Non posso stare a lungo senza una rubrica monografica dedicata ad un regista e da tempo sentivo l’esigenza di un bel po’ di sano Horror, la mia occasione per rendere omaggio ad uno dei più grandi registi del genere più sanguinolento. Ecco perché per alcuni venerdì di fila, questa Bara prenderà ufficialmente la residenza al numero 7 di… Craven Road!
Passare nel giro di (relativamente) poco tempo da un divo del muto come Walter Hill a Wes Craven è un discreto salto nel vuoto, perché il regista di Cleveland a differenza di Gualtiero Collina ha sempre avuto la lingua molto lunga e una discreta propensione naturale a parlare di se stesso e del suo cinema, cambiando di volta in volta versione in base al tempo e ai ricordi. Eppure, cosa volete dirgli? Non credo esista un altro regista con una gavetta tanto bizzarra quanto quella dello zio Wes.
Crescere in provincia prevede parecchi problemi logistici, ma forse restare a distanza dai servizi (e le tentazioni) della città, aiuta ad avere tanto di quel tempo libero da utilizzare per coltivare le proprie passioni. George A. Romero è cresciuto della grigia Pittsburgh, città industriale resa grigia dalle fabbriche di pneumatici e, girando nei fine settimane con gli amici, ha portato la rivoluzione al cinema reinventando la figura del morto vivente come perfetta metafora della nostra società, ma è abbastanza risaputo che Pittsburgh nella classifica delle città più brutte d’America arriva sempre seconda, perché è impossibile battere Cleveland.
Cleveland, anche nota come “The mistake on the lake”, l’errore sul lago, un posto che per avere un po’ di gloria (solo sportiva) ha dovuto attendere LeBron James, anche lui comunque in fuga tra posti ben più assolati tipo Miami e Los Angeles. Dev’essere qui che Wes Craven ha iniziato ad accumulare il gusto per l’orrido che nel suo cinema non è mai mancato, ma anche la formazione familiare ha giocato un ruolo fondamentale.
Cresciuto in una famiglia Battista, Wes Craven per tutta l’infanzia e buona parte dell’adolescenza non ha mai visto un film. Stando alle sue (numerose) interviste, a casa Craven i film erano roba vietata, qualunque film, figuriamoci gli horror per cui Wes non ha mai davvero provato interesse, fino al momento in cui si è ritrovato ad essere una delle voci più interessanti del panorama Horror, ma andiamo per gradi, perché una buona famiglia prevede una buona istruzione e quella di Craven è ottima: una laurea in Inglese e psicologia al college di Wheaton nell’Illinois e un master in filosofia e scrittura presso l’università Johns Hopkins di Baltimora.
Con un curriculum del genere Wes Craven segue tutto l’iter classico, diventando insegnante di Inglese al Westminster College e successivamente professore di discipline umanistiche alla Clarkson University. Si sposa, mette al mondo un paio di pargoli e… Insomma, sembrava ormai ben avviato sui binari di una vita di tutto rispetto da stimato professore universitario fino al giorno in cui scopre finalmente il cinema e, per dirla come diremmo noi ragazzi di provincia, ci va sotto bevendo dall’idrante.
Si compra una macchina da presa a 16mm per girare un po’ di tutto mentre consuma film uno via l’altro recuperando il tempo perso, il giorno in cui si è presentato dal rettore dell’università per consegnare le dimissioni dicendo che voleva fare del cinema, gli hanno riso in faccia (storia vera). Ma zio Wes è motivato e matto in parti uguali, non sa niente di cinema, ma ha un cuore che scalpita per imparare e per farlo raggiunge l’amico Steve Chapin (fratello del cantante folk Harry Chapin) a New York e trova un lavoro nella società di produzione cinematografica con l’amico, il suo primo impiego? Fattorino, pagato 70 dollari la settimana (storia vera).
Eppure, Wes Craven ormai ha il fuoco del cinema che gli arde nelle vene e osserva tutto, più osserva più impara e si guadagna i primi lavoretti come montatore sì, ma di film porno! Lui, lo psicologo con laurea in lettere monta (ah-ah) e finisce anche a dirigere alcuni film porno usando uno pseudonimo, ma la svolta arriva e si chiama Sean S. Cunningham.
