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L’esorcismo – Ultimo atto (2024): l’esorcista del papà (no, non del Papa)

Immaginatevi la situazione, siamo nel 2019, la Miramax ha un’intuizione: perché fare l’ennesimo film di esorcismo che non riesce (e non vuole) prendere le distanze del classico di William Friedkin, quando possiamo farne uno che lo ricordi in tutto e per tutto, volutamente, quasi un film meta-cinematografico.

Pensate di affidarlo a Joshua John Miller, esordiente come attore bambino in Halloween III e vampiro in Il buio si avvicina, da grandicello ha scritto roba come “The Final Girls” (2015) su cui preferirei non dire nulla se non che a suo modo (male) trattava un rapporto genitore/figlio. Pensate di avere come fratellastro l’attore Jason Patric, come compagno di vita e lavoro lo sceneggiatore M. A. Fortin e come padre, Jason Miller, che potreste ricordare, vagamente eh? Per il ruolo di padre Damien Karras in beh, L’esorcista di William Friedkin, prima di ogni altra riflessione, vi racconto in due righe la trama di “The Exorcism”.

Famiglia, dentro e fuori dallo schermo.

L’attore Anthony Miller (così anche con i cognomi, giochiamo a carte scoperte), viene scelto all’ultimo secondo per sostituire un collega morto misteriosamente in precedenza, per interpretare un prete esorcista in un horror. Nel suo passato problemi di dipendenze, e un rapporto complicato con la figlia Lee Miller (Ryan Simpkins), omosessuale e con problemi generati da un padre per ovvie ragioni assente. A tutto questo aggiungiamo che il film nel film si intitola “Georgetown”, proprio come il quartiere di Washington in cui è ambientato il film di Hurricane Billy e il regista, leggerissimamente pezzo di fango, interpretato da quella faccia da Adam Goldberg, che per ottenere il massimo da Miller, fa leva su tutti i suoi drammi interiori.

Riassunto tutto questo, vi è chiaro che Miller, inteso come Joshua John, in questa storia ci abbia messo uno zinzinello della sua vita no? Bene, ora la trama si complica, perché il 2020 ve lo ricordate, non è andato proprio benissimo, così come gli incassi dei film in sala, il film girato nel 2019 resta in un cassetto, tanto, così tanto che lo stesso Russell Crowe che ha interpretato Miller (Anthony) diretto da Miller (Joshua John), deve aver chiesto al suo agente: «Oh! Ma quella roba horror che ho girato esce?», evidentemente no, ma siccome l’agente di Crowe è un dritto, scova per il suo assistito un altro ruolo da prete esorcista, quello di Padre Gabriele Amorth, che non solo era stato ispirazione per Friedkin, ma era il protagonista in Vespa de L’esorcista del Papa.

«Esci il mio film di esorcismo da questo corpo o ne farò un altro!»

Come si conclude questa storia? L’esorcista del Papa fa soldi al botteghino, quindi la Miramax mette mano al cassetto, tira fuori “The Exorcism” che evidentemente era stato considerato un investimento perdente (o un soggetto di cacca, fate voi) gli soffia via la polvere e lo manda in sala con campagna promozionale aggressiva, una cortina di fumo perché il pubblico creda che sia “L’esorcista del Papa 2 – la vendetta di padre Amorth”, quindi ve lo ripeto, NO, ENNE-O, questo film non ha nulla a che spartire con quello.

Ad aggiungere ancora un po’ di guacamole, ci si mette la distribuzione italiana, che trasforma “The Exorcism” in “L’esorcismo – Ultimo atto” nel tentativo di mettersi in scia a tutto, a quello del Papa, al seguito (brutto) ufficiale, e per una buona parte, diciamo il primo atto, questo progetto pazzo che puzzava lontano da un chilometro, mi ha quasi fatto pensare di essermi sbagliato. Quasi.

Nella casa faccio la mia cosa (anche se la casa è un set nel set)

Il diavolo negli Horror è spesso colui che fa accadere gli eventi, un manipolatore, che colpisce di sponda, lo ripeto ma il film di Friedkin non si chiama “La ragazzina con il vestitino azzurro che vomita verde” si chiama L’esorcista, perché il demone di turno lavora sui sensi di colpa di padre Karras, ed è in questa zona grigia che M. A. Fortin e Joshua John Miller lavorano per portare in scena una storia di un padre, un attore molto in là lungo il viale del tramonto, professionale e umano, con sensi di colpa che lèvati, ma lèvati proprio, per la sua vita sregolata e per aver abbandonato una figlia che, come potete intuire, con papà non ha questo gran rapporto.

