Spero che siate in forma e che abbiate scaldato i muscoli, perché oggi si corre, si corre a perdifiato nel nuovo capitolo della rubrica… Macho Mann!
Dove si riconosce l’autore? Quello vero, nel film su commissione, lo ripeto spesso. Per certi versi, potremmo dire che “L’ultimo dei Mohicani” è stato il film su commissione di Michael Mann, perché rientra perfettamente nel grande slancio di popolarità che il cinema Western ha cavalcato (ah-ah) negli anni ’90, dopo il trionfo di Balla coi lupi.
Proprio questa rinnovata popolarità ha permesso a Michael Mann di ritrovarsi alla regia del suo primo film in costume, eppure alle sue condizioni, visto che il regista di Chicago che si è sempre mosso agilmente tra cinema e televisione, ha sempre saputo prendere il meglio senza doversi adagiare per forza sulle logiche di Hollywood, anzi, come vedremo questa settimana e la prossima, in qualche modo piegando lo star system alla sua idea di cinema. Dopo essere stato così legato all’estetica degli anni ’80, il decennio successivo Michael Mann ha rivolto il suo sguardo altrove, in questo caso al passato del suo Paese, ovviamente dando sempre potere alle immagini.
Già, perché proprio come Michele Uommo (che lo ha dichiarato più volte), la prima volta che ho letto il romanzo originale di James Fenimore Cooper del 1826, l’ho trovato una bella delusione, strano perché aveva dentro tutta la frontiera americana, i Nativi e i moschetti ad avancarica con cui ero già abbondantemente in fissa fin da bambino, ma i tanti inseguimenti della storia avvengono tutti nel buio delle caverne, una scelta che è stata ignorata dai numerosi adattamenti della storia che nel corso degli anni non sono mancati, senza contare gli sceneggiati per il piccolo schermo, il film di Mann è il quinto adattamento cinematografico del romanzo che il regista di Chicago ha riadattato alla sua maniera scrivendo la sceneggiatura a quattro mani insieme a Christopher Crowe che, per altro, aveva già collaborato con lui ai tempi di Miami Vice.
Sarà che quando ho letto il libro da bambino avevo già visto almeno un paio di volte il film di Mann, ma l’ho sempre trovato un passo indietro rispetto alla sua versione, solo in vista di questa rubrica e dopo aver fatto i compiti ho capito il perché. Il nostro Michele Uommo ha dichiarato che quando vide l’adattamento del 1936 diretto George B. Seitz, rimase folgorato da quel western in 16mm, pieno di nativi e giubbe rosse, ma soprattutto, dalla drammatica scena del suicidio di una delle due sorelle, infatti “The Last of the Mohicans” nella versione di Mann più che un semplice adattamento del romanzo, risulta essere quasi un rifacimento del film del 1936 che da noi in uno strambo Paese a forma di scarpa è uscito con un titolo che oggi farebbe storcere più di un naso, “Il re dei pellirosse”.
Il romanzo di Cooper originale è diventato un classico della letteratura Americana, i nostri cugini Yankee leggono tra i banchi di scuola di Chingachgook, Occhio di Falco e Uncas come noi leggiamo di Don Abbondio, Lucia e Renzo (ad ognuno il suo) perché quel libro aveva tutto quello che serve per celebrare al meglio il passato remoto di un Paese comunque giovane, oltre ad un’infinità di inseguimenti al buio nelle caverne, si parla dello spirito americano, della difficile convivenza e si celebrano i Nativi, i veri Americani in via di estinzione attraverso gli occhi della tribù dei Mohicani, dal romanzo Mann pesca quasi esclusivamente questi concetti chiave, il resto da vero uomo di cinema, lo pesca in parte dall’adattamento del 1920 (dove era presente la scena di protagonista, che uccide per pietà un uomo condannato a morte) e quasi tutto dal film del 1936 che visto dopo “The Last of the Mohicans”, lo ammetto, fa quasi tenerezza.
Randolph Scott, conciato come una sorta di Davy Crockett con tanto di cappello con procione sulla capoccia, non sembra per niente un bianco cresciuto dai Nativi che indossano i classici costumi appioppati a questo popolo in centinaia di Western, l’azione e gli inseguimenti non mancano, ma è il tono fin troppo leggero a risultare meno coinvolgente del romanzo, inoltre, il finale al limite del reazionario resta inaccettabile, con il protagonista che si piega e si arruola tra le fila degli Inglesi, no sul serio di cosa stiamo parlando? Anche più delle ben poco cinematografiche caverne, questa è la parte che sono felice che Michael Mann abbia fatto sparire.
“L’ultimo dei Mohicani” per Michael Mann diventa l’occasione per portare avanti la sua poetica, all’interno di un film in costume che per un maniaco dei dettagli come lui è di fatto, un invito a correre fatto ad un gazzella, sono cresciuto guardando un sacco di Western classici e leggendo “Il selvaggio West” e gli allegati sulle abitudini di vita delle tribù dei nativi, la prima volta che vidi questo film sulla tv di casa mia (ormai trent’anni fa visto che proprio quest’anno si celebra il suo compleanno) rimasi folgorato, mi colpì in mezzo agli occhi, per la prima volta vidi in un film tribù spesso ignorate da Hollywood, oltre ai Mohicani del titolo anche gli Uroni e i Mohawk, anzi, credo che la popolarità di questo film (malgrado tutto, semi ignorato dall’Accademy, come quasi tutta la filmografia di Mann, prima o poi qualcuno dovrà rendere conto di questo) abbia contribuito alla confusione per cui la famosa cresta sarebbe da Mohicano nella credenza popolare, anche se basterebbe guardarlo per capire che non è affatto così, un film che per essere una concessione al cinema “commerciale” (concetto che odio, ma è giusto per capirci), rappresenta uno dei titoli ideali per fare la conoscenza della poetica di Michele Uommo.
Dico sempre che i film d’avventura sono quasi un genere a parte, anche perché rappresentano un enorme ombrello che il più delle volte copre svariate tipologie di film, quasi un genere archetipico che se sei in grado di portare al cinema, nove volte su dieci non solo farai un gran film, ma ne farai uno destinato all’immortalità, ci è riuscito Spielberg con Raiders e anni dopo Michael Mann con “L’ultimo dei Mohicani” che per me fa parte di quella manciata di film perfetti che potrei guardare una volta al mese senza stancarmi mai o peggio, come facevo da bambino, anche a rotazione due o tre volte di fila, tempo di riavvolgere il VHS, tutto questo per dirvi che ho deciso di lanciarmi in una rubrica su Mann anche solo per festeggiare i primi trent’anni di questo film e per accoglierlo finalmente tra i Classidy!
Tra romanzo, svariati adattamenti e i numerosi (un tempo) passaggi televisivi di questo film, mi auguro che la trama la conosciate tutti, per quei due cresciuti tra i Mohicani su Marte a grandi linee Mann ci porta nel 1757, gli Inglesi sono in lotta con l’esercito francese per il dominio delle colonie nel nuovo mondo, tanto da arruolare coloni e Nativi per ricevere supporto. Chi cercherà di restare fuori da queste logiche (almeno per un po’) sono i Mohicani Chingachgook (Russell Means) e suo figlio Uncas (Eric Schweig), ma a completare il trio ci pensa il secondo figlio adottivo, un bianco di nome Occhio di Falco (no, non quello, parlo di Daniel Day-Lewis che per calarsi nel ruolo ha vissuto in una tenda nel cortile di casa per tre mesi, storia vera), finiti in mezzo ad un’imboscata i danni delle forze britanniche, il trio di corridori (ben prima di Aragorn, Legolas e Gimli, almeno cinematograficamente parlando) salvano le figlie del generale inglese e nel tragitto per scortarle al vicino forte, ovviamente cupido scocca la sua freccia, comunque meglio di quella di un Urone, no?
Nel mezzo metteteci un rampante ufficiale inglese, il Maggiore Duncan Heyward (Steven Waddington) che viene parcheggiato in “Friendzone” dalla bella figlia del generale, Cora Munro (quella meraviglia di Madeleine Stowe così con questo film completo la trilogia Stowe della bellezza su schermo) personaggio a cui Mann ha invertito il nome con la sorella rispetto al libro, per restare fedele alla versione cinematografica del 1936 che lo aveva tanto colpito, infatti anche qui la sorella minore si chiama Alice ed è interpretata dalla bionda Jodhi May.
A questo punto, però, è fondamentale ricordare l’antagonista, perché se azzecchi il cattivo hai già metà della storia in cassaforte, Mann lo sa e per il vendicativo Magua, sceglie uno degli idoli di Casa Cassidy ovvero quel Wes Studi, lanciato proprio da Costner e reso immortale da Walter Hill. Per certi versi, Magua è un personaggio tragico, disposto ad annullarsi per ottenere la sua vendetta, tutti i personaggi di “The Last of the Mohicans” sono Manniani al 100%, ma questo cattivo persegue con ossessione il suo obbiettivo come qualunque degli antieroi del regista di Chicago, nascondendo i suoi sentimenti dietro il volto di pietra di Wes Studi che offre una prova che vorrei sbattere in faccia a tutti quelli che pensano che l’unica misura del talento di un attore sia la famigerata “espressività”.
