«Non si può più dire niente» e poi snocciolano le peggio merdate da quelle bocche del cazzo o in alternativa, dalle loro tastiere di merda, nascosti dietro ad uno schermo. Le parole, utilizzate senza pensare, quelle sì, fanno davvero male e se vogliamo parlare di qualcuno che di parole ne usava tante, allora dobbiamo proprio scomodare Lenny Bruce, ma prima… SIGLA!
Se pensiamo a Bob Fosse, qualunque persona normale vi citerebbe qualcuno dei suoi film musicali, cantati e magari coreografati da Fosse in persona, eppure se volete sapere la mia – e se state leggendo questo, probabilmente è così – non ho troppi dubbi, il mio film preferito di Bob Fosse parla ancora di spettacolo e palchi, ma questa volta quelli da calcare sono quelli della stand-up comedy al vetriolo di una leggenda come Lenny Bruce.
Provocatorio, con una lingua velenosissima e una mente affilata, l’ascesa, la leggenda, la caduta costellata di numerosi arresti e processi per cosa esattamente? Parole, quelle dei suoi spettacoli, considerati dinamite, se non proprio un attacco beluino alla carotide dell’America puritana a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, raccontata prima nel 1971, quando Julian Barry scrisse “Lenny” , una commedia basata sulla vita del comico che aprì a Broadway con Cliff Gordon protagonista. Tre anni dopo grazie alla regia di Bob Fosse la trama sbarcò al cinema, con uno degli attori più caldi in circolazione in quel momento nei panni di Lenny.
In linea di massima penso che un paio di volte in vita vostra avrete sentito parlare di Dustin Hoffman, io voglio solo ricordarvi i tre titoli da cui il nostro arrivava prima di calarsi nei panni di Bruce: “Il piccolo grande uomo” (1970), Cane di paglia e “Papillon” (1973), che sono solo tre dei suoi film che preferisco, prima di dedicarsi ad un ruolo di tutto riposo, ovvero recitare nel mio Bob Fosse che più gradisco.
Perché ho questa predilezione per “Lenny”? A cinquant’anni dalla sua uscita, il film di Bob Fosse è ancora un esempio virtuoso di biografia, genere popolarissimo oggi più che mai, anche se i prodotti spesso sono roba che per manifesti intenti paraculi, risultano robetta su cui Lenny Bruce avrebbe scritto e recitato monologhi esilaranti e pieni di acido.
Il bianco e nero implacabile fotografato da Bruce Surtees («Mi piace il nome Bruce, finché non ne ho conosciuto uno che ha cercato di baciarmi») ci fa calare nella New York dei locali fumosi del periodo, i primi passi stentorei nella comicità, con un repertorio che sapeva già di vecchio, completamente rigirato tanto da rendere Bruce il più grande spettacolo in città, tante volte compreso di conclusione con la polizia che portava via a braccia il comico, più volte arrestato per il contenuto delle sue tirate.
Per essere un film parlato, tanto parlato, così parlato che anche quando non si passa dai monologhi del protagonista alle arringhe nei tribunali, abbiamo il protagonista che legge i verdetti dei suoi processi, la vera pornografia delle parole, trionfo del grottesco.
Ma quello che mi colpisce ogni volta che vado a rivedere “Lenny”, resta il ritmo e il gran montaggio con cui Fosse riesce a passare e rimbalzare tra passato e presente, senza mai perdere un colpo, anzi per soluzioni visive, questo film ha fatto scuola tanto da poter essere considerato un Classido.
Qualche tempo fa abbiamo parlato della serie La fantastica signora Maisel, dove Lenny Bruce, mettendo in chiaro la fonte d’ispirazione, compare come personaggio secondario ricorrente. Nel corso di cinque stagioni, alcune svolte nella vita dell’immaginaria Midge Maisel sembrano ricalcate sulla vera vita di Lenny Bruce, in un continuo rincorrersi tra arte che imita la vita e tutte quelle belle robette lì.
Per essere un film di cinquant’anni fa (orrore!) e in bianco e nero (orrorissimo!!), “Lenny” sfoggia la modernità di chi se non per primo, ma tra i precursori, ha sfoggiato soluzioni che ancora oggi sono canoniche, come ad esempio le (finte) interviste, con gli attori inquadrati in primo piano come in un (finto) documentario, che ancora oggi è una trovata popolarissima nelle serie tv o in film come Tonya, guarda caso un altro esempio virtuoso di biografia.
Ma quello che fa di “Lenny” un film ancora oggi così riuscito, lo dobbiamo in parti uguali alla bontà della storia e a quella della prova di Dustin Hoffman, micidiale nel calarsi nei panni del protagonista di una storia che trasforma il cinema in una continuazione dello stile comico dell’uomo ritratto. L’unico altro film che per tema e stile, ha saputo rendere così bene omaggio al comico al centro della sua storia vera, è Man on the moon che merita sempre di essere rivisto.
Ma se Andy Kaufman era un provocatore che utilizzava arti e gag visive, Lenny Bruce come Frankie hi nrg dava potere alla parola, che sia pronunciata o occultata, come quella che gli fa guadagnare un arresto e una denuncia, “pompino”(«Ma l’ho detto, mica ne ho fatto uno!») che può diventare la parola tabù con cui sfidare ancora le convenzioni, quando sostituita da “Bla bla bla” può diventare una geniale tirata per un fantastico monologo.
Per Bruce e la sua provocazione, è la repressione di una parola quella che ne fa aumentare la cattiveria, un concetto interessante espresso a colpi di descrizioni al volo degli spettatori, additati come “Spaghetti” oppure “Greci traditori” e via dicendo.
Le parole, diventano oscene quando giustificano gesti osceni, come la censura o l’accanimento che Bruce è costretto a subire nei confronti della sua satira, quella che per esistere è funzionare, deve puntare il dito contro potere, morale e convenzioni, le stesse sfidante dal comico o da Bob Fosse, che ricreando sullo schermo una celebre tirata in impermeabile del comico, il regista pensa bene di riprenderla da lontano, per tutto il tempo, promettendo un primo piano che non arriva mai, che serve a mettere in chiaro come Lenny Bruce, privato della sua libertà di parola – insomma del suo potere – lentamente scompaia dal film, anche dal film.
Trovo significativo che Bob Fosse nel primo atto utilizzi spessissimo primi piani di Dustin Hoffman e poi, progressivamente, il suo Lenny Bruce sia sempre più distante della macchina da presa, con l’apice raggiunto nel finale, in cui il comico esce di scena, mai mostrato, se non dalle foto scattate sul posto poco prima dei titoli di coda.
Ora che al grido di «Non si può più dire niente» anche chi farebbe meglio a stare zitto parla, “Lenny” dà, anzi continua da cinquant’anni a dare potere alla parola, ci tenevo a portare il padre nobile della signora Maisel su questa Bara in occasione del suo illustre compleanno, ed ora tutti insieme… That’s great, it starts with an earthquake, birds and snakes, and aeroplanes, and Lenny Bruce is not afraid.
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