Il futuro regista di Venerdì 13 propone a Craven di girare un Horror, se accetta ci sono sul tavolo poco meno di 90.000 fogli verdi con sopra le facce di altrettanti presidenti defunti e la possibilità che il film una volta terminato, verrà proiettato in pochi cinema, il che lascia comunque la libertà creativa per poter fare quello che si desidera e Wes Craven desidera esagerare dando fondo a tutta la sua furia cinematografica.
Qui la situazione diventa molto simile a quella del primo western diretto da Sergio Leone, però per certi versi amplificata: un regista che si lancia in un genere per lui nuovo, una produzione scapestrata con un pugno di attori e ancora meno dollari e la prospettiva per cui “tanto chi lo vedrà mai un filmetto così?”. Leone ha copiato da Akira Kurosawa trovando la sua “voce” da regista nella testa, Wes Craven pesca a mani basse da Ingmar Bergman, il suo film cambia diversi titoli nel corso della produzione e poi esce con quello definitivo di “The Last House on the Left” di fatto è un remake non autorizzato di La fontana della vergine, inutile girarci troppo attorno, Lucius lo ha raccontato benissimo nel suo post che vi consiglio caldamente.
Con il tempo (e il successo) Wes Craven ha un po’ preso le distanze dal film, ma siccome zio Wessy ha sempre avuto la lingua piuttosto lunga e una certa propensione naturale a imbellettare i ricordi degli eventi, nel tempo ha cercato anche di accampare spiegazioni sul fatto che la violenza del film fosse un modo per riflettere sugli orrori della guerra del Vietnam (di cui mancano anche i minimi riferimenti nella pellicola), oppure che, in fondo, l’ispirazione vera fosse la comune fonte, ovvero la leggenda svedese alla base anche di La fontana della vergine, ma non cambia il fatto che nei titoli di testa del film non ci sono riferimenti né al folclore svedese né tanto meno a Ingmar Bergman, un’appropriazione indebita comprensibile per una produzione spiantata che non avrebbe potuto comunque pagare i diritti, ma almeno un ringraziamento a Bergman nei titoli di coda sarebbe stato più onesto.
Eppure, Wes Craven ha bisogno proprio di questa storia per esplodere in tutta la sua potenza e se la sceneggiatrice Ulla Isaksson aveva aggiunto violenza alla leggenda originale e Bergman l’aveva diretta con un realismo in grado di inchiodarti allo schermo, Wes Craven porta tutto ad un altro livello, in un’epoca post 1968 che non può più essere innocente e candida come la Karin di Bergman.
“The Last House on the Left” con quella sua aria da film quasi amatoriale, inizia con le protagoniste pronte ad andare in città a vedere uno spettacolo grondante sangue e continua con i genitori della protagonista Mary Collingwood (Sandra Cassel) che parlano di assenza di reggiseni e relativo contenuto di essi, uno spirito sessantottino coronato dalla medaglietta della pace che viene regalata alla ragazza, insieme all’augurio di stare attenta in quella città brutta sporca e cattiva.
Wes Craven dà fondo a tutte le sue origini di Battista di provincia, per un film che definire bacchettone e conservatore sarebbe ampiamente riduttivo, ma lo fa con lo spirito critico del professore laureato in psicologia che capisce quello che tante signore Lovejoy (e benpensanti) ancora oggi non hanno capito: i film dell’orrore sono una finestra aperta sulle parti peggiori della società, ma soprattutto dell’animo umano, Craven arriva a definirli dei momenti di “follia tollerabile” che permettono alla gente di dare libero sfogo a tutta la pazzia e rabbia che normalmente reprimiamo. Per questo il cinema di Craven ha sempre scavato nell’animo umano e nelle sue paure più profonde, uno psicologo, un filosofo colto prestato al cinema del sangue finto e della budella esposte.
Secondo voi qual è il Paese che se ha l’occasione di fiutare qualcosa di anche solo vagamente bacchettone, ci dà dentro mettendoci sopra il carico? Vi do un indizio: è strambo e fatto a forma di scarpa. Infatti in Italia “L’ultima casa a sinistra” esce tagliato di un minuto rispetto agli 81 della versione americana (già censurata, 90 in quella integrale) con una vistosa scritta rossa iniziale, una pacchianata che recita deliri per cui questo film viene proiettato nelle università americane per spiegare ai giovani gli effetti negativi del sesso, della violenza e della droga. Una cagata totale che solo qui in Italia potevamo inventarci, che fa leggerissimamente a cazzotti con la locandina italiana del film, ripiena di frasi ad effetto («Se non volete svenire continuate a ripetervi: È solo un film, è solo un film»).
