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L’uomo che non c’era (2001): il principio di indeterminazione dei fratelli Coen

Capelli. Cadono, crescono, vengono tagliati, imbiancano, continuano a crescere anche dopo la morte ed è solo una delle informazioni che ti restano addosso, come i capelli tagliati, quando arrivi ai titoli di coda del film di oggi, protagonista della rubrica… Coen, storia vera!

“L’uomo che non c’era”, traduzione evocativa ma un po’ a braccio dell’originale e ancora piùad effetto “The Man Who Wasn’t There”, è stato uno di quei progetti che i fratellini del Minnesota hanno lasciato raffreddare, come da loro abitudine o per via delle temperature del loro stato. Nato negli anni ’90, il copione a lungo battezzato solo “The barber project” era stato accantonato, superato a destra dalla disponibilità dei tanto attesi Goodman e Bridges per Il grande Lebowski, dopodiché tenuto idealmente ancora sul fondo di quel cassetto perché nel frattempo, George Clooney era disponibile, e quindi sotto con l’Odissea di Fratello dove sei? Il povero barbiere eternamente ignorato, un destino dalla quale non si scappa, che poi è anche uno dei temi caldi, di un film all’apparenza freddo, matematico.

L’errore di valutazione più grande fatto nel corso degli anni, anche da molta critica, relativamente a “The Man Who Wasn’t There” è stato proprio questo, certo, tanti hanno sottolineato la natura colta, da grandi conoscitori dei generi cinematografici dei Coen, ma per troppi il soggetto un tempo noto come “The barber project” era davvero solo questo, fredda esecuzione. Ma parliamoci chiaramente, descrivere l’intangibile è complicato in ogni forma d’arte, i Coen hanno saputo farlo alla perfezione con questo film che è perfettamente in linea con le loro tematiche e banalmente è molto bello.

Lui taglia solo i capelli, e fuma, fuma sempre.

Per assurdo lo si potrebbe quasi seguire come un film muto, anche se finiremmo per perderci tutti i monologhi interiori del protagonista, che essendo uno che parla poco, come tutti quelli di poche parole, ha una testa sempre in movimento e in linea con il genere di riferimento del regista a due teste – ovviamente il noir – fa da voce narrante alla vicenda.

Girato chiaramente a colori e poi riconvertito in un limpido bianco e nero, reso impeccabile dalla fotografia di Roger Deakins (che quindi ha dovuto lavorare ragionando sul risultato finale, difficoltà aggiuntiva notevole), le immagini di “L’uomo che non c’era” non solo rimandano immediatamente al cinema classico e al periodo del dopoguerra dove il film è ambientato, ma crea un effetto a mio avviso micidiale, i grigi sono ancora più neutri, se fossero un rumore quelli di “The Man Who Wasn’t There” sarebbero assordanti, perfetti per presentare il mondo in cui si muove il protagonista, un tipo grigio, l’uomo dei nostri tempi, ecco appunto, mai definizione fu più adatta.

Ed Crane (la miglior prova di Billy Bob Thornton) racconta in prima persona la sua storia, essendo un aiuto barbiere poco loquace, che non parla, ma taglia solo i capelli, quello che ha da dirci deve essere davvero importante, quanto, sarà chiaro solo alla fine. Della sua vita Ed è spettatore, sua moglie Doris (Frances McDormand, chi se non lei?) lo tradisce con il comune amico “Big Dave” (James Gandolfini, perché il talento di spreca in questo film) direttore di un magazzino nella quale la donna lavora come contabile.

Ogni volta che lo vedo recitare mi ricordo dell’enormità della perdita.

Deluso e annoiato dalla sua monotona ruotine, Ed sembra trovare sollievo solo nelle innocenti attenzioni di Birdy (Scarlett Johansson nella porzione della sua lunghissima giovanile carriera), acerba pianista che secondo il barbiere, potrebbe fare quello che a lui non è mai riuscito, distinguersi ed elevarsi da tutto quel, beh, grigiume.

