Ultima domenica di ottobre, ad un’incollatura dal gran finale della “Spooky season” ovvero la festa di Halloween, mi gioco l’ultimo fine settimana con Mario Bava e l’ultimo compleanno di un suo titolo, che spegne cinquanta candeline nell’anno in corso, oggi tocca al tormentato “Lisa e il diavolo”.
Raramente il regista sanremese ha potuto avere carta bianca come con questo film, ma sull’altro piatto della bilancia vanno soppesate le ingerenze patite da questo titolo, per anni invisibile, chimera per i cultori duri e puri del lavoro di Bava. Girato tra la Spagna e il Lazio tra il settembre e il novembre del 1972, come spesso succedeva ai titoli di Bava, ha cambiato titolo in corso d’opera, puntualmente il regista sanremese finiva per ricordare più il titolo di lavorazione che quello definitivo dei suoi lavori (storia vera), per fortuna abbiamo sempre potuto contare su uno storico di lusso, ovvero Lamberto Bava, figlio del regista che ci ha tramandato il primo titolo, quello che ricordava papà, ovvero “Il diavolo e i morti”, soggetto vagamente ispirato, sempre a detta di Lamberto a “I demoni” di Fëdor Dostoevskij e finanziato da Alfredo Leone, con totale fiducia nel proprio regista, per un po’ almeno.
Bava firma un film onirico, con il passo di un incubo, una riuscita metafora sulla morte, sul passare dall’altra parte raccontato con stile ed eleganza e anche qualche passaggio sospeso, in cui il ritmo latita un po’ per riprendere slancio prima del gran finale. Dopo i titoli di testa con le carte da gioco, quasi in stile Saul Bass, inizia la storia che è quella di Lisa Ryan (Elke Sommer), turista americana in visita guidata in Spagna, colpita nell’immaginario da un vecchio affresco raffigurante il diavolo, come un uomo dallo sguardo penetrante e la capoccia pelata.
Forse ancora toccata da questa forma di sindrome di Stendhal, Lisa si perde per i vicoli del paesello spagnolo, iniziando il Valzer dei film dell’orrore: Sali una rampa, prendi le scale, svolta in un vicolo, fino a ritrovarsi in una bottega.
In particola quella di Leandro, che essendo fatto a forma di Telly Savalas risulta identico al diavolo dell’affresco, non aiuta nemmeno che nella sua bottega di artigiano, stia aggiustando un metaforico burattino nelle sue mani. Qui con grande maestria e un ottimo lavoro di prospettiva, Mario Bava ci mostra come Lisa si sia persa girando su se stessa nei vicoli, ma sia comunque rimasta invischiata e attratta dallo sguardo magnetico del futuro Kojak televisivo, da qui in poi però Mario Bava mette il turbo e non guarda più in faccia nessuno.
Dal nulla spunta una specie di sosia del Geometra Calboni che la chiama Elena e sembra proprio conoscerla, e credetemi, se un sosia di Calboni vi chiamasse Elena vi spaventereste anche voi, da qui tra la nebbia e l’auto lussuosa che spunta apparentemente dal nulla (trovata che deve avere i suoi ammiratori), il film cambia ambientazione, Lisa/Elena viene scortata in una villa, ad una festa piena di ricconi in cui il maggiordomo è ancora lui, Telly Savalas e possiamo dirlo senza problemi, questa è una di quelle storie in cui il maggiordomo è fortemente e giustamente sospettato, anche perché la sua identità è spiattellata fin dall’affresco iniziale, se non proprio dal titolo del film.
La parte centrale di “Lisa e il diavolo” abbraccia volutamente e ancora una volta, dinamiche da film gotico, gli invitati alla festa e gli scheletri ritrovati sono un giallo con il passo di un incubo, sicuramente la porzione di film dove la storia un po’ si accartoccia e il ritmo non è dei più brillanti, ma poco importa perché il finale resta bellissimo, sembra quasi il risveglio di Lisa dal suo incubo, il ritorno alla contemporaneità dopo questa sortita “gotica” ben rappresentata dall’ambientazione dell’aereo, che non è facile capire perché mi piaccia molto, non solo perché il finale si gioca una svolta finale chiara fin da subito ma non per questo meno riuscita, ma soprattutto perché beh, leggete il nome della pagina e capirete perché voglio bene a questo film di Marione.
