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L’esercito delle 12 scimmie (1995): il futuro è storia

Come si fa a migliorare un film di Terry Gilliam? In tutta onestà non ne ho idea, ma so che aggiungerci delle scimmie è un’ottima soluzione e magari non solo una, ma dodici, come quelle protagoniste del nuovo capitolo della rubrica… Gilliamesque!

Non ricordo quanti film Gilliam avessi già visto nel 1995, penso piuttosto pochi, sicuramente avevo già visto Brazil, ma posso dire con certezza che “L’esercito delle 12 scimmie” è stato il film con cui ho deciso che l’ex Monty Python sarebbe diventato uno dei miei preferiti, profezia che poi si è avverata. Ad attirarmi al cinema furono due cose: la prima il dettaglio (da niente) per cui fanatico di scimmie lo sono sempre stato, quindi un titolo del genere è un magnete per uno come me, poi se il protagonista è uno dei miei preferiti, ovvero Bruce Willis, ma dai scherziamo! Per altro, ho visto il film nella stessa saletta di provincia dopo pochi mesi prima vidi Die Hard – Duri a morire, mi ricordo ancora il posto a sedere (storia vera).

Non so come mai, visto che non erano due abituali fanatici di cinema, andai a vedere il film con due miei compagni di classe che nel tempo libero facevano i cantanti Hip Hop, per altro pure con un certo riscontro (storia vera), insomma i due iniziano a parlar tra di loro di cose tanto importanti da non poter attendere la fine del film per essere dette, non so dirvi cosa, io a chi parla al cinema sparerei addosso più colpi di quelli sparati a Tupac (tanto per stare in tema), ma in fondo me ne frego, perché fin dai titoli di testa, finisco per fare quello che faccio sempre quando guardo un film di Gilliam: m’incollo allo schermo incantato e non sento niente, completamente perso nel film. A fine pellicola lì, i “2Pac” accanto a me (nel senso di “Due fregature”) mi chiedono delucidazioni sul finale di un film che non hanno seguito, non gli rispondo nemmeno, ho le farfalle nello stomaco, dite che ci sono gli estremi per il Classido? Ma sì, cacchio!

Quando Terry Gilliam nel 1995 ha deciso di accettare la regia di “12 Monkeys” tutti hanno strepitato per una svolta commerciale dell’unico Python americano, dimenticando forse che anche La leggenda del re pescatore, era un film su commissione e senza sapere che nel frattempo Gilliam aveva tentato di portare al cinema il romanzo di Charles Dickens, “Racconto di due città”, progetto mai decollato per indovinate un po’? Mancanza di finanziatori, ma dài? A Gilliam non succede quasi mai.

Quando Gilliam legge la sceneggiatura scritta da David Webb (quello di Blade Runner e “Gli Spietati” di Eastwoo) e Janet Peoples, liberamente ispirata al geniale cortometraggio di Chris Marker intitolato “La jetée” (1962) ne resta affascinato, ci ritrova dentro tanti elementi del suo cinema e di Brazil in particolare ed accetta l’incarico, il suo “Sì” fa subito notizia, perché a produrre il film è la Universal Pictures, la stessa con cui Terry ha fatto a testate per difendere il suo Brazil dagli sforbiciamenti, ma Sid Sheinberg ormai è andato, ora il capo si chiama Charles Roven che lascia quasi completa carta bianca a Gilliam… Quasi, in fondo i burocrati restano sempre burocrati anche quando sorridono.

«Maledetti burocrati, mi faranno diventare matto!»

Il budget è fisso sui 29 milioni di ex presidenti defunti stampati su carta verde, non un centesimo di più perché la Universal ancora sta imbarcando acqua (è il caso di dirlo) dopo il disastro al botteghino di “Waterworld” (1995), in compenso, Gilliam ottiene la possibilità di scegliere il finale che preferisce e garantisce di poter consegnare il film per tempo, mentre è sul set gira anche il documentario “The Hamster Factor (and Other Tales of 12 Monkeys)” per testimoniare la bontà del suo lavoro e per, diciamo, posso dire pararsi il culo? Sì, dai, diciamo che posso, per pararsi il culo con l’assicurazione in caso di disastro, se avete una copia decente del film in DVD trovate il bel documentario tra i contenuti speciali del film.