Tantissimi personaggi coeniani tentano di cambiare il loro destino, spesso in modo truffaldino, finendo per essere travolti da una forza superiore nota come Caos, il marito della rapita di Fargo, lo stesso Drugo che era ironicamente in bàlia degli eventi oppure il protagonista di Crocevia della morte, anche lui per certi versi alle prese con oggetti volanti non identificati, nel suo caso, il cappello.

Per Ed Crane l’occasione è entrare a far parte di una mezza truffa (nemmeno velata) sul lavaggio a secco, a proporgli l’affare una “Viola mammola” impersonata da un altro dei pretoriani dei Coen, Jon Polito, ed ora devo sottolinearvelo, l’uomo che porta lo scompiglio, la scintilla del cambiamento nella vita dell’uomo che non c’era, un barbiere, è uno che non ha capelli e copre la boccia con un toupet. Traete voi le vostre conclusioni, mi sembrava un dettaglio molto intelligente da scrivere, andiamo avanti.

Oggetto volante non identificato di capelli (posticci)

Una lettera di ricatto a Big Dave dopo, Ed ha i soldi per investire nel suo sogno escapista e come i personaggi coeniani, finirà per affrontare il caos e il caso, un personaggio che passa dalla sedia del barbiere ad un altro tipo di sedia, attraversando momenti grotteschi ben sottolineati dalle apparizioni degli oggetti volanti non identificati, che so essere sempre motivo di interesse e domande relative a questo film.

La prima volta che vengono nominati, è per bocca della vedova di Big Dave, una resa complottista dal dolore o che semplicemente, si è creata un castello mentale di bugie più comode, per giustificare la verità più semplice e dolorosa, le corna del marito. Questa donna velata (che parla di veli che devono cadere) compare sul portico di casa di Ed, facendomi rimpiangere il fatto che i Coen non abbiano mai diretto un horror puro, anche se di personaggi ne hanno ammazzati più di Jason Voorhees. In ogni caso parliamo a sua volta di una sorta di “Donna che non c’era”, l’unica che resta sullo sfondo tanto quanto Ed, che si ricorda degli UFO citati dalla donna, nel momento in cui la sua vita imbocca l’ultima curva, la più grottesca di tutte.

Dal 2001 che sogno un Horror diretto dai Coen, ma forse tutti i loro film lo sono già a loro modo.

Nel mondo di “L’uomo che non c’era” il grottesco domina malgrado la messa in scena così impeccabile, ad un’occhiata distratta anche fredda e distaccata, il regista a due teste non ha pietà per nessuno, tutti i personaggi sono grotteschi, esagerati e auto riferiti, lo sono Doris così come Big Dave (Gandolfini come al solito giganteggia), lo è Polito e ancora di più il capo barbiere Frank (Michael Badalucco) che deve sempre prendersi il palcoscenico, anche in un film dove lui è personaggio di contorno.

Attorno ad Ed si muovono personaggi ego-riferiti, che per certi versi sembrano proprio le persone osservate dall’interno della testa di tutti quelli che parlano poco e non riescono a far sentire la loro voce, specialmente se nella stessa stanza c’è un personaggio così che urla. Un po’ di empatia è naturale provarla per il barbiere, che però nel momento in cui decide di cambiare il suo destino, lo fa in maniera losca, e anche patetica.

Ben prima di Woody Allen e dell’MCU.

È chiaro che il suo grande sogno sia una truffa in cui solo lui crede, così come in Birdy, non così talentuosa ne innocente come Ed sperava fosse, proprio la “Viola mammola” e la ragazzina sono i due personaggi attraverso cui il caso (la grande livella morale dei Coen, la loro vera forza superiore) agisce, il primo viene ritrovato per caso da un ragazzino intento a nuotare, la seconda scatena l’incidente con oggetto volante non indentificato (un’auto, anzi meglio, il cerchione di un’auto) che porterà al disastro.