Di fatto, “L’ultimo dei Mohicani” è composto da numerosi inseguimenti, tenuti insieme da una solida trama che caratterizza al meglio i personaggi e serve ad alimentare l’azione dando motivazioni ai protagonisti, come sostiene Pier Maria Bocchi nel suo fondamentale saggio su Michael Mann, “The Last of the Mohicans” è un film circolare, perché inizia con una corsa frenetica e termina con un’altra corsa contro il tempo per i protagonisti (uno dei temi portanti della poetica Manniana), in 108 minuti che percepiti paiono sempre meno della metà, i protagonisti passano dal fondo della foresta al picco di una montagna, perché lo sguardo, l’atto di guardare per gli eroi Manniani è fondamentale, in un film che procede verso l’altro, i protagonisti da lassù potranno avere un punto di vista privilegiato sul sorgere di un nuovo mondo, quello di cui alcuni di loro non faranno più parte, perché come accadrà in Heat, nel mezzo ci sarà un frenetico “gioco della coppie” tra personaggi intenti ad inseguirsi, Magua con il Colonnello Edmund Munro, Occhio di Falco con Cora, Uncas con Alice, ma anche Chingachgook con Magua in quel duello finale appena coinvolgente, ma giusto un filino.
Quando vi dico che i primi cinque minuti di un film ne determinano tutto l’andamento è a titoli come “The Last of the Mohicans” a cui penso, perché il trio di protagonisti entra in scena già correndo contro il tempo, intenti a lanciarsi moschetti in quella che in corsa (in questo film tutto avviene di corsa, anche più che in La corsa di Jericho) scopriremo essere una battuta di caccia che termina con uno sparo che mette fine alla vita di un cervo, ma anche alla musica, perché Occhio di Falco rende onore alla creatura catturata, ma Mann rende onore al cinema.
Lo fa con ogni elemento scenico, la sua maniacale cura qui viene applicata ad ogni dettaglio, per ricreare alla perfezione il 1757, il regista di Chicago è andato a ristudiarsi vecchi manuali del diciottesimo secolo sul combattimento con il Tomahawk oppure sulle traiettorie dei cannoni, infatti questo film è l’idea di pornografia come la potrebbe intendere uno come Alessandro Barbero.
Certo, avere un genio come direttore dalla fotografia aiuta, infatti Dante Spinotti avrà anche creato il “Blu Manniano” in Manhunter, ma a mio avviso in questo film si supera, ogni elemento è a fuoco anche nel fitto della foresta, il trio di protagonisti sembrano parte integrante dell’ambiente in cui vivono e conoscono così bene, ma anche l’acqua, da sempre elemento salvifico chiave per Mann qui viene dominata alla grande dal lavoro di Spinotti, fotografare inseguimenti e l’intenso primo piano di Daniele Giorno-Luigi quando urla a Madeleine Stowe di restare viva malgrado tutto, perché lui la troverà (praticamente una dichiarazione d’amore assoluto, senza nemmeno una parola melensa), con la luce riflessa delle cascata dietro per chiunque sarebbe un incubo logistico, ma non per Spinotti che trasforma ogni inquadratura di questo film in un quadro, anche quando la sfida sembrava impossibile, infatti Mann ha chiesto al suo fidato direttore della fotografia «La più bella inquadratura della tua carriera», sul primo piano di Jodhi May prima del suo volo nel vuoto, Spinotti appeso ad una corda di sicurezza, quella scena l’ha girata di suo pugno macchina da presa in spalla (storia vera).
Michael Mann è un direttore d’orchestra impeccabile, l’uso delle musiche del film è straordinario, la colonna sonora del film firmata da Trevor Jones e Randy Edelman sostiene e dà forza alle immagini, i pezzi da loro composti sono presenti in tutte le mie playlist, purtroppo anche quella che utilizzo quando vado a correre, dico purtroppo perché quando parte in cuffia, istintivamente mi sento sulla pista delle figlie di capello grigio e devo trattenermi da non abbassarmi per raccogliere al volo moschetti immaginari per farmi strada sparando (storia vera), non oso pensare visto da fuori mentre corro che razza di spettacolo io possa offrire agli ignari passanti.
Malgrado Occhio di Falco sia il più ciarliero degli eroi Manniani, autore di almeno un paio di “Frasi maschie” notevoli (una su tutte? «Un giorno o l’altro io e lei avremmo una seria discussione maggiore») “The Last of the Mohicans” è il trionfo dei sentimenti non espressi a parole, ma con i fatti, il linguaggio del corpo che Mann chiede ai suoi attori è straordinario, vi ho parlato della prova magnetica di Wes Studi, ma rincaro la dose, perché il corteggiamento tra Occhio di Falco e Cora è puro Mann al 100%.