Sul cast bisogna un po’ combattere, non per Madeleine Stowe, una delle più sottovalutate attrici degli anni ’90 che Gilliam aveva già scelto per un ruolo nella sua versione di “Racconto di due città” e che qui viene confermata, per il suo essere tenera e tosta in parti uguali, quindi perfetta per il ruolo della psicologa Kathryn Railly, allo stesso tempo donna angelica che cercherà di salvare il protagonista e personaggio che abbraccia l’immaginario, come negli altri film di Gilliam avevano già fatto KevinSam Lowry, Sally e Jack Lucas.

Oh gente, ma che fine ha fatto Madeleine Stowe? Qualcuno ha notizie?

Come protagonisti, invece, Gilliam avrebbe voluto Nick Nolte e Jeff Bridges, ma alla fine si ricorda di Bruce Willis, scartato ai tempi di “The Fisher King” in favore di Robin Williams (storia vera), ma sempre sul fondo del cranio di Terry, impressionato dalla sua prova in Trappola di cristallo, in particolare per la scena in cui si toglie le schegge di vetro dal piede, perché per il ruolo di James Cole, Gilliam voleva uno così, dall’aspetto pericoloso, ma capace di risultare anche fragile. Siccome gli anni ’90 sono stati quelli in cui il nostro Terry ha dimostrato di essere anche un grande regista di attori, sul set ha fornito a Willis una lista di “Cose alla Bruce Willis” da NON fare in questo film, questo spiega perché James Cole è il primo personaggio di Bruce a non esibirsi nel suo caratteristico grugno da Bulldog e, a dirla tutta, anche il primo dei personaggi malinconici che hanno allungato la carriera a Bruce Willis, questo molto prima di Il sesto senso e Unbreakable, quando vi dico che Gilliam è un futurista, dovreste credermi, non trattarmi come tutti fanno con James Cole in questo film!

«Niente grugno da Bulldog? Allora mi limiterò a sbavare come uno di loro»

A proposito di vederci lontano, nemmeno Gilliam era troppo convinto di Brad Pitt per il ruolo del pazzoide Jeffrey Goines, ma dopo averlo sentito esibirsi in una parlata velocissima, migliore di quella dei miei due compari Rapper in sala con me nel ’95, che era proprio quella che Terry desiderava per il personaggio capì che Pitt era quello giusto, provate a dire qual è il film per cui il buon Brad ha conquistato credibilità come attore diventando di lì a poco una super star? Proprio quello con le dodici scimmiette. Ora, io immagino lo abbiate visto tutti, ma siccome da qui in poi mi è impossibile non scendere nei dettagli della trama lo urlo ai quattro venti: seguono SPOILER sul film andate avanti a leggere solo se avete visto il film!

«Siete andati avanti fino a qui? Vuol dire che avete visto il film… Bravi!»

Diventa obbligatorio partire da “La jetée”, il corto di Chris Marker alla base del soggetto, un progetto sperimentale composto quasi interamente da fotografie e da una voce narrante che racconta la storia, in un futuro post-apocalittico un viaggiatore del tempo viene mandato indietro nel passato, le fotografie raccontano le varie visite che l’uomo farà alla donna di cui finirà per innamorarsi nel corso dei suoi viaggi, il tutto termina su un molo (appunto il “Jetée” del titolo) dove il viaggiatore verrà ucciso sotto gli occhi di un bambino, il se stesso del passato.

Se volete approfondire, trovate il cortometraggio QUI.

