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L’uomo che uccise Don Chisciotte (2018): Romantici rottami (Quixote Vive!)

Perseverando si raggiungono gli obbiettivi, proprio la
perseveranza è tra i temi principali di oggi, perché non si poteva concludere
questa rubrica in un modo migliore… Benvenuti all’ultimo capitolo di…  Gilliamesque!


Quando ho deciso di iniziare una rubrica su Terry Gilliam,
oltre che omaggiare uno dei miei registi preferiti, avevo bisogno di
esorcizzare mesi passati tra troppa sfiga (o “Negation of the pussy” come
abbiamo imparato a chiamarla) e altrettanti burocrati, non pensavo si potesse
finire davvero così alla grande, considerando quanto abbiamo dovuto aspettare
per vedere Tideland e The Zero Theorem nei cinema di uno
strambo Paese a forma di scarpa, era fuori dalla mie più rosee aspettative
poter anche solo sperare che, invece, proprio l’Italia, sarebbe stato uno dei
primi Paesi dove l’ultima, agognata, sofferta e lungamente inseguita, opera di
Gilliam sarebbe arrivata. Trovo quasi poetico tutto questo!

Sì, perché onestamente ero abbastanza sicuro che avrei
apprezzato “L’uomo che uccise Don Chisciotte” più che altro per il fatto di
esistere, per il suo essere la prova che nella vita una testa molto dura può
tornare davvero utile, pensavo che lo avrei amato per quello che avrebbe
rappresentato: la vittoria dell’immaginazione di Gilliam, contro i mulini a
vento della burocrazia e della sfortuna che hanno sempre messo i bastoni tra le
ruote al suo cinema, invece ancora una volta Terry è stato in grado di
stupirmi, “L’uomo che uccise Don Chisciotte” oltre ad essere un manifesto di
resistenza umana e cinematografica, è un film capace di vette poetiche
notevoli, uno dei film migliori mi sia capitato di vedere negli ultimi anni.

“Come si chiama questo film che sto facendo? Dopo 25 anni non mi ricordo più!”. 

Badate bene: non è tutto perfetto, non può essere tutto
perfetto in un film la cui genesi è stata un travaglio durato 25 anni, anche se
a me risultava fossero 27, perché Gilliam è dal 1991 che ne parla, ma come
sempre quando si parla di Terry e del suo cinema, realtà e finzione si
mescolano, quindi vada per il 25 come numero ufficiale. Infatti, è lo stesso
Gilliam a scherzare su un film che è stato per un quarto di secolo una chimera,
la frase che apre il film «Dopo 25 anni di fare e rifare…» è il sospiro di
sollievo di un artista che si è tolto, non una scimmia dalla spalla, di più,
dalle spalle di Gilliam sono scesi Don Chisciotte, Dulcinea, Sancho Panza,
Ronzinante e anche un paio di mulini a vento.

Adamo Guidatore vestito da Sancho Panza e il regista beh, anche lui vestito da Sancho Panza.

Sarebbe stato lecito accontentarsi della mera esistenza di
“The man who killed Don Quixote” per considerarlo un traguardo, ma bisogna
anche essere pragmatici: è il capolavoro che in tanti (anche troppi) si
aspettavano? No, non può esserlo, viviamo in un mondo dove lo stramaledetto
AAAAAUIIIPPPP (meglio noto come “Hype”) è in grado di uccidere un film messo in
cantiere l’anno scorso, figuriamoci uno che è cresciuto nel suo mito e nella
leggenda della sua sfiga per 25 anni. Bisogna anche dire che ad un pubblico
digiuno del cinema di Gilliam che, magari, ignora le enormi difficoltà
produttive che dal 2000 si sono ulteriormente accanite sull’ex Monty Python,
questo film potrebbe risultare più che indigesto, specialmente nella parte
iniziale, ma è innegabile che con il passare dei minuti “L’uomo che uccise Don
Chisciotte” sale di colpi. Un’opera sghemba come solo il miglior cinema di
Gilliam può essere, ma capace di conquistare chiunque, viene proprio da urlarlo
come fanno nel film: Quixote vive!