Ma il contributo italiano all’edizione nostrana del titolo non si è limitato a questo, guardando il film doppiato, ci troverete un vocabolario adorabilmente fuori moda pieno di “Squinzie” e “Trampoli” (per indicare le gambe), ma troverete completamente piallato il rapporto di parentela tra il capo della banda, il perverso Krug Stillo (David Hess) e Junior (Marc Sheffler) che in originale sono padre e figlio, mentre nella versione italiana semplici complici, trovata che fa perdere quasi del tutto l’effetto freudiano di fondo al loro ultimo scontro.
Ma dimenticandoci per un attimo dei danni fatti dalla versione italiana della pellicola, la storia scritta e diretta da Craven ricalca in tutto e per tutto La fontana della vergine, solo che le ragazze non attraversano un bosco, ma la giungla di cemento della città e non di certo per portare ceri alla vicina chiesa, ma per comprarsi un po’ d’erba.
Il numero di malviventi aumenta, contando tra le sue fila anche una donna, Sadie (Jeramie Rain) dovrebbe essere la quota della donna selvaggia che nel film di Bergman era rappresentata decisamente meglio dalla bella Ingeri. Ma in generale a Craven non interessa minimamente farci provare empatia per gli aggressori che sono uno più viscido e stereotipato dell’altro, a partire dal sempre “su di giri” Fred “Faina” Podowski (Fred J. Lincoln).
Mary e la sua amica vengono prese e trascinate nella fuga dei criminali fino al vicino bosco (per ricucire la distanza con il film di Bergman) ed è qui che “The Last House on the Left” e Wes Craven non prendono più prigionieri. Il modo naturale, quasi documentaristico che il regista sceglie per mostrare la violenza, va di pari passo con l’efferatezza delle immagini, tanto che all’uscita del film, molti non sono riusciti a capire se si trattava di un horror semplicemente troppo violento anche per la media del genere, oppure un’opera arguta in grado di riflettere sulla violenza stessa nei film.
Sta di fatto che ancora oggi in Inghilterra il film non può essere proiettato in nessun cinema (storia vera), dalla sua uscita il titolo è ancora nelle liste dei “Video Nasty” malgrado con il tempo sia stato rivalutato e riconosciuto come un classico. Il massimo della concessione fatta al popolo di Albione è stata l’edizione in DVD del 2003, con i 31 secondi più forti del film, presenti solo in forma di fotografie, nei contenuti speciali del disco.
Ricalcando in tutto e per tutto la storia del film di Bergman (anche l’omicidio di una delle ragazze avvenuto di spalle e in prossimità di una fonte d’acqua), Wes Craven trova la sua voce come regista e alza il livello della radio quando si tratta di violenza. Qui non siamo davanti allo stupro inequivocabile, ma tutto sommato breve diretto da Bergman, le due ragazze passano attraverso un martirio fatto di violenze sessuali, soprusi, umiliazioni e violenze fisiche davvero brutali, la scena del nome inciso a coltellate sul petto fa ancora friggere noi spettatori comodamente in poltrona oggi, figuriamoci nel 1972.
Wes Craven fa alzare così in alto l’asticella della violenza in un film di exploitation, portando il genere “Rape & Revenge” ad un altro livello, non è un caso se il più famoso titolo di questa categoria, “Non violentate Jennifer” (I Spit on Your Grave) uscito nel 1978, abbia dovuto essere ancora più crudo e realistico. Zio Wessy è arrivato in città, le cose non saranno mai più le stesse.
Dopo averci annodato così bene le budella con la parte “Rape”, Craven fa proseguire la sua storia con l’inevitabile “Revenge” e se i vagabondi di Bargman finivano a casa dei genitori di Karin, qui accade lo stesso e Krug e soci finiscono a cena dai coniugi Collingwood. Pur continuando a replicare lo schema, Craven qui inizia a dire la sua sull’argomento, ma prima trattiamo due cosette che mi stanno a cuore, nomi e facce note.