Un bambino che assiste alla morte di se stesso diventa il punto di partenza del film, ma la genialità nel corto di Chris Marker sta nel modo in cui il regista riesce a farci riflettere sulla struttura stessa del cinema, smontando letteralmente la grande illusione alla base della settima arte, ovvero il movimento che, di fatto, è ottenuto da quelle che sono a tutti gli effetti solo tante fotografie statiche, impresse su pellicola. Marker riporta il cinema alla sua origine e togliendo l’illusione dell’azione ci rende tutti testimoni di singoli momenti inalterabili, fermi nel tempo (come fotografie oppure ricordi) di cui possiamo essere solo spettatori, come il bambino di “La jetée” o quello che vediamo nei sogni (o sono flashback? Oppure è la sua follia?) di James Cole.

Questa riflessione è presente anche in “12 Monkeys”, ma a colpire è prima di tutto la messa in scena, forse per la prima volta al cinema il viaggio del tempo smette di essere qualcosa di cartesiano, perfettamente regolato e semplice da eseguire, scordatevi Ritorno al Futuro, insomma, qui Gilliam trova il modo di trasformare una grossa produzione di Hollywood in un film d’autore, con tutte le caratteristiche del suo cinema, alla faccia di quelli che nel 1995 temevano di vederlo “svendersi” ai film commerciali.

Sembra Lemmy Kilmister, invece è Terry Gilliam sul set del film.

Un virus ha sterminato il 99% della popolazione, costringendo i sopravvissuti a rifugiarsi in bunker sotterranei dove non arriva mai il sole («Il virus è mutato! Ora viviamo sottoterra»), la natura si è ripresa la superfice del pianeta, ma ora l’umanità dispone di una tecnologia capace di far viaggiare le persone nel tempo, talmente efficace che per indagare su come l’infezione si sia propagata gli scienziati che governano questa nuova società nata sulle macerie della precedente, pensano di mandare indietro un “Volontario” il povero James Cole (Bruce Willis, olè!), prigioniero in attesa di giudizio senza più niente da perdere, ma con un’ottima memoria.

La sua missione è quella di raccogliere campioni e informazioni, specialmente su questo sedicente gruppo terrorista noto come “L’esercito della 12 scimmie”, i responsabili della diffusione del virus che si firmano con un graffito e una scritta: “We did it!”.

Bruce pratica sesso sicuro, in pieno stile “Una pallottola spuntata”.

Ma qualcosa va storto e Cole finisce nel 1990, sei anni prima della diffusione del virus («Il 1996 è il futuro» , «Il 1996 è il passato»), se Cole nel suo tempo era un disadattato, il tipico eroe contro voglia di Gilliam, nel 1990 è un oggetto impossibile da codificare, per comodità e impossibilità di comprenderlo malgrado gli sforzi della bella psicologa Kathryn Railly  (Madeleine Stowe), viene etichettato come pazzo e gettato in un decadente manicomio, dove fa la conoscenza di quello volato sulla parte più alta nel nido del Cuculo, Jeffrey Goines (Brad Pitt imbruttito per la parte e mai così bravo) figlio di un ricco e potente scienziato (interpretato da Christopher Plummer) e in qualche modo implicato con questo famigerato “Esercito delle 12 scimmie”.

«Questi quasi mi fanno rimpiangere Hans Gruber»

“12 Monkeys” è un film potentissimo, ti colpisce in faccia come una tonnellata di mattoni, il suo soggetto è, ammettiamolo, geniale ed intrigante in parti uguali, è impossibile non aver voglia di sapere come continua una storia che inizia con queste premesse, inoltre, Gilliam fa un lavoro assolutamente incredibile.

Il futuro è un luogo tetro, angusto, fatto di gabbie (uno dei marchi di fabbrica di Terry) e televisori che trasmettono porzioni di notizie incomplete, la superficie del pianeta un luogo inospitale per l’uomo, nemmeno il manicomio dove finisce Cole è proprio Disneyland, un postaccio decadente con la muffa alle pareti che Gilliam riprende con grande utilizzo di lenti grandangolari e con la macchina da presa sempre volutamente sghemba, come se fosse appoggiata su un cavalletto con una gamba più corta, come se ad ogni inquadratura mancasse una rotella, le stesse che non si trovano più dei pazienti che circondano Cole.