Le virtù di una testa molto, molto, molto dura.

Bisogna anche dire che “L’uomo che uccise Don Chisciotte” si
porta nella pancia i resti del film che avrebbe dovuto essere, se, come me, negli
anni avete seguito le complicate vicende del film, guardandolo ogni tanto
sembra di avere dei dejà vu di Lost in la Mancha, sembra di essersi persi tra la realtà, la finzione e il cinema,
come accade al protagonista Toby Grisoni, quasi omonimo del co-sceneggiatore di
Gilliam che, invece, di nome fa Tony, solo uno dei tanti rimandi
meta-cinematografici di un film che fa grande cinema, partendo dall’impossibilità
di fare cinema che, poi, è un po’ il filo rosso che lega tutti gli ultimi film
di Terry. Parliamo della trama e poi andiamo nel dettaglio!

Toby Grisoni (Johnny Depp, Ewan McGregor, Jack
O’Connell
Adam Driver) è un giovane pubblicitario disilluso, vestito di
bianco come il Tony di Parnassus, ma
come lui tutt’altro che eroico cavaliere, si trova nella Mancha in Spagna, a
girare uno spot pubblicitario su una Vodka che prevede mulini a vento e Don Chisciotte. É stato scelto lui per via del suo talento visionario? Sì, certo, anche, ma soprattutto perché un tempo negli stessi luoghi, aveva girato un piccolo, ma brillante film giovanile, intitolato “L’uomo che uccise Don Chisciotte”… Metacinematografia portami via.

“Adam vieni qui dacci una man… Vabbè lascia perdere. Comunque sei bellissimo!”.

Siccome Toby è un artista e per sua natura egoista e
vanesio, se ne frega delle difficoltà della sua troupe sul set e corre in moto
verso Los Sueños (occhio al nome, che mi pare significativo) piccolo paesello dove anni prima aveva girato il suo film, qui ritrova le vie, i colori, ma
non trova più la ragazza di cui si era innamorato allora, Angelica (Joana
Ribeiro), scacciata dal padre per essersi “Sporcata” con questa follia chiamata
cinema, con un po’ di fatica e il contributo di un gitano che sembra la
versione spagnola di Piero Pelù (Óscar Jaenada) a mettere un po’ di Guacamole
sulla sua fuga, Toby ritroverà Javier (un Jean Rochefort, Robert
Duvall
, Michael Palin, John Hurt Jonathan Pryce da applausi),
il calzolaio scelto allora per via della sua faccia interessante per
interpretare Don Chisciotte che, in realtà, non ha mai abbandonato il personaggio,
anzi, forse ci ha pure perso la testa sotto il sole della Mancha.

Qui comincia l’avventura, non del signor Bonaventura ma di
Toby che per correre dietro a questo folle Don Chisciotte passa da un
siparietto all’altro ed ogni volta la realtà si mescola sempre di più alla
finzione, tutto diventa una specie di Paura e delirio nella Mancha, con l’immaginazione e la follia al posto
dell’adrenocromo.

Has anybody seen Sam Lowry Don Chisciotte?

Sì, perché, “The man who killed Don Quixote” è il piano
inclinato su cui tutti i temi cari a Gilliam e anche abbondanti porzioni del
suo cinema, vengono appoggiate, ma solo per svicolare dentro ad una pantagruelica
mischia in cui si mescolano gli echi del passato di autore di Gilliam. Angelica
si chiama come la protagonista femminile di I Fratelli Grimm ed è impossibile non notare nel rapporto tra l’artista
fighetto che viene dalla città Toby e lo sgangherato cavaliere senza paura di
una solitaria guerra che dice di chiamarsi Don Chisciotte della Mancha, un po’
delle dinamiche tra Jack e Parry di La leggenda del re pescatore.