Tra i due basta uno sguardo, con Occhio di Falco che quasi invita Cora a sostenere il suo, perché lo sguardo nel cinema di Mann è tutto e grazie a quell’inquadratura che mette Madeleine Stowe al centro dello schermo, come spettatori abbiamo già capito i sentimenti dei personaggi che sembrano parlare d’altro, ma in realtà si sono già detti tutto, perché senza girarci troppo attorno, registi più romantici di Michele Uommo al cinema non ne troverete tanti, anche se il suo è il romanticismo degli uomini, quello per cui si dimostra, non si parla, quello dove i sentimenti bruciano come fiamma sotto la cenere di una facciata, un’espressione apparentemente distaccata che, però, comunica più di mille parole, come quando l’ultimo sguardo di Alice al suo Uncas o l’ultimo sguardo terrorizzato, ma fiero della giovane a Magua, prima di scegliere il vuoto alla sua mano tesa.
Potrei stare qui due giorni a descrivervi tutte le scelte di regia di Mann, sparse lungo i 108 minuti del film, perché come dicevo lassù “L’ultimo dei Mohicani” è un film perfetto che mi ha regalato quintali di “citazioni involontarie” (ogni tanto imito Magua con la sua volontà di strappare cuori dal petto ai suoi nemici, i miei colleghi lo sanno e quando mi sentono girano all’largo, storia vera), ma ci tengo a sottolineare come un film che inizia con una scena d’inseguimento a piedi magistrale, sia in grado di continuare con un’imboscata girata come si gira in paradiso, si possa giocare un realistico assedio (e successiva trattativa per la resa), prendendo forza dalle dinamiche tra i personaggi che forti di uno “Show, don’t tell” da manuale del cinema, agiscono più che parlare, dimostrano più che promettere, per questo ogni parola è importante, perché se uno come Occhio di Falco può lasciare indietro i suoi cari, sapendo che il loro posto è tra le stelle, non ha certo tempo di sprecare parole in un film che è una lunga corsa a perdifiato.
Michael Mann sa imprimere l’epica al racconto, quella che mancava totalmente nella versione del 1936, il suo film è un capolavoro che procede verso l’alto anche in crescendo, l’ultima corsa disperata, con il precipizio da un lato e il nemico di fronte è un manuale di regia e montaggio che chiunque volesse fare cinema d’azione (o d’avventura), dovrebbe studiare a memoria, ogni stacco anziché togliere dinamismo alla scena lo aggiunge, dopo aver affinato per anni uno stile che da qualche critico poco accorto è stato equiparato a quello di qualche videoclipparo da strapazzo, Mann qui dimostra che la musica nel suo cinema è potente quanto le immagini e vale più di ogni parola. Infatti, ogni stacco di quella lunga corsa, è in perfetta armonia con la musica, come se fosse una coreografia che amplifica la potenza della scena, un crescendo che raggiungiamo idealmente anche noi spettatori e che trova il suo apice nello scontro tra Chingachgook e Magua che, a quel punto della storia, dopo tutto quello che i personaggi hanno affrontato e perso, risulta carico di un pathos che più coinvolgente di così, raramente troverete ancora al cinema. Personalmente, ogni volta che rivedo quella scena penso che se dovessi spiegare cos’è il cinema ad uno di quelli che cresciuti su Marte non conoscesse la trama di questo film, farei prima a metterlo seduto davanti a questo capolavoro di Michael Mann e lasciare parlare le immagini.
Malgrado il suo essere ignorato dall’Accademy, “L’ultimo dei Mohicani” è il primo grande successo al botteghino per il regista di Chicago, più di settantacinque milioni di fogli verdi con sopra facce di ultimi Mohicani ex presidenti defunti portati a casa, per un più che dignitoso diciassettesimo posto nella classifica nei maggiori incassi dell’anno. Se il romanzo di James Fenimore Cooper è un classico della letteratura americana, Michael Mann qui ha firmato un classico della cinematografia americana, anche migliore del materiale da cui è stato tratto, mica male per un film su commissione, no?
Dopo aver conquistato il grande pubblico, ora Michele Uommo era pronto, dopo aver fatto le prove generali, i tempi erano maturi per portare in scena la sua Guernica, ed ora sì, sei solo agente Cassidy, dovrò correre più di Occhio di Falco, ma sento il calore necessario per affrontare l’impresa, tra sette giorni qui, pronti per il prossimo capitolo, non mancate!
Sepolto in precedenza venerdì 15 aprile 2022
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