«Non sono pazzo, è il grand’angolo che mi frega»

Il viaggio nel tempo in “12 Monkeys” non è lineare, non è possibile muoversi in linea retta avanti e indietro tra passato e futuro come fa la torre durante una partita a scacchi, il tempo in questo film è arrotolato su sé stesso, destinato eternamente a ripetersi, esattamente come fa l’ossessivo tema principale del film composto da Paul Buckmaster, un tango basato su “Suite Punta del Este” del compositore argentino Ástor Piazzolla, che varia quel tanto che basta da farti credere di stare diventando un altro pezzo, per poi ripetersi ancora, sempre identico, che poi è anche la migliore metafora possibile per il film. Se ve lo state chiedendo: sì, dopo Brazil un altro tema musicale “Latino” estrapolato dal suo contesto con l’intento di generale nel pubblico sensazioni differenti, bravi vi vedo attenti.

Il cast fornisce prove ottime, in qualunque pezzo vi capiterà di leggere, da qui all’infinito dedicato a questo film, sentirete parlare di una delle migliori prove di sempre di Bruce Willis e del film che ha messo Brad Pitt sulla carta geografica, tutto vero, quindi con tutta la mia stima per Bruce, posso tranquillamente passare a parlare d’altro, tipo di come il suo James Cole sia un altro dei romantici rottami che popolano i film di Gilliam, un uomo che ha sofferto così tanto da commuoversi dopo poche note di “Blueberry Hill” di Fats Domino o di “What A Wonderful World” di Louis Armstrong alla radio, perché tra tutte le cose fondamentali che puoi togliere ad un uomo, la musica magari non è la prima che ti viene in mente, ma è quella che ti farà capire cos’hai perso quando la potrai ascoltare di nuovo. Oppure, di mettere la testa fuori dal finestrino come farebbe il vostro cane, per respirare l’aria “Fresca” e se uno può trovare l’aria di Baltimora buona e salutare, vi fa capire da che postaccio arriva.

Non sta piangendo è un duro, gli stanno solo sudando le palpebre.

Come dicevo, “L’esercito delle 12 scimmie” è un film estremamente coerente all’interno della filmografia di Terry, gli scienziati che dominano il futuro non sono tanto diversi dai burocrati in giacca grigia di Brazil, convinti delle loro informazioni e della loro tecnologia, sono spocchiosi nel loro credersi esenti da errori, quando tutti fieri affermano «La rimanderemo nel terzo quadrimestre del 1996» e poi BOOM! Un attimo dopo quasi muori ammazzato da un proiettile in una trincea francese durante la Grande Guerra! Lo stesso tipo di fredda fede nel sistema che faceva fuori il signor Buttle, per un errore di battitura.

«É di fondamentale importanza che lei trovi l’esercito delle 12 triglie», «Ma non erano scimmie?»

In questo senso, anche Kathryn Railly è colei che abiura la sua fede (nella scienza e nella psicologia) iniziando a credere alla versione di James Cole, non solo perché si sta innamorando di lui ed è proprio qui che il film mena il suo colpo più duro.