“Fermati ma sei pazzo?!” , “Tu hai firmato per tre Star Wars e io sarei il pazzo?”.

Ma bisognerebbe essere toccati almeno quanto Javier per non
notare che l’impalcatura e i resti del film che aveva in testa Gilliam quando
ha iniziato la sua cavalcata 25 anni fa, s’intravedano ancora. C’è una parte
molto bella e ben poco sfruttata, in cui Toby letteralmente rompe il velo dello
schermo cinematografico entrando tra le immagini proiettate (metafora piuttosto
chiara) per trovare Javier, ancora intrappolato nella parte di Don Chisciotte,
che scambiandolo per Sancho Panza, gli chiede di liberarlo dall’incantesimo che
lo tiene bloccato ancora qui. Un peccato che tutte queste anime del film,
restino spesso incastrate l’una sull’altra, in certi passaggi i tentativi di
interpretazione diventano complessi, se non addirittura impossibili, quindi il
film risente di qualche minuto in cui seduto in sala ti senti un po’ a tua
volta un Sancho Panza e ti viene da pensare: “Caro signor Gilliam, del suo
discorso astratto ci ho capito poco o niente”.

Adam Driver cerca di prenotarsi un posto migliore per dormire, il budget del film questo permette.

Ma è un momento passeggero, stringete i denti perché ne vale
la pena, l’abilità e la volontà di Gilliam sono state quelle di
ostinarsi caparbiamente e arrivare alla fine della crociata chiamata “The man
who killed Don Quixote”, ma avendo allo stesso tempo l’intelligenza e l’umiltà
necessaria per capire che il sé stesso testardo ed idealista di allora, non è
più quello di oggi. Un artista che troppe volte si è stroncato tra le pale dei
mulini della realtà e proprio per questo ha rimaneggiato la storia, come aveva
già fatto per Parnassus, ecco
perché nei primi minuti il caos sembra regnare, i baffi di Adamo Guidatore sono
più lunghi all’inizio del film che alla fine e la sgangheratezza generale pare
avere effetto per qualche minuto anche sul fidato direttore della fotografia,
poeticamente accreditato nei titoli di coda del film come Nicola “Sancho”
Pecorini (che sa tanto di investitura ufficiale da parte di Gilliam) che muove
la macchina da presa con un po’ meno precisione del solito. Ma Terry ha fatto
molto bene a modificare la storia che sarebbe sembrata fin troppo simile ad un
I banditi del tempo, ambientato nella
Mancha. Poi, secondo voi possiamo davvero attaccarci a questi difetti per
criticare il film? Onestamente io non ne ho il cuore, quindi lo lascio fare
volentieri ad altri, perché proprio quintali abbondanti di cuore sono l’arma
segreta di un film: cuore e malinconia.

Anzi no, cuore, malinconia e giganti. Non dimentichiamo i giganti!

Sì, perché mi sembra innegabile la quantità di malinconia
presente negli ultimi film del regista originario del Minnesota, Parnassus era la messa in scena del
dubbio di Gilliam di essere già diventato a sua volta un artista fuori tempo
massimo, prestigiatore di un cinema analogico che non interessa più a nessuno,
mentre The Zero Theorem era ancora
più triste, nel mostrare un uomo a cui veniva tolto tutto, anche il cinema stesso.
“L’uomo che uccise Don Chisciotte” è la continuazione del discorso, ma senza
rinunciare alle stoccate che da un ribelle come Gilliam ti aspetti sempre,
rivolte in questo caso al mondo corrotto di Hollywood e perché no, pure al presidente
Trump (beccati questa Mr. Arancione!), Gilliam ne ha davvero per tutti!

