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L’uomo che volle farsi re (1975): non siamo dei, siamo inglesi

A volte basta una vignetta per perdere la testa per un
fumetto, ad esempio una delle mie preferite di The Boys è quella in cui Garth Ennis ha deciso di iniziare una
delle storie con Billy Butcher, inglese ed orgogliosissimo di esserlo,
impegnato a guardare con un sorrisone tronfio sul volto la scena di un film,
che nella vignetta in questione non si vede, ma viene evocato da una porzione
di dialogo (per altro leggermente differente da quello del doppiaggio Italiano)
che ho voluto omaggiare nel titolo del post e che arriva dritto dal film che festeggiamo oggi, 45 anni dall’uscita italiana di “L’uomo che volle
farsi re”.

Mi sono già largamente espresso su cosa penso dell’inutile
espressione “americanata”, quei poveri di spirito che la utilizza sottovalutano
un fatto non da poco, lo sciovinismo inglese, un concetto che di norma mi
farebbe accapponare la pelle, ma che in campo cinematografico mi ha regalato
solo gioie perché mi fa pensare ad una manciata di titoli. Potrei quasi tirare
su una mini rubrica, la trilogia dello sciovinismo inglese, nel caso il primo titolo
sarebbe sicuramente questo capolavoro di John Huston, ma comunque anche negli
altri due titoli che ho in testa, recita comunque Michael Caine. Segni di
continuità britannica.

Sembra Mosè ma in realtà è qualcuno di molto più leggendario, il grande John Huston.

Non credo che un Maestro come John Huston abbia bisogno di presentazioni, è stato il
modello di riferimento di tanto registi che a loro volta hanno fatto scuola. Il grande regista ha inseguito a lungo il sogno
di portare sul grande schermo il romanzo “L’uomo che volle essere re” di
Rudyard Kipling del 1888, per la precisione sin dagli anni ’50, il piano
originale era di far interpretare i due protagonisti ad Humphrey Bogart e Clark
Gable, per poi passare a Kirk Douglas e Burt Lancaster negli anni ’60 ed infine
alla coppia più bionda del mondo, Robert Redford e Paul Newman nei primi anni
’70. Fresco della loro collaborazione in L’uomo
dai 7 capestri
, pare che fu proprio Paolo Uomonuovo a suggerire al grande
regista che per portare al cinema il romanzo di Kipling, servivano due figli di
Albione, due che provenissero per davvero da quell’umida isola, fu così che il
ruolo dei due soldati di Sua Maestà, Massoni, guasconi e scavezzacollo, vennero
affidati a Sean Connery e Michael Caine.

«Soldato Connery e soldato Caine a rapporto, pronti per l’ingaggio»

“L’uomo che volle farsi re” contiene tutti gli elementi e
le tematiche care al cinema di John Huston, l’amicizia virile, la ricerca di un
tesoro e gli umani istinti, che di norma prendono il sopravvento sotto forma di
avidità e sete di potere, ma per certi versi è anche uno di quei film arrivato
in una porzione della carriera del Maestro Huston, in cui il grande regista non
disdegnava essere un po’ più scanzonato. Per certi versi “The Man Who Would Be
King” è il fratello colonialista (e Britannico) di L’uomo dai 7 capestri, entrambi i film iniziano in maniera allegra per finire con toni più drammatici, considerando l’abbondante
quantitativo di Rudyard Kipling, sembra strano che anche questo film non sia
stato scritto da John Milius, ma senza spingermi ad etichettarli come due pellicole della fase “pop”
del grande regista (verrei bollato di eresia), ma in ogni caso sono due dei miei
Huston del cuore, direi che per rendere onore al rosso delle giubbe inglesi,
sfoggio il rosso del logo dei Classidy!

Girato tutto tra il Marocco e le alpi (per le scene in
montagna), “L’uomo che volle farsi re” è un classico di avventura con una
struttura circolare, comincia e si conclude con un prologo e un epilogo, in cui
il personaggio di Michael Caine, il soldato inglese Peachy Carnehan di fatto si
trasforma nel narratore, raccontando all’amico Rudyard Kipling (interpretato
dal compianto Christopher Plummer) gli ultimi tre anni della sua vita e
l’incredibile storia dell’impresa dei due protagonisti.

Lo scrittore del libro, che diventa narratore e personaggio nel film ma soprattutto, viene interpretato da Plummer (ciao Christopher, ci mancherai)

Il film sceneggiato dallo stesso Huston a quattro mani
insieme alla sua fidata assistente Gladys Hill, specializzata in particolare
nei dialoghi, diventa un cortocircuito tra libro e film. Se nel romanzo l’io
narrante di Kipling era un giornalista di stanza in India, che su un affollato treno
incontrava uno dei due protagonisti, nel film la figura del narratore è
esplicitamente identificata con quella di Rudyard Kipling, corrispondente del
Northern Star che viene prima semi raggirato da Peachy Carnehan (Michael Caine) e dal suo compare, il
baffuto Daniel Dravot (Sean Connery), ma poi finirà per stringere con loro una
solida amicizia, posso dirlo? Il botta e risposta tra Plummer e Connery, «Ci
siamo incontrati per caso», «Ci lasciamo da amici», resta uno dei tanti bei
dialoghi di un film che è un manuale di come si scrivono scambi di battute
memorabili, giù il cappello davanti al lavoro di Gladys Hill, che qui ha contribuito a riempire di scambi notevoli, questa sorta di “Cuore di tenebra” tra le montagne del medio oriente.

Professoressa Gladys Hill, severa ma giusