Come Bilbo ho una missione da portare a termine che avevo lasciato in sospeso da troppo tempo, il primo capitolo di Lo Hobbit è ancora un film che riesco a rivedere, malgrado le lungaggini infilate a forza da Jackson nella trama, ma il secondo capitolo è quello dove lo stiracchiamento allunga brodo non solo è manifesto, ma anche piuttosto urticante.
Il che è un peccato, perché è anche la porzione di trilogia (prequel) che contiene la mia scena preferita del romanzo di Tolkien, ovvero l’attraversamento del bosco Atro, un breve momento in cui Pietro Di Giacomo recupera in minima parte il suo passato da regista di Horror, applicandolo ai minacciosi ragni giganti che popolano il bosco. La scena inizia come un brutto viaggio lisergico, con i nani e Bilbo (Martino Uomolibero) che iniziano ad avere gli svarioni girando in tondo come quando il navigatore va in palla e ti fa svoltare sempre alla stessa rotonda, ma questa è anche la porzione di film dove la spada Pungolo viene battezzate e Martin Freeman si conferma la scelta migliore possibile per Bilbo.
Il suo odio quando perde l’Anello e si accanisce immotivatamente contro il baby ragno albino, mette subito in chiaro come il piccolo Hobbit abbia almeno intuito la grandezza del potere che si portava in tasca, ecco perché nel terzo film riuscirà a mantenere i piedoni (pelosi) per terra quando Thorin Scudodiquercia (Richard Armitage) perderà la testa, peccato che a quel punto anche Jackson aveva già seguito il destino del capo dei nani, con un terzo capitolo che è un vero disastro, di ritmo, di CGI invecchiata male, ma soprattutto di un’idea di base balorda, ovvero trasformare un romanzo di quattrocento pagine in una nuova trilogia, con l’ultimo capitolo dedicato ad una battaglia. Anzi, sappiate che se vi va, trovate il post dedicato all’ultimo film della trilogia dello Hobbit, in versione riveduta e corretta con qualche aggiunta.
Devo essere onesto, il bosco Atro nella mia testa di lettore era ben più spaventoso di come lo ha raccontato Jackson qui, forse un po’ la colpa è anche del famigerato formato a 48 fotogrammi al secondo scelto dal regista, che eviterà anche l’effetto sfarfallio, ma ha un effetto collaterale dannoso: anche i fondali reali risultano talmente piatti da passare per animazioni computerizzate. Ricordate quanto era bella la Nuova Zelanda sullo sfondo dei film de Il signore degli Anelli? Ecco scordatevela, qui sembra tutto realizzato davanti allo schermo verde anche quando non lo è, come un Episodio II qualunque.
Dove però “The Hobbit – The Desolation of Smaug” va a sbattere di faccia contro la volontà di Jackson di allungare il brodo, non è tanto nella lunga scena a casa del Mutapelle Beorn (classica scena che il vecchio PJ di un tempo, avrebbe tagliato senza pietà), quando nel reame boscoso degli Elfi, con il ritorno del tutto arbitrario di Orlando “palo” Bloom nei panni di un Legolas palesemente più vecchio rispetto alla trilogia originale (alla faccia degli Elfi immortali), che sta qui con i suoi insopportabile trascorsi paterni, a fare tira e molla con la grande invenzione di Jackson di questa trilogia, la facente funzione di Liv Tyler, ovvero l’Elfa silvana Tauriel, affidata ad una Evangeline Lilly tanto bella quando inutile, volete un consiglio? Ogni volta che entra in scena mandate avanti veloce, vi risparmierete l’atroce sotto trama amorosa (anche vagamente interraziale… degenerati! Cit.), tra lei e il nano Kili, il più bellino della compagnia visto che è l’unico interpretato da un Aidan Turner senza trucco, naso o ‘recchie di gomma, anche se con la sua storiella romantica è riuscito comunque a far incazzare i Tolkeniani duri e puri, già era difficile mandare giù l’amicizia tra Gimli e Legolas, ma ora anche la storia romantica tra razze che si sono sempre state sul gozzo, eh no Jackson! Ma sapete come sono i fan no? Impossibile farli contenti, qualcuno ancora rimpiange Tom Bombadil.
Anche la fuga dal reame boscoso di Endor degli Elfi nascosti dentro i barili è una delle parti più divertenti del libro di Tolkien, solo che qui Pietro Di Giacomo semplicemente sbraga, ma sbraga male! Dimostra lui stesso non solo di non aver capito la natura da favola di “Lo Hobbit”, ma più che altro di essere stato consumato dall’avidità, Gollum non ricordava più il sapore del pane, o il rumore del vento tra gli alberi, Jackson invece ebbro di potere ha pensato che per tornare ai fasti della sua tanto amata trilogia, bisognasse dare al pubblico ancora più Elfi salterini. Avete amato Legolas usare uno scudo come skate board lungo le scale del fosso di Helm? Bene, allora godrete a vederlo zompettare senza gravità sui barili!