Perché se con Parnassus
Gilliam si è reso conto di essere un artista fuori dal suo tempo, è con Don
Chisciotte (da sempre il personaggio dell’immaginario a cui Terry viene
associato) che sembra rendersi conto di essere diventato un romantico rottame
e quindi usa la sua lancia (il cinema) per colpire l’ingiustizia, come ad
esempio il “machismo” della specie peggiore, quello che cerca di prevaricare i
personaggi femminili (come il padre di Angelica che la ripudia), oppure ancora
peggio, l’odioso Alexei (Jordi Mollà), il re della Vodka che per Gilliam
rappresenta i produttori con il portafoglio, quelli da assecondare e compiacere
in ogni modo. Ma se Gilliam, ancora una volta, ci ricorda che il potere è
l’immondizia della storia degli umani e ne ha davvero per tutti, la critica maggiore, più aspra e malinconica, la rivolge a sé stesso.

Quando Gilliam ha iniziato a pensare al film, Joana Ribeiro non era nemmeno nata.
Nelle varie interviste che ho letto di Gilliam in questi
lunghi 25 anni di “Aspettano Quixote”, è chiaro che per Terry “The man who
killed Don Quixote” sia diventato un’ossessione, con una sincerità disarmante il
regista riserva per sé stesso la critica più dura, impossibile non riconoscere
in Toby quel regista visionario che sembrava destinato a grandi cose e che,
invece, si è perso inseguendo Don Chisciotte nella Mancha e nella sua rincorsa
ha lasciato indietro anche qualcuno, per Toby, Angelica e Javier sono gli
effetti collaterali del suo mettere l’arte (e il suo ego) sopra ogni altra
cosa, per Gilliam, invece, diventa impossibile non pensare a Jean Rochefort e
John Hurt, al cui il film è, ovviamente, dedicato.

“…E a te Sancho io prometto che guadagnerai un castello, ma un rifiuto non l’accetto, forza sellami il cavallo!” (Cit.)

Come tutti i protagonisti dei film di Gilliam, Toby non è un
personaggio del tutto positivo, anzi, eppure anche lui, come tutti gli eroi
controvoglia Gilliameschi, imparerà ad abbracciare l’immaginazione sopra ogni
altra cosa, perché se John Ford ci ha insegnato che nel west, dove se la
leggenda diventa realtà, vince la leggenda, anche nella Mancha è lo stesso.
Toby e Gilliam sono la stessa persona, entrambi hanno perso la testa per inseguire
Don Chisciotte ed entrambi sono destinati ad ucciderlo con i loro errori e la
loro testardaggine, ma solo per ritrovarsi completamente identificati nel mito
di questo personaggio. Non c’è eroismo in tutto questo, il trionfo di Munchausen lascia il passo alla
malinconia, sentitevi pure liberi di citofonare a James Stewart per conferma.

La leggenda diventa realtà e vince, per Gilliam è sempre
stato così, l’immaginario, il racconto trionfa su tutto ed ecco perché in un
crescendo coinvolgente, Gilliam decide di mostrarci il mondo come lo vede Don
Chisciotte (una delle sue incarnazioni, sono ben tre nel film) solo nel finale,
a questo punto del film anche noi spettatori siamo così coinvolti da non poter
più distinguere tra realtà, cinema, finzione e la follia vera o presunta del
personaggio. L’ultima carica contro i giganti che ora vediamo davvero come
giganti che agitano le loro lunghe braccia è l’ultimo gesto di cavalleria di un
personaggio destinato a scomparire. Una sveglia analogica in un mondo digitale
proprio come Gilliam e che, come tutti gli eroi, per lui può esserci solo un finale,
ovvero una cavalcata verso il tramonto, l’ultimo, spero solo in ordine di tempo,
dei tanti bellissimi finali di Gilliam che ad una prima occhiata sembrano
ottimisti, ma in realtà non lo sono poi così tanto, anzi forse per niente.

Come dovrebbero sempre terminare i film, con una cavalcata verso il tramonto.