Penso che vi sarà caduto l’occhio sul nome del capo dei violentatori, uno di nome Krug in un post su Craven non può che far pensare al suo personaggio più famoso, Kruger (inteso come Freddy). Mettiamola così: il nome del celebre assassino sfigurato è un argomento che mi tengo nel taschino per quando sarà il momento (non vedo l’ora!), ma diciamo che l’inconscio di Craven stava lavorando forte, oppure era già orientato al suo futuro cinematografico. Tra le cose nell’immediato che, invece, stonano parecchio nel film, ogni volta che vado a rivedermelo (mai a cuore leggerlo visto il contenuto) trovo lo sceriffo pasticcione e il suo aiutante tontolone che ammazzano il ritmo ed entrano ogni volta in scena con una musichina del tutto fuori luogo stile episodio di “Hazzard”, proprio non li sopporto. Craven ha dovuto inserirli per provare a stemperare l’atmosfera pesante della sua pellicola, ma sono l’equivalente di premere il freno con entrambi i piedi, ammazzano proprio il ritmo del film e nemmeno il fatto che il vice sia interpretato dal mitico cattivo maestro Martin Kove (ben prima di diventare famoso con Karate Kid) riesce a farmeli apprezzare di più.
Se Bergman ci mostrava un po’ dell’umanità del più giovane dei suoi malviventi, facendoci vedere il ragazzino stare male davanti alla tavola piena di cibo, Wes Craven per Junior opta per la crisi d’astinenza e se Bergman puntava tutto sullo scontro interno alla civiltà svedese tra Paganesimo e Cattolicesimo, Craven si gioca i suoi studi di psicologia raccontandoci come con la giusta spinta (verso il basso), anche i borghesi signore e signora Collingwood possono abbracciare la belva dentro di loro, rispondendo alla violenza con altra violenza, proprio loro che si preoccupavano per lo spettacolo troppo truculento che la loro figliola voleva andare a vedere laggiù in città.
Estelle Collingwood (Cynthia Carr) sfrutta le arti femminili per attirare fuori di casa l’arrapatissimo Faina e poi con la promessa di un po’ di sesso orale, gli porta via i gioielli di famiglia (e qui si vede che Craven era sicuramente un freudiano). Mentre il Dott. John Collingwood (Gaylord St. James) opera utilizzando un genere di strumento molto meno raffinato del solito: una motosega.
Nell’ultima scena persino lo sceriffo e il suo vice risultano utili (nel loro essere inutili), arrivano a casa dei Collingwood quando ormai è tutto finito, primi testimoni oculari della tesi del professor Craven: spingi un uomo al limite e quello tornerà a tirare fuori la belva che si porta dentro. Un tema che diventerà caro a zio Wes e che tonerà anche nel resto della sua filmografia e di questa rubrica.
“The Last House on the Left” fa parlare di sé così tanto che i piccoli cinema che inizialmente dovevano proiettarlo non fanno più fronte alla richiesta del pubblico di vedere il film, in un attimo l’ex professore, diventato fattorino e regista di film porno, ora é un regista horror, per altro uno dei più efferati in circolazione e non sono in tanti i registi (di tutti i generi cinematografici, forse anche quelle porno) ad aver azzeccato un titolo di culto alla loro prima regia, molti di questi passano il resto della carriera a sentirsi fare i confronti con il loro film d’esordio, ma non Craven, per lui è stato solo l’inizio.
“L’ultima casa a sinistra” ha fatto scuola, abbiamo avuto un rifacimento italiano “L’ultimo treno della notte” (1975) di Aldo Lado e un remake Yankee uscito nel 2009 e per altro prodotto dallo stesso Craven. Il primo è un titolo di culto che porta avanti la lezione di zio Wes, il secondo una roba di rara inutilità che non merita di essere ricordato, merita, invece, il post del Zinefilo, in cui trovate anche tutti i figli e figliastri del film di Craven (ma soprattutto di Bergman).
Per gli altri film di Wes Craven ci vediamo tra sette giorni, come sempre al numero 7 di Craven Road. Citofonare ore pasti! Intanto, non perdetevi i crediti Italiani del film, direttamente dalle pagine del Zinefilo!
Sepolto in precedenza venerdì 14 febbraio 2020
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