giuste a Quentin quando ne hanno l’occasione. Monte Hellman è il vero responsabile della carriera di Tarantino, visto che è l’unico che ha creduto nel tuo talento mettendo insieme i fondi, mentre il regista Jack Hill e la sua musa Pam Grier sono i fanalini di coda nella dedica, nomi che vanno a braccetto per classici come “Coffy” (1973) o “Foxy Brown” (1974).
Voi mescolate tutto questo insieme e più o meno avrete tutti gli ingredienti di “Le Iene”, perché il poliziotto infiltrato e lo “Stallo alla Messicana” arrivano dritti da City on Fire di Ringo Lam. Il titolo originale “Reservoir Dogs” deve qualcosa alla Nouvelle vague e all’incapacità Tarantiniana di pronunciare correttamente “Au revoir, les enfants” (1987) di Louis Malle misto a Cane di paglia di Peckinpah, ma a ben guardare bisognerebbe aggiungere anche il Walter Hill di Johnny il bello (la rapina e il soprannome del personaggio di Chris Penn) e perché no anche un po’ dal Django di Corbucci (la tortura con l’orecchio mozzato) e Il colpo della metropolitana, da cui arrivano i nomi colorati dei rapinatori, mentre dai Blues Brothers ha preso lo stile dei suoi protagonisti.
Quello che succese nel 1992 all’uscita del film però è che molti, si concentrarono solo sul plagio, il furto d’autore di Tarantino a City on Fire di Ringo Lam, che è palese tanto quanto lo era stato per Leone pescare da Kurosawa, ma Quentin intervistato se ne uscì alla francese, anzi alla spagnola, citando Picasso: «I bravi artisti copiano, i grandi rubano», qualcuno potrebbe criticargli che non è stato originale nemmeno nella risposta, ma Padre Tempo è il miglior critico cinematografico del mondo e ha rimesso i pezzi del puzzle al suo posto.
“Le Iene” è un plagio di City on Fire tanto quanto lo è The hateful eight nei confronti di La Cosa di Carpenter, eppure nel corso degli anni nessuno ha mai più tentato di accusare Tarantino di plagio perché non avrebbe senso. Tarantino potete amarlo oppure odiarlo, per certi versi le sue colpe (se di tali si tratta), sono quelle di aver creato l’illusione che bastasse guardare tanti film (come faceva lui quando lavorava al videonoleggio) per arrivare un giorno a farlo per davvero il cinema, ma anche che il post-moderno fosse la via, questo ha dato il là a registi “rimasticoni” che sanno davvero elaborare il vecchio cinema, trasformandolo in qualcosa di nuovo come Guillermo del Toro o Edgar Wright, ma anche scopiazzatori burini ed eccessivamente celebrati come il maledetto GIEI GIEI.
La mia posizione è chiara più o meno dal 1992, per me Tarantino ha del vero talento e uno strabordante amore per il cinema («Because weeeee looooooove making movies!» cit.), un grande cuoco può seguire la ricetta oppure rielaborarla e farla sua, Tarantino appartiene alla seconda categoria ma i suoi fan che lo idolatrano, il più delle volte sono pigri e privi di curiosità nell’andare a studiare le fondi, i titoli che il professor Tarantino consiglia, prendendo il più delle volte per oro colato le sue parole, quindi “Like a Virgin” è una metafora su una tipa che conosce uno con la fava grossa, lo ha detto Quentin quindi è il Verbo.
Questo non cambia il fatto che nel suo rimasticare, rimaneggiare, giocare con il post-moderno, Quentin Tarantino dal 1992 genera quintali di nuova iconografia, come un restauratore che dona nuova vita ad un vecchio mobile. “Le Iene” è diventato così tanto patrimonio dell’umanità da essersi intrufolato nella cultura popolare a tutti i livelli, per anni i pubblicitari hanno vissuto di prepotenze solamente pescando i brani dalle colonne sonore dei suoi film (vi ricordate di “Little Green Bag” usata per torturare le caramelle?), ancora oggi quando citi “Le Iene” devi specificare che parli del film e non del programma televisivo con i tizi vestiti in completo nero. Tutto questo per dire che ora un po’ di rosso sangue lo spargo anche io su questa Bara, perché “Reservoir Dogs” deve stare per forza tra i Classidy!