Una autocritica anche fin troppo feroce che denota davvero
una sincerità rara nel mondo dello spettacolo, che non può esistere senza un
cuore grosso così,  anche perché in tutto
questo Gilliam usa l’arma del cinema a suo piacimento, la trovata dei
sottotitoli gettati via con un gesto della mano da Toby è il modo migliore per
mettere in chiaro che è il cinema a comandare, era da Caccia ad Ottobre Rosso che non vedevo un autore, utilizzare la
settima arte così bene per far fronte ad un problema tutto reale, come le
barriere linguistiche.

Poi se due indizi fanno una prova, ancora una volta Terry
Gilliam riceve in cambio dai suoi attori protagonisti una prova di recitazione
maiuscola, Adam Driver (che lo ricordo, è bellissimo!) viene ricordato quando
mena la spada laser in giro, ma qui è davvero fantastico, dopo tanti nomi che
si sono succeduti negli anni per il ruolo, adesso che l’ho visto in azione, non
potrei pensare ad un Toby migliore di così e ringraziate la birra per questo,
sì, perché Gilliam ha conosciuto Adamo Guidatore in un pub, senza sapere che
fosse un attore, attratto dal suo sembrare ad una persona reale, non uno che si
guadagna la pagnotta recitando (storia vera).

Si è unito al lato Gilliam della Forza.

Forse ancora meglio di lui solo Jonathan Pryce, che è
un attore di cui ho una stima infinita dai tempi di Brazil e che qui padroneggia due lingue, cavalca impettito, carica
mulini e ti ricorda cosa doveva essere la vera cavalleria, una prova
incredibile e toccante. Per altro, trovo poetico che dopo aver cercato il suo Don
Chisciotte per 25 anni in tutte le facce che potevano essere quella giusta,
alla fine la scelta migliore era anche la più facile, l’attore feticcio,
compagno di mille battaglie che qui idealmente chiude il cerchio passando da
Sam Lowry, l’uomo che impazziva per non morire, a Don Chisciotte, l’uomo che
impazzendo ha riscoperto la vita.

“Guarda Sancho un drago!” , “Veramente è l’asta del microfono, ma facciamo come dici tu”.

In parecchi momenti i due attori si barcamenano per riempire
le congiunzioni tra una scena e l’altra, perché quest’opera sghemba come le inquadrature
di Gilliam in certi passaggi dà la sensazione di un montaggio che potrebbe
ancora cambiare, questo sogno matto durato 25 anni, però ha tutta la forza, il
cuore e dei picchi poetici che solo un testardo e un idealista come Terry
Gilliam avrebbe potuto raggiungere, proprio per questo è più bello e sincero di
quello che era anche solo lecito sperare.

“L’uomo che uccise Don Chisciotte” non è bello perché è la
prova che con la testardaggine si possono sconfiggere i mulini a vento della
sfiga e della burocrazia, è bello perché è ANCHE questo, ma prima di tutto è l’enorme
cuore di questa pellicola a renderla qualcosa di unico, sghemba, sbilenca e
fuori dal tempo quanto volete, ma proprio per questo ancora più bella e rara,
se non hai un cuore grosso come tutta la Mancha e una testa molto dura, non ti
può nemmeno passare per l’anticamera del cervello di caricare a testa bassa i
mulini a vento, ma se non lo fai non potrai mai vincere, “L’uomo che uccise Don
Chisciotte” è la prova che la testardaggine, l’immaginazione e l’umorismo sono
le armi più potenti del mondo. Grazie signor Gilliam, grazie, grazie, grazie.

La reazione di un uomo che dopo 25 anni di “Negation” finalmente ottiene “The pussy” (Grazie di tutto signor Gilliam)

Anche se sarebbe un gran finale, spero fortemente che questo
non sarà il punto di arrivo del cinema di Terry Gilliam, per ora, sono sicuro,
invece, che è il punto di arrivo di questa rubrica che mi ha regalato molte
gioie e spero anche a voi. Ed ora vogliate scusarmi, cavalco con la mia bara
verso il tramonto, forza Ronzinante andiamo, abbiamo ancora altri giganti da
affrontare!

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