Peccato che la sequenza sia indistinguibile da quelle scene di raccordo (non giocabili) nei viodeogames, il che se da una parte è un complimento, dall’altra proprio no, perché questa enorme caciara sembra una giostra di Gardaland che mette in chiaro quando Jackson sarebbe anche capacissimo di potare in scena grandi sequenze, ma di farne una sensata alla storia che ha per le mani non ha la minima voglia, alla faccia del regista che quando aveva un dubbio sul set di “Il signore degli Anelli”, tirava fuori una copia del romanzo, si rileggeva il capitolo e poi era nuovamente pronto a girare (storia vera).
I 161 minuti (della versione cinematografica, 186 in quella estesa, francamente sfiancante) si avvertono tutti perché la volontà di menare il can per l’aia è palese, Azog che si presenta alla corte del suo oscuro signore, oppure tutta la parte di Gandalf (Ian McKellen aggrappato al ruolo della vita) contro il Negromante sarebbe anche spettacolare, se non fosse un pretesto per ricordare al pubblico che si, questo è davvero il prequel della trilogia che avete tanto amato! Sequenze tanto ben realizzate quanto chiaro segnale del fatto che il cuore Jackson, lo avesse lasciato nella prima trilogia, oppure su Skull Island, dove la passione trasudava da ognuno dei suoi 24 fotogrammi al secondo, qui è solo lavoro, un lavoro che Jackson non voleva nemmeno fare come abbiamo visto la scorsa settimana.
Ecco perché tutta la parte nella città del lago risulta visivamente incredibile (i lastroni di ghiaccio che galleggiano fanno ancora venire voglia di avvolgersi nel cappotto, anche seduti comodi in poltrona), però anche il personaggio dell’arciere Bard (Luke Evans) è caricato di un’enfasi forse non necessaria, uno dei tanti aspiranti Aragorn di una storia che raccontata con questa ricerca dell’epica a tutti i costi, mostra tutti i suoi limiti, semplicemente perché per “Lo Hobbit”, le intenzioni di Tolkien erano molto diverse rispetto a “Il Signore degli Anelli”.
Al pari del bosco Atro, uno altro dei momenti chiave del romanzo è l’incontro tra Bilbo e l’avido drago Smaug, con il suo culone squamoso parcheggiato sull’oro dei nani e nessuna intenzione di schiodarsi. Fa sorridere il fatto che sentire Martino Uomolibero, cercare di intortare a parole il drago che in originale parla con la vociona di Benedict Cumberbatch, di fatto risulta essere un modo sottile di rimettere insieme la coppia di Sherlock. Ci va bene che il film è solo del 2013 e gli effetti speciali digitali della Weta non hanno ancora cominciato a mostrare le prime rughe, purtroppo ancora una volta l’ambizione epica di Jackson di far contento il proprio pubblico, fa a pugni con la storia originale di Tolkien.
In una favola ha senso che il drago turlupinato (stamattina ho fatto colazione con un dizionario) sfoghi la sua rabbia contro gli umani della città del lago, quando sarebbe stato molto più logico incazzarsi con Bilbo e trasformarlo in un novello Goldfinger con un’alitata rovente su tutto quell’oro, invece Jackson rimanda lo scontro finale con il drago al capitolo successivo, assicurandosi così la nuova tanto agognata trilogia a cui bramava a tutti i costi. Il fatto che poi Smaug venga ridotto ai minimi termini in cinque minuti netti (di numero) per lasciare spazio ad un terzo infinito capitolo di immotivata battaglia, è la vera misura di quanto il potere abbia logorato quel rubicondo Hobbit dalla Nuova Zelanda, il cui cinema era prima di tutto gioia, dai suoi primi horror fino alla Terra di Mezzo, che brutta fine.
A ben guardare è successo anche a tanti altri registi nella storia del cinema, iniziare a pensare più come produttori che come artisti, penso che la trilogia dello Hobbit vada calando di film in film, ma per i primi due, malgrado gli evidenti problemi strutturali, riesco a comprendere perché ancora oggi abbia i suoi estimatori, ma il terzo capitolo proprio no, quello resta il manifesto dell’ingordigia di Jackson, che ha dedicato la vita così tanto a Tolkien da essere diventato uno dei suoi personaggi, basta che a parlare di questo film mi cala la desolazione, altro che Smaug!
Per il disastro dell’ultimo capitolo invece, vi rimando al nuovo scintillante post riveduto e corretto dedicato a La battaglia delle cinque armate.
Sepolto in precedenza giovedì 1 settembre 2022
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