Ai tempi ne feci una malattia, tutti i miei amici sapevano che sapevo TUTTO dei film di Tarantino, per me è sempre stato l’amico grande esperto di cinema, quello che ti consigliava i film giusti da vedere, per questo ho sempre voluto bene al suo cinema citazionista, anche perché “Reservoir Dogs” spogliato di tutto è principalmente un atto d’amore al cinema e alla narrativa “criminale”, non chiami uno dei miei scrittori preferiti, Edward Bunker, per affidargli il ruolo di Mr. Blue se non ami i suoi libri e il modo in cui ha raccontato la vita criminale con un livello di realismo e coinvolgimento che altrove è riuscito solo a Michael Mann.
In quanto padrino del post-moderno come lo intendiamo oggi, “Le Iene” è ancora un film che non ha perso un grammo della sua forza, il piano iniziale era quello di girarlo in 16mm, con un budget di 30.000 dollari, poi grazie a Monte Hellman dietro le quinte e al grande dimenticato, Lawrence Bender (l’uomo che sta a Tarantino come John Russo sta a George A. Romero) riuscì a far arrivare il copione ad Harvey Keitel che ne fu subito entusiasta, con la sua presenza il budget lievitò in automatico a 1,2 milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti spirati, anche se l’anima “indie” è rimasta, visto che gli attori si portavano i vestiti e gli occhiali da casa, compresa l’inguardabile tuta di acetato di Chris Penn (storia vera).
La storia inizia subito con l’aggettivo che avremmo imparato a conoscere, la macchina da presa ruota intorno al tavolo presentando tutti i personaggi impegnati in dialoghi “Tarantiniani”, da quello già citato sulle fave grosse di Madonna fino al violino che suona solo per le cameriere di Mr. Pink (Steve Buscemi). Lo dico sempre che i primi cinque minuti sono quelli che determinano tutto l’andamento di un film, Quentin Tarantino nel ruolo di Mr. Brown, oltre a potersi esibire nella prima delle sue tante morti sul grande schermo (una specialità per i suoi cameo), si è idealmente seduto al tavolo con tutti i suoi eroi, Ed Bunker, Lawrence Tierney, Chris il Penn giusto, ma anche i suoi futuri pretoriani, Harvey Keitel (Mr. White), Tim “Zio Portillo” Roth (Mr. Orange) e Michael Madsen (Mr. Blonde), se non è una dichiarazione d’intenti questa, allora non ne esiste una.
Stacco, Tim Roth ha già un buco in pancia e sta sanguinando sul retro dell’auto di Keitel, la rapina andata male non viene mostrata, si risparmia budget e si strizza l’occhio a Kubrick, così che i personaggi possano parlare degli eventi, una sorta di “Rashomon” (1950) intinto in salsa Pulp, parola che grazie a Tarantino sarebbe diventata abusata, tanto da perdere il suo significato originale, perché come al solito con il regista di Knoxville di mezzo, le fonti sono citate con amore, ma i fan venerano solo e soltanto Dio Quentin.
Attraverso i vari flashback, Tarantino racconta gli eventi, quindi Steve Buscemi può fare a revolverate con la polizia per strada, mentre i trascorsi con la famiglia Cabot di Michael Madsen vengono messi in chiaro, quello stile, quei dialoghi infiniti che sembrano ruotare intorno al niente ma che invece fanno dritto al sodo, sono diventi marchio di fabbrica, anche troppo visto che tanti (troppi!) aspiranti registi hanno creduto che bastasse far parlare i loro personaggi, far dire loro un sacco di «Fuck!» citando la cultura Pop per essere subito tanti piccoli Quentin, quindi comprendo perché Tarantino da molti sia visto come fumo negli occhi, ma questo non cambia il valore del suo cinema o la qualità di “Reservoir Dogs”, che ha dentro tutto quello che funziona, nella sua forma migliore.
Ci sono le prime tracce di quell’auto citazionismo che a Tarantino piace tanto (Mr. White parla di quando faceva colpi con una certa Alabama), ma anche tutti i tratti distintivi del cinema di Quentin, dall’inquadratura dal bagaglio, quella che per trent’anni è stata citata da TUTTI (se Mario Bava, a cui QT l’ha scippata l’avesse brevettata, avrebbe potuto campare di rendita), ma anche l’inizio della collaborazione con l’amico e compare Robert Rodriguez, visto che tutte le scene con Tarantino attore davanti alla macchina da presa, le ha girate lui (storia vera).