La bellezza di “12 Monkeys” sta anche nel suo rompicapo, i sogni che turbano il sonno di Cole sono ricordi, visioni da Cassandra di un futuro che è dietro l’angolo, oppure il frutto della sua follia? Per tutto il tempo viene da chiederselo e Gilliam è diabolico nel seminare ovunque indizi in tal senso, James Cole è davvero un viaggiatore del tempo? Oppure è un pazzo con una fantasia paranoica? Fateci caso, l’orso e il leone che vede nella sua prima uscita sulla superficie tornano come semplici statue nel centro di Baltimora, ma persino le “Dodici scimmie” non sanno nulla di nessun virus e, a ben guardare, le scimmie nel film sono un po’ ovunque. In manicomio Cole si ritrova a guardare il film dei fratelli Marx “Monkey Business – Quattro folli in alto mare” (1931) ed è una scimmietta anche quella che viene spedita giù nel tunnel con un panino per aiutare il piccolo Ricky Newman. Allo stesso modo i sogni di Cole cambiano di poco per poi terminare sempre nello stesso modo (come il tema musicale) ogni volta che l’uomo pensa di aver avuto una rivelazione chiave. Per non parlare nell’inquietantissimo senzatetto che si rivolge a lui chiamandolo Bob («Non puoi nasconderti Bob, loro sanno ogni cosa»), ancora una volta Gilliam mescola realtà e finzione facendoci dubitare di entrambe.

In the jungle Baltimora the lion sleeps tonight.

Se “La jetée” smontava il cinema stesso ricordandoci che siamo tutti spettatori di immagini in realtà ferme e senza nessuna concreta possibilità di cambiare le cose, “L’esercito delle 12 scimmie” fa lo stesso, però utilizzano le armi messe a disposizione dal cinema, non è un caso che Cole e Railly, finiscano in un cinema a vedere “La donna che visse due volte” (1958) di Alfred Hitchcock e proprio la scena in cui Kim Novak guarda gli anelli dell’albero, ripetitivi, concentrici e segno del tempo che passa, proprio come la struttura del tempo in questo film. Anzi, nella scena successiva Cole indossa una variopinta camicia a fiori, simile a quelle che di solito sfoggia Terry Gilliam, mentre Railly per celare la sua identità diventi una bionda, come sarebbe piaciuto a Zio Hitch ed ora che ci penso, Madeleine Stowe, Madeleine Elster una delle due donne interpretate da Kim Novak… Diavolo di un Gilliam!

La bionda tinta che visse due volte.

Il finale è bellissimo, potrebbe sembrare che ad un certo punto Cole e Railly abbiano la possibilità di risolvere tutto con una telefonata (d’altra parte, un minuto prima avevano fatto lo stesso e il risultato era stato l’arrivo dell’altro viaggiatore, Josè), ma è proprio questo il punto: i due protagonisti anziché assistere al ciclo del tempo che si ripete, ogni volta un pochino diverso, ma sempre con lo stesso tragico finale, intervengono, convinti di poter davvero fare qualcosa, ma di fatto non hanno più controllo sugli eventi di quanto non potremmo averne noi spettatori mentre guardiamo loro correre disperati.

Madeleine Stowe nella parte di voi ed io mentre guardiamo l’ultima scena di questo film.

La scena è diretta magnificamente, montata meglio e capace di incollarti allo schermo, ma se Chris Marker ci aveva tolto l’illusione del movimento, Gilliam ci toglie l’illusione di un finale ottimista (come del resto fa quasi sempre nei suoi film), lasciando che l’unica speranza sia per Cole sì, ma la sua versione giovane, rispondendo solo alla fine del film alla domanda che Railly pone all’inizio: «Ti conosco? Ho la sensazione di averti già visto da qualche parte».

Il film inizia e finisce con il bambino, il loop temporale è completo.

Di positivo resta che “L’esercito delle 12 scimmie” è un grandissimo film che svela nuovi dettagli ad ogni visione, una caratteristica dei Classi(d)i. a distanza di anni viene ricordato come uno dei migliori film di Brad Pitt, di Bruce Willis e naturalmente di Terry Gilliam… Ah e per la nuda cronaca alla fine Terry ha davvero consegnato il film nei tempi e nel budget stabilito e con lui di mezzo non è certo una cosa scontata!

Tra una settimana, come vostro avvocato vi consiglio di procurarvi una decapottabile rossa, delle camicie stile Acapulco, a portare le droghe ci penso io.

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