Non credo che riuscirò mai a scendere a patti con il concetto stesso di prequel, non sono uno di quelli che crede che il finale sia la parte più importante in una storia, anche se comunque conta, quindi se devi raccontare una storia in cui il finale è già noto, dovresti avere davvero qualcosa che vale la pena raccontare.
Sapete cosa NON trovo interessante? Le storie sulle origini dei personaggi cinematografici famosi, cioè ho davvero bisogno di conoscere le origini di Han Solo? Ma ancora meglio: serve davvero farci su un film? Steven Spielberg che non è l’ultimo della pista, ha messo fine alla mania della storia sulle origini usando il pretesto come introduzione all’ultima grande avventura del personaggio, esaurendo alla grande l’argomento. Sì, ho detto ultima avventura perché i film di Indy sono tre, TRE! Non accetto discussioni in merito. Se i prequel sono un modo per spiegare, trovo che spiegare le origini dei personaggi cinematografici che da anni ci spaventano siano doppiamente dannosi, in teoria dovrei provare empatia ed immedesimarmi nel povero disgraziato che si vede inseguito da Jason, da Michael o da un cristone mezzo matto con una maschera fatta di pelle umana intento a brandire una motosega per trasformarmi nella sua cena, non viceversa.
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Tra le maschere che un uomo può indossare ricordiamo l’argilla la mucca (Quasi-Cit.) |
Quindi, un prequel dedicato a Faccia di cuoio nasce già un pochino sfigato, anzi parecchio sfigato visto che Tobe Hooper, l’uomo che creò il personaggio nel 1974 in quel capolavoro di Non aprite quella porta, ha fatto giusto in tempo ad assistere alla prima del film di cui era produttore (dettaglio che la truffaldina pubblicità di uno strambo Paese a forma di scarpa non ha mancato di sottolineare) e il giorno dopo ha lasciato questa valle di lacrime. Storia vera, purtroppo storia vera.
“Leatherface” che originariamente avrebbe dovuto essere il titolo originale di “The Texas Chain Saw Massacre”, nasce con in mano delle carte non proprio ottime, anche se i suoi due registi, Julien Maury e Alexandre Bustillo, non sono propriamente due sprovveduti.
Il loro film più riuscito è sicuramente quella bombetta di “À l’intérieur” (Inside, 2007), mi sono perso il successivo “Among the Living” (2007), mentre “Livide” (2011) mi è sembrato un discreto casino, in ogni caso la coppia di registi era destinata a dirigere almeno una delle grandi maschere del genere horror. A lungo sono stati tra i papabili per il rilancio di “Nightmare”, “Halloween” ed “Hellraiser”, tutti progetti abbandonati uno dopo l’altro per le solite divergenze artistiche.
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Lens flare come se non ci fosse un domani. |
Insomma, due che si portano dietro una certa aurea di autorialità, per cui ha pure senso che siano finiti a dirigere il nuovo capitolo di una saga famosa, ma forse meno mainstream delle altre, almeno a giudicare dai primi capitoli, perché gli ultimi rilanci diciamo hanno leggerissimamente inflazionato il titolo.
Il reboot diretto dal maledetto Marcus Nispel nel 2003 me lo ricordo per un senso generale di fastidio e per un’ammirazione focalizzata alla canottiera di Jessica Biel, anzi al suo contenuto, lo dico per amor di precisione. Il primo prequel del reboot (già mi gira la testa) diretto dal tizio delle Tartarughe Ninja l’ho completamente rimosso e penso sia un bene, mentre il terzo capitolo in 3D uscito nel 2013, passerà alla storia per un’unica ragione: aver avuto la concreta possibilità di giocarsi per primo il topless di Alexandra Daddario e di aver fatto di tutto per evitarlo, facendosi soffiare l’esclusiva dalla prima stagione di “True Detective” uscita solo pochi mesi dopo. Come entrare nella storia dalla parte sbagliata.