Un tipo di costruzione e scavo nei personaggi ben più approfondito e sentito rispetto alla media dei film di questa tipologia, in cui Russell Crowe titaneggia e tira fuori con Ryan Simpkins la giusta chimica, quando papà, in odore di ricaduta nell’alcool, di brutto esaurimento nervoso o forse, perché no, di essersi calato troppo nel ruolo del posseduto, tanto da sembrarlo ben oltre l’actor studios, cosa succede? Che il diavolo, lavorando come sempre di cesello, ci mette lo zampino anche tra padre e figlia.

«Tuo papà è un grande attore», «Si, prova ad averlo come genitore»

L’omosessualità della ragazza viene utilizzata dal posseduto (dai demoni? Dalle sue dipendenze?) per farle del male, per colpirla nelle sue insicurezze, un livello di costruzione dei personaggi che funziona, doppiamente se pensate a papà Miller (inteso come Jason) e a Miller (inteso come Joshua John), omosessuale, figlio d’arte ma soprattutto figlio di un attore celebre per un film maledetto, ditemi quello che volete, ma non è certo poca roba. Ecco, peccato che il resto di “L’esorcismo – Ultimo atto” non regga il passo rispetto alla sua ottima premessa.

Superata la fase palesemente in odore di lavoro autobiografico, “L’esorcismo – Ultimo atto” quando arriva il momento di concludere e portare la palla oltre la linea di meta, si ritrova con la patata bollente per le mani e non sapendo che farsene, la passa indietro dritta nelle mani di Russell Crowe, che in quanto neozelandese il gioco lo conosce quindi di gran mestiere e di carisma, le prova tutte per caricarsi il film sulle spalle, purtroppo sulla lunga distanza una strategia manca, quindi il film abbraccia tutte le soluzioni più pigre possibili immaginabili. Su Sam Worthington io invece non so più che dire, nel ruolo del prete giovane (o più giovane) riesce a scomparire, non è un attore ma un camaleonte, ma non nel senso migliore o più associato alla recitazione del termine.

«Jimmy torna, riportami su Pandora ti prego»

Così, senza spiegazione alcuna, al buon Russell viene chiesto di esibirsi in uno snodamento in odore di camminata ragno, perché non può essere L’esorcista se non ci infiliamo dentro la scena che Friedkin decise (giustamente) di tagliare nel 1973, qui presentata per altro senza alcuna spiegazione o conseguenza, Padre Russell si disarticola davanti al cast del film nel film e la scena non ha alcuna conseguenza, se non l’entrata in scena di Padre Conor (David Hyde Pierce) e il film si attesta sul più banale e riciclato titolo di esorcismo, visto uno, visti tutti.

Un vero peccato, perché anche l’ambientazione della casa su due piani di Georgetown resa celebre da Hurricane Billy, ricostruita alla grande nel set del film nel film in cui è ambientato “The Exorcism” poteva essere uno dei punti di forza (anche visivo) della storia, ma esattamente come la costruzione dei personaggi, M. A. Fortin e Joshua John Miller gettano via tutto, trasformando un film a cui non avrei dato due lire, in uno ancora peggiore, una sonora occasione sprecata, almeno dal punto di vista narrativo.

Un finale talmente banale che anche l’esorcista sbadiglia.

Mi auguro che il becero trucchetto di farlo uscire in sala solo ora, sperando di accalappiare qualcuno in cerca della nuova avventura di Padre Gabriele Amorth abbia almeno funzionato, sembra incredibile che nel 2024, con tutte le informazioni del mondo a disposizione, questi trabocchetti tengano ancora banco, ma è un discorso vuoto il mio, sbatti un riferimento ad un esorcismo in locandina e qualcosa in termini di pubblico, con la tua rete da pesca lo tirerai su di sicuro, poi oh! Meno peggio questo di quella porcheria di seguito ufficiale, ma si tratta comunque di un gioco a perdere.

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