Era il 19 agosto del 1964 quando “L’ultimo uomo della Terra – The last man on Earth” usciva nei cinema. Sessant’anni tondi per un film senza tempo. Ce ne parla il nostro Quinto Moro con un paletto di frassino in mano e una treccia d’aglio al collo.
Sono un lettore pigro. Per finire un libro a volte mi ci vogliono mesi, persino anni. Eppure ce n’è uno, uno solo, che è stato capace di tenermi incollato dalla prima all’ultima pagina e ho divorato in un solo giorno: “Io sono leggenda” di Richard Matheson (storia vera). Una di quelle robe che leggi una volta e non te le scordi più per l’appiccicaticcio senso di disperazione e morte che impregna le pagine, ti torce le budella e ci lascia un bel nodo a eterno promemoria della lettura. O almeno questo è l’effetto che fece a me.
L’adattamento per il cinema doveva nascere già dal ’57, sulla scia del successo di “Radiazioni BX: distruzione uomo”, che lanciava Matheson come sceneggiatore, ma ci fu qualche incidente di percorso.
Quella di Matheson è una rivisitazione del mito dei vampiri spogliato dal mito, attraverso l’espediente di una pandemia mondiale che mette il mondo in ginocchio. Oggi è una delle idee più abusate in tema post-apocalittico, ma era una mezza novità negli anni ’50 in cui lo spauracchio supremo erano le radiazioni atomiche, i russi e gli alieni (e a volte shakerati tutti insieme).
Il film parte a disgrazie già avvenute, tre anni dopo lo scoppio della pandemia che ha sterminato l’umanità, facendo resuscitare i morti come vampiri, ma senza canini in bella vista. Robert Morgan, ormai ex scienziato votato solo alla sopravvivenza, è l’ultimo uomo in un mondo già morto, una landa desolata di giorno e abitata dai mostri la notte.
Passando per trecce d’aglio e paletti di legno l’iconografia del genere vampiresco cede il passo (strascicato e ciondolante) a quella degli zombi moderni, che Re Giorgio Romero qualche anno più tardi avrebbe tradotto nella mitologica La notte dei morti viventi.
Ne “L’ultimo uomo della Terra” i vampiri non sono i sanguinari senza tempo di Bram Stoker né i tenebrosi romantici dei libri di Anne Rice o Stephenie Meyer: sono pezzenti ciondolanti, troppo deboli per sopraffare con la forza il loro nemico benché numericamente superiori, fermati dal puzzo d’aglio e qualche specchio sulla porta. Vampiri senza nobiltà, scarti del mondo borghese e proletario. Sono deboli, quasi privi d’intelletto, e per buona misura è farina del film, ché Matheson i “suoi” vampiri li aveva immaginati più arzilli.
I vampiri si annidano in un panorama da boom edilizio italico, paragonabile in bruttezza ai glaciali casermoni da est europeo sovietico, e che ben si presta alla spettrale decadenza di una città svuotata e abbandonata che fa da scenario alla fine del mondo. Il bianco e nero contribuisce a spegnere il verde di cipressi e pini sullo sfondo, a togliere ogni nota di colore e bellezza mediterranea a cieli e strade.
Qualora foste allergici al bianco e nero esiste una versione del film “colorata” artificialmente, che fa un po’ strano perché l’effetto digitale non funziona benissimo (forse in futuro le IA riusciranno a colorare senza sfarfallii tutte le vecchie pellicole), ma rende l’idea dell’amore che circonda questa pellicola. Non a caso “L’ultimo uomo della Terra – The last man on Earth” lo trovate in qualsiasi lingua e colore e con qualsiasi sottotitolo su Youtube o su altre piattaforme (persino sulla Wikipedia inglese c’è la versione originale in ottima definizione, oltre che su Prime). Insomma, non avete scuse.
Sono anni che me lo rivedo ciclicamente, e continua a darmi qualcosa. Avendo affrontato una pandemia lo si guarda sotto una luce diversa. Robert che non vuole chiamare il dottore perché la figlia sarebbe segnalata come infetta, vi ricorda niente che abbiate vissuto durante il Covid?
I flashback nella parte centrale scavano nei drammi del protagonista, dalla malattia della figlia al lutto per la moglie. Robert, rimasto solo al mondo, per non impazzire si chiude in una routine fatta di sveglia la mattina, rifornimenti, pulizia cadaveri e strage di vampiri, ripulendo un quartiere alla volta. Nel tempo libero beve, ascolta jazz, fabbrica paletti di frassino e vive di ricordi.
L’amore per i dettagli pervade tutta la pellicola. Mi fa sempre effetto notare il rumore del vento in sottofondo quando la malattia si insinua nella vita dei personaggi, dopo averci suggerito che il germe fosse portato dal vento.
L’idea di un mondo finito traspare dai dettagli, dai fili sospesi per l’impianto elettrico improvvisato in casa di Robert, i calendari disegnati a mano sul muro perché non li stampa più nessuno, o la mappa in cui Robert prende nota del suo certosino lavoro di macelleria (citata anche nell’inosservato ma godibile “I think we’re alone now”, con Peter Dinklage ed Elle Fanning, buono per i completisti del post-apocalittico).