Il regista sanremese mette su una METAFORONE riuscitissimo che però terrorizza uno spettatore in particolare, il suo produttore Alfredo Leone che giunge ad una conclusione lapidaria: così questo film non incasserà una beneamata. Per “Lisa e il diavolo” è l’oblio, il produttore ritira la pellicola e la nasconde sul fondo del cassetto più profondo della sua scrivania, dando il via alla caccia al Sacro Graal per i fan di Mario bava duri e puri che invocano il girato del regista, che nel frattempo attivissimo, sforna “Cani arrabbiati“ (1974) ormai andato oltre la delusione di “Lisa e il diavolo”. Ma prima di parlare di pellicola perduta comincia a soffiare un uragano, da Chicago a sconvolgere il mondo arriva Hurricane Billy.
Nel 1973 William Friedkin sgancia sul globo quella bomba H di cultura popolare intitolata L’esorcista, un film spartiacque dalla cui iconografia ancora la settima arte non si è del tutto ripresa, per il produttore Alfredo Leone è l’occasione che cercava, riprende il girato di “Lisa e il diavolo”, fa tornare Elke Sommer che gira le parti aggiuntive in un fine settimana o giù di lì, tra contorsioni e (finto) vomito verde, l’attrice si lancia nella sua miglior interpretazione di Linda Blair. Rimontando poi il tutto, quello che viene fuori è un altro film, sparato in sala con il titolo di “La casa dell’esorcismo” (1975) e assegnato d’ufficio a Mario Bava come film diretto da lui, anche se il massimo coinvolgimento del regista in questo rimontaggio selvaggio è stato mandare sul set il figlio Lamberto, accreditato come aiuto regista, di fatto sul posto per farsi ancora un po’ le ossa e supervisionare, assicurandosi che il risultano non venisse fuori proprio uno scempio totale.
Scempio no, ma brutta copia di Friedkin si, dopo aver visto l’affresco diabolico, Lisa diventa una posseduta con carico di vomito e parolacce mentre un prete la esorcizza, il tutto mentre fanno capolino sequenze caso del film che era “Lisa e il diavolo”, ripescato nella sua forma originale, ovvero quella pensata e diretta da Bava, solo nel 2004 dopo un passaggio su Sky cinema.
“Lisa e il diavolo” forse non è il film più famoso di Bava, sicuramente resta uno di quelli dalla storia produttiva più pasticciata, ma anche oggi a distanza di cinquant’anni dalla sua uscita, risulta una riuscita metafora sulla morte, con qualche problema di ritmo nel secondo atto ma stile da vendere, se non lo conoscete ora che è facile da reperire, resta un buon modo per procedere in questi ultimi giorni di “Spooky season”, un compleanno a cui tenevo molto con una curiosità finale.
Nella villa, il maggiordomo Telly Savalas si esibisce in un’abitudine piuttosto spavalda per il suo ruolo, quello di parlare tenendosi in bocca un Tootsie Pop, da noi molto più banalmente un lecca-lecca. Trovata che deve essere particolarmente piaciuta all’attore, visto che nello stesso anno, il 1973, Telly Savalas esordiva sul piccolo schermo nel ruolo del personaggio che lo ha impresso a fuoco nella cultura popolare, il poliziotto del tredicesimo distretto di Manhattan con la passione per i lecca-lecca Theodopoulos Kojak, detto Theo.
Ora, io non voglio diabolicamente suggerire che Mario Bava abbia creato indirettamente il telefilm preferito della vostra nonna (la mia di sicuro, anche se era più per “Le strade di San Francisco”, storia vera), però intanto la pulce nell’orecchio ve lo messa, il mio mefistofelico compito l’ho fatto anche oggi, non mi resta che ricordarvi lo speciale dedicato al Maestro Bava con la promessa che l’anno prossimo, avremmo nuovi compleanni di un regista che non mi stancherò mai di definire per quello che era, un genio.
Sepolto in precedenza domenica 29 ottobre 2023
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