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Un cliente insoddisfatto, ha trovato un capello nella minestra. |
Sceneggiato da Seth M. Sherwood, nome che mi sembra palesemente fittizio e immagino sia l’equivalente anglofono di Ajeje Brazorf, “Leatherface” è un compitino che riesce ad intrattenere, in alcuni passaggi anche abbastanza bene, quanto di buono troviamo nel film è quasi tutto imputabile ai due registi che, però, non si sono sforzati più di tanto per dare il loro tocco. Insomma, il film risulta il migliore della saga dai tempi del terzo capitolo del 1990, non mi sono annoiato a guardarlo, ma dopo qualche giorno mi è rimasto pochino della visione, devo ammetterlo.
S’inizia subito forte con la festa di compleanno del piccolo Jed a cui la sua adorabile famiglia regala una motosega e un povero Cristo su cui utilizzarla, un inizio che, bisogna dirlo, attira subito l’attenzione, ma è anche piuttosto poco ispirato, se fosse un prequel di Venerdì 13 cos’avrebbe ricevuto in dono il protagonista? Un machete e una maschera da Hockey? Per fortuna l’adorabile mammina è interpretata dalla brava Lili Taylor, una che è sempre molto efficace ad interpretare la pazzoide ossessiva e che qui è forse la migliore tra tutti i volti noti messi attorno ai giovani protagonisti.
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Una tenera mammina e l’adorabile nonno. Roba da rimpiangere di non essere orfani! |
L’idea di questo film per mescolare un po’ le carte è quella di far sì che tutti i ragazzi vengano affidati ad un istituto mentale, che cambia i loro nomi per far loro cominciare una nuova vita, ma è anche un ottimo modo per lasciare il pubblico con il dubbio: chi diventerà lo sfigurato e pazzo Faccia di Cuoio.
Non voglio rivelarvi troppo perché questo è anche l’unico colpo di scena del film, posso dirvi che la risposta è meno scontata di quello che sembrerebbe guardando i possibili candidati, ma vi devo anche dire che la soluzione del giallo potrebbe scontentare i puristi. Per quanto mi riguarda mi rimetto alla mia dichiarazione di apertura: non trovo così interessante raccontare le origini a tutti i costi, specialmente di un personaggio che faceva paura soltanto entrando in scena, come accadeva nel capolavoro di Hooper del 1974. Alexandre Bustillo e Julien Maury tutto sommato sanno comunque il fatto loro, tra topi e topastri e l’atmosfera decadente del manicomio, i due registi piazzano un paio di scene di gustoso disgusto, quando poi i giovani protagonisti rapiscono l’infermiera carina e fuggono dall’istituto, il film riesce nell’impresa di farti pensare solo ai personaggi e non al fatto che stai guardando un prequel dal finale segnato.
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Se vi sta sulle palle Iron Fist, potete consolarvi con questo film. |
Per una buona porzione “Leatherface” diventa un film ambientato sulle strade del Texas, un posto dove procurarsi un fucile non richiede davvero troppa fatica ed è ancora più facile ritrovarsi comunque a tifare per i ragazzi in fuga, anche perché tra le fila dei “buoni” troviamo lo sceriffo Stephen Dorff e il vice sceriffo Finn Iron-Fist Jones, non proprio due campioni del mondo di carisma, visto che il secondo fa la parte del viscido, mentre il primo si lancia in un’improbabile imitazione di Sean Penn in Mystic River, ma senza averne il talento (che poi è anche il grande problema della carriera di Dorff, uno che mi ricordo giusto nella parte del vampiro quando Wesley Snipes lo prendeva a calci).
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«Mi sono già fatto la barba questa mattina, gentilissimo, come se avessi motosegato… Volevo dire accettato!» |
La cosa davvero incredibile è che ad un certo punto “Leatherface” si trasformi in un film “On the road” come La casa del diavolo di Rob Zombie, uno che se non fosse stato per Tobe Hooper registicamente parlando non sarebbe mai esistito, a questo punto forse sarebbe stato meglio fare un passo più deciso e far dirigere questo prequel direttamente da Robertino Non-Morto, che forse sarebbe stato anche più contento di poter dire la sua su Faccia di Cuoio piuttosto che su Michael Myers, come ha già fatto non una, ma due volte!