Lo scenario è una parte importante del fascino della pellicola: per risparmiare sui costi venne girato in Italia, non in una delle tante cornici da cartolina Unesco, ma nelle periferie romane e tra i suggestivi scenari dell’EUR. Questo perché negli anni ’60 il sistema delle coproduzioni internazionali era ben oliato, anche grazie a quella sanguisu… volevo dire a quel vampir… insomma, a quel Giulio Andreotti che “ha fatto anche cose buone” e con la sua Legge del 1949 aveva contribuito a portare sangue fresco al cinema italiano.
È proprio per rispettare (o aggirare) le regole sulle coproduzioni che la versione nostrana ha generato un lieve pasticcio sulla paternità dell’opera, che già di suo non aveva avuto una genesi facile.
A produrre il film poteva essere la britannica Hammer, madre dei classici di fantascienza e horror degli anni ’50 e ’60 (Quatermass, Dracula, Frankenstein per citarne alcuni), ma doveva fare i conti con la censura britannica dell’epoca, che era preventiva. La sceneggiatura commissionata a Richard Matheson non venne approvata causa “brutalità, profanazione, immoralità” (sig!), e non andò meglio con la censura a stelle e strisce.
Col passare degli anni il progetto venne ridimensionato in modi poco graditi a Matheson, tra vendita dei diritti al ribasso, modifiche allo script e la prospettiva tramontata di un Fritz Lang alla regia. Ormai ridotto a una produzione low budget, restava da spendere il nome di Vincent Price, inadatto al ruolo secondo lo scrittore. Matheson uscì di scena, co-firmando uno script rimaneggiato con lo pseudonimo di Logan Swanson.
Per le coproduzioni servivano firmatari italiani a regia e sceneggiatura, ragion per cui nella versione nostrana esiste un Furio Monetti sceneggiatore (chi?), e un Ubaldo B. Ragona regista (la B. sta per Benemerito).
Nella versione internazionale la regia è di Sidney Salkow. All’epoca Ragona aveva diretto solo documentari, mentre Salkow era un mestierante con una sfilza di pellicole di genere alle spalle, abituato a lavorare con budget risicati, e reduce da una collaborazione con Vincent Price. Le maestranze – tutte italiane – ricordano Salkow alla direzione e non Ragona, prestanome per i teatri di posa e avvistato sui set – tipo passante, in caso Andreotti andasse a controllare. Come detto brutalmente da Pier Antonio Meccacci, che sul set faceva il truccatore, il film era “del regista americano” e Ragona “non c’entrava niente”, non dirigeva attori e operatori, né ebbe un ruolo in fase di montaggio nonostante qualche piccola variante tra le due versioni. Infatti, quella italiana vanta due brevi scene in più, tra l’altro valide, specie l’ottimo monologo di Price verso il finale («Non si può arredare un cimitero e chiamarlo casa.»)
Vincent Price dà tutto se stesso al personaggio e regala una scena memorabile con la sua incredibile risata, che passa dall’ilarità al dolore in uno dei momenti più intensi del film. Il cast italico è di buon supporto, anche se nella versione inglese è stato ridoppiato. Il doppiaggio nostrano invece è di quelli vecchia scuola (quelli belli), con una licenza buonista nel finale.
Il personaggio incarnato da Vincent Price non voleva diventare un eroe, anzi è il più fallibile, più fragile e più umano delle incarnazioni cinematografiche del Robert Neville letterario. E’ sopravvissuto tanto a lungo da diventare il cattivo, il serial killer che uccide i mostri nei loro letti senza pensare d’esser diventato lui il mostro.
Price ci mette sdegno mentre inveisce contro la nuova società vampiresca: «You freaks!» altro che «Ascoltatemi posso salvarvi!». E certo non implorava per la propria vita, più oltraggiato che disperato dall’idea che lui, ultimo vero umano rimasto, potesse restare ucciso. Però va detto: le aggiunte italiane hanno un senso visto che l’epilogo si svolge all’interno di una chiesa, e sull’altare.
Un Robert che brama salvare tutti sarà pure l’ideona di quel branco di deficien… volevo dire cretin… insomma, quelli che hanno scritto e distribuito senza vergogna un film nel 2007 chiamandolo “Io sono leggenda”. E’ un peccato che l’unico film a portare il nome del libro di Matheson sia quello che più ne ha tradito il senso. [Anche perché quello era un remake non autorizzato di Occhi bianchi sul pianeta Terra. Nota Cassidiana]
“L’ultimo uomo della Terra” è uno dei casi in cui la fedeltà al romanzo originale è un bene e non un limite. Negli adattamenti con Charlton Heston e Will Smith, Robert è un tipo diverso di sopravvissuto, un uomo d’azione che la risolve col piombo e non col frassino, ed ha una speranza di salvezza per il genere umano che qui manca.
Visto oggi, è un horror-non-horror per come consideriamo il genere, ma ha le atmosfere e le trovate giuste al netto di un budget limitato. E fa bene ricordarsi come anni fa, scene all’apparenza innocue come bruciare i corpi infetti o ammazzare gente in chiesa fossero tacciate d’immoralità a prescindere dal senso e dai contenuti di un’opera, negando addirittura il permesso di partire con la produzione.
Alla faccia dei censori, questo film è uscito dalla tomba e ciondolando attraverso i decenni è diventato ciò che era destinato a diventare: un Classido.
P.S. Mille grazie a Quinto Moro per aver recensito il film (ci ha impiegato solo tre anni). Vi invito tutti a passare a scoprire qualcuno dei suoi lavori, che potete trovate QUI.
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