Billy Bob Thornton non aveva mai lavorato con i fratelli Coen, anche in questo è stato una bellissima anomalia, c’è più sentimento nei suoi silenzi o nel modo in cui fuma, sempre, senza sosta, che in mille parole, all’attore basta un impercettibile movimento del viso per comunicare o per dare forza a quello che la voce narrante ci sta dicendo, una prova che andrebbe ricordata molto di più, per un personaggio che non riesce ad essere ascoltato mai, nemmeno quando confessa.

Il destino di un uomo inascoltato, che parla solo attraverso la voce narrante.

Un altro dei personaggi grotteschi che lo soffoca, è l’avvocato Freddy Riedenschneider (un grande Tony Shalhoub) anche lui molto concentrato su se stesso (lo vediamo non a caso, pettinarsi i capelli prima del suo grande spettacolo in tribunale) che in cerca di un movente o anche solo di un modo per rendere interessante questo grigio barbiere, cita il principio di indeterminazione di Heisenberg, che vi riassumo male: l’atto stesso di osservare un evento in corso, non fa che alterarlo, rendendo anche l’osservatore un fattore. Che volendo, potrebbe essere un modo per descrivere il cinema.

Ancora una volta i fratellini del Minnesota utilizzano il noir come Nord magnetico delle loro storie e si cimentano in quello che gli riesce meglio, raccontare la risposta del Caso (e del Caos) a coloro che provano a fuggire dall’apatia della loro vita, alla faccia di chi ritiene “L’uomo che non c’era” un fretto e matematico calcolo, grazie a quei chiaroscuri e le sue atmosfere retrò, resta una storia carica di nichilismo e umorismo nero, la profondità delle immagini, così limpide e belle anche nel descrivere tutti i toni di grigio dell’animo umano, arrivano al pubblico anche perché parlano di quanto ai personaggi coinvolti, manchi quello che i romantici definirebbero il cuore.

A volte penso che tra tutti i bei film dei Coen, questo potrebbe essere il più irripetibile, o forse penso solo troppo.

L’ineluttabilità del fato non concede riscatto, i Coen sono fedeli alla scuola del Caso (e del Caos) che governa le vite di tutti, per questo “The Man Who Wasn’t There” è così riuscito nel suo saper cogliere e raccontare l’intangibile, come ad esempio il vuoto dell’anima, ben riassunto dalle tipologie di personaggi in ballo in questa grottesca farsa. Doris, Big Dave, Frank e tutti gli altri sono totalmente ego-riferiti, sempre in affanno per celebrare il loro vuoto interiore, opposti al nostro barbiere Ed, che vive facendo da carta da parati alla vita e quando tenta di fare un passo verso essa, viene punito, ironicamente per un omicidio, ma quello che non ha commesso.

Nessuno di questi personaggio ha mai davvero il controllo o la possibilità di modificare le loro grigie (grazie a Roger Deakins) esistenze, al massimo possono subire, per questo sulla lunga distanza nessuno di loro crea empatia, perché i Coen sono comunque i registi della “Trilogia dell’idiota”, la loro posizione sull’umanità è molto chiara. Solo che qui i toni sono più volutamente dimessi, e per quanto il riscatto sociale sia impossibile, proprio come nel finale di Arizona Junior i Coen non rinunciano ad uno sguardo sul futuro, forse positivo o comunque, meno greve, scivolando fuori dal suo mondo grigio dentro la luce bianca, anche un taciturno come Ed Crane potrà trovare il tempo e il modo per dire “Tutte quelle cose che qui non hanno parole”. Visto finali peggiori per film troppo spesso etichettati frettolosamente come esercizi di stile, no?

Prossima settimana, il capitolo più difficile di questa rubrica, perché parlare dei filmoni riusciti a cui negli anni ci hanno abituato i fratelli Coen è complesso ma piacevole, ben altro paio di maniche sarà qui, tra sette giorni, non mancate avrò bisogno del vostro supporto. E di un avvocato.

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