Vogliamo rincarare la dose? Tarantino, Marvel Fan convinto citava la Casa delle Idee quando non era ancora figo farlo, il monologo del bagno di Tim Roth inizia in camera sua, davanti ad un poster di Silver Surfer, dove con strizzata d’occhio meta cinematografia, Mr. Orange come un attore impara la parte e come Tarantino, ci mette le sue passioni nel racconto, quindi per descrivere Joe Cabot, il paragone con la Cosa dei Fantastici Quattro parte in automatico.
Potrei stare qui una settimana e mezza a tirarvi fuori tutte queste trovate che probabilmente già conoscete, perché i film di Tarantino hanno così tanti strati di cultura Pop ammonticchiati tutti insieme che si potrebbe analizzarli solo dal punto di vista della colonna sonora (“Hooked on a Feeling” ben prima dei Guardiani di James Gunn), ma bisogna per forza citare l’uso della violenza nei film di Quentin, gettata nel mucchio a secchiate, in proporzione alle parolacce usate dai personaggi, anche qui, vedo l’influenza di Walter Hill sul suo cinema.
La tortura al poliziotto di quel pazzo sadico di Mr. Blonde resta impressa anche più della fonte originale, il Django di Corbucci, lo stesso Michael Madsen allora papà da poco, rimase impressionato dalla riga di dialogo con cui il poliziotto cerca di salvarsi la vita («Ho un bambino piccolo»), infatti il suo «Oh, no, no…» non era nella sceneggiatura, ma la vera reazione dell’attore (storia vera).
Tarantino raduna tutti i suoi cagnacci da rapina nella stessa stanza, lasciando che sospetto e rancori li consumino (fate ciao ciao con la manina a Carpenter), infatti finiranno a sbranarsi tra di loro nella scena dello stallo alla messicana che di fatto arriva dritta dal film di Ringo Lam, a cui Tarantino asciuga la parte melò della storia e la sostituisce con dialoghi Pop, diventati tutti più o meno di culto, da quelle sulla sosia di Pam Grier (non era Pam Grier, era quella di “Get Christie Love!” quasi-cit.) fino alle battute e battuacce mandate a memoria da chiunque nel corso degli anni, basta dire che ho ripetuto «Più morto di John Dillinger!» ad ogni occasione utile nella mia vita, anche perché “Reservoir Dogs” si gioca benissimo la carta di Ringo Lam del poliziotto infiltrato, facendoci affezionare a tutte queste Iene prima di scoprire le carte e lasciare che il massacro cominci per davvero.
Se fosse un cuoco, Tarantino sarebbe un esperto di cucina fusion, probabilmente il migliore del mondo nel suo prendere vecchie storie e personaggi, anche ultra noti al pubblico, per presentarli sotto una nuova forma, creando da trent’anni a questa parte un neo classicissimo che spesso, diventa più celebre delle fonti originali, un po’ perché siamo una società dalla memoria corta, un po’ per pigrizia del pubblico, ma sicuramente anche perché ai fornelli (o dietro la macchina da presa, fatemi uscire da questa terribile metafora culinaria, che poi mi viene fame), ci sta qualcuno veramente abile. Sono piene le fosse di quelli che hanno provato ad essere “Tarantiniani” negli ultimi trent’anni, l’originale (nel suo rimasticare) invece è ancora qui e tutto è iniziato con i suoi cani da rapina, finiti a sbranarsi uno con l’altro, affondando i denti molto a fondo nella cultura popolare.
Insomma, questo film sarà pure in giro da trent’anni, ma ancora lo trovo una gran fonte d’ispirazione oltre che un gran modo per riempire 99 minuti, spero di aver imparato da Tarantino la passione e l’amore per la scoperta, la riscoperta e lo studio dei grandi classici, ma anche quella sua spudorata passione di amare e trattare allo stesso modo Godard o John Woo, la Marvel e Melville, questa Bara forse non esisterebbe senza quel tipo di approccio, quindi era obbligatorio fare gli auguri di buon compleanno a “Reservoir Dogs”.
Qui è il vostro amichevole Cassidy di quartiere dalla Bara Volante con tutto il meglio degli anni ’90, ed ora noci di cocco per tutti.
Sepolto in precedenza martedì 22 marzo 2022
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