Vi ricordate quando il mondo si è preso una cotta per Diablo Cody? A mio avviso immotivata, ma gli innamoramenti funzionano così, non devono seguire le vie della logica. A distanza di anni credo che ad affascinare sia stata più la narrativa attorno alla sceneggiatrice, blogger e scrittrice statunitense, molto ben pubblicizzata ai tempi come una che aveva iniziato come spogliarellista, perché non esiste nulla di più americano della storia di qualcuno che si è tirato fuori da una situazione con le proprie mani, facendo il salto da una classe all’altra. Se poi la novella Rocky è anche di bell’aspetto e legata in qualche modo al guadagnarsi da vivere togliendosi i vestiti, sapete come funziona (male) no? Il tipo di dettaglio piccante a cui le donne sono purtroppo ben più soggette.
Detto questo, non ho mai avuto questa particolare passione per i lavori di Diablo Cody, “Juno” (2007) più celebrato del necessario, “Young Adult” (2011) meno celebrato del necessario, sulla sua versione di Evil Dead già sapete la mia, per assurdo trovo “United States of Tara” il suo lavoro più nelle mie corde (ma sospetto dello zampino del solito Spielberg), detto questo quando si è iniziato a parlare meno di lei e della narrativa attorno al suo personaggio, sono arrivati i titoli che ho apprezzato di più, anche se in qualche caso, uno in particolare, anche qui, sospetto lo zampino di Johnny Demme e poi ci sarebbe la questione “Jennifer’s Body” (2009).
Mi sono anche sforzato di rivederlo quel film per scriverne qualche tempo fa, ma niente, limite mio, non mi va proprio né su né giù, azzoppato da scelte di casting disponibili e alla moda alla sua uscita, fu prima massacrato e poi rivalutato prepotentemente nel corso degli anni, quella sua sotto trama LGBT+ (e tutte le altre lettere che ho dimenticato) ha chiarito fosse più moderno della sua data di uscita, però anche rivisto dopo perdonatemi, continua a sembrarmi pochissima roba, colpa mia di sicuro, ma a parte istinti pruriginosi, non ci trovo dentro molto altro, colpa del mio cromosoma Y? Probabile.
Eppure mi ha incuriosito l’ultima fatica scritta da Diablo Cody e diretto da Zelda Williams, che esordisce al cinema dopo molta televisione con questo soggetto che torna idealmente in zona “Jennifer’s Body”, tanto che la sceneggiatrice ci ha tenuto a precisarlo: nel caso interessasse a qualcuno, sono ambientati nello stesso universo.
Ancora una volta “Lisa Frankenstein” non ha incassato niente collezionando solo pernacchioni e critiche negative, lo dico fuori dai denti a scanso di equivoci, non sono il pubblico di riferimento per questa storia tanto quanto non lo sono per Barbie, giusto per fare un titolo grosso. Ero più curioso di vederlo che davvero interessato e per lo meno, non l’ho trovato sopravvalutato come “Jennifer’s Body”, continua la tendenza quindi, Diablo Cody mi piace di più quando sfoggia meno ansia da messaggio di fondo, e anche se sarò sempre più legato a roba analoga e più sanguigna come “Frankenhooker” (1990) di Frank Henenlotter, questo film se uscisse sulle piattaforme, potrebbe trovare il suo pubblico, d’altra parte piace quella roba da “poser” (espressione molto anni ’90) di “Mercoledì” su Netflix, a cui “Lisa Frankenstein” mangia gli spaghetti in testa, quindi perché no?
Siamo nella New Orleans in odore di Voodoo dell’anno 1989, la Lisa del titolo è un’adolescente (quindi eccentrica per sua stessa natura) fatta a forma di Kathryn Newton, come molte ragazze definite “strambe” alla sua età ha pochi amici e una situazione famigliare in salita, il rapporto con la nuova moglie di papà, la matrigna Janet (Carla Gugino) è complicata e a scuola come potete immaginare, va ancora peggio. Come in un pezzo di Alice Cooper, Lisa ama i morti e passa molto tempo sulla lapide di un adolescente defunto e sepolto un secolo prima con cui sente un legame, quasi un’infatuazione, peccato solo che sia morto stecchito da decenni. Per ora.
Una notte buia e tempestosa alla Snoopy e i fulmini riportano in vita la creatura (un ottimo Cole Sprouse che non pronuncia nemmeno una parola per tutto il film) che però per restare tra noi, ha bisogno di pezzi di ricambio come una vecchia Volkswagen, essere circondata da tutti questi soggetti vivi e sgradevoli, più un piccolo incidente domestico, mette in moto la catena di eventi che renderà la protagonista la novella versione femminile del protagonista (vivente) scritto da Mary Shelley.
Zelda Williams fa una scelta molto intelligente, invece di sfornare l’ennesimo film ambientato negli anni ’80 di plastica che esistono solo al cinema (o nelle serie Netflix), fa scontrare il grigiore di quel decennio (immaginate il 1988 di Donnie Darko) con le acconciature, le spalline larghe, i colori esagerati che ritroviamo tutti addosso a Lisa, che mentre colleziona pezzi per il suo amato si emancipa, cavalcando i canoni della commedia, con tanto di classicone del genere, la camminata a rallentatore nei corridoi del liceo o gli immancabili occhiali alla “Risky Bussines”.
Per certi versi lo scontro tra rappresentazioni sullo schermo degli anni ’80, diventa lo scontro di Lisa contro una società grigia di cui non si sente parte, nulla di originale ma reso bene dal punto di vista estetico, per questo sostengo che sulle piattaforme questo film farebbe furore, ma dove funziona meglio “Lisa Frankenstein” è nei rapporti tra personaggi. Tanto diversa dalla protagonista anche la sorella Taffy (Liza Soberano), in teoria un animale diverso, parte di un’altra classe sociale scolastica (le Cheerleader) di cui Lisa non fa parte, in pratica il loro legame tiene banco anche più di quello con la creatura, che a suo modo è, se non proprio un METAFORONE, una spinta al cambiamento per un film che nell’uso della fotografia e dei costumi, riporta in auge lo scontro tra un “freak” e il mondo che li circonda che è più Tim Burton degli ultimi dieci lavori di Burton, serie Netflix comprese.
Detto questo ribadisco, non sono il pubblico di riferimento per questa storia al femminile, ma ho un debole per le trame che prevedono dei disadattati, ne faccio parte quindi mi riconosco, inoltre “Lisa Frankenstein” a suo modo è più sovversivo del ben più famoso (o famigerato) “Jennifer’s Body”, quella nel finale rientrava nei ranghi, punendo il mostro femminile generato dalla trama perché tutto si poteva, ma non lasciarlo libero di vagare, in tal senso “Lisa Frankenstein” completa la trasformazione meglio, quindi non voglio dire di aver fatto la pace con Diablo Cody, quello proprio no, ma con il tempo trovo le sue idee più sensate, forse ha messo giudizio lei, forse da quando non scrive con il pennarellone a punta grossa le cose vanno meglio, sta di fatto che questo film ha il suo pubblico, è chiaro che non sia io, ma se mai sbarcherà su qualche piattaforma, non si beccherà i “click” di una cagata alla moda con Jenna Ortega, ma a qualcuno piacerà, di questo sono sicuro, valutate voi se fate parte di quella porzione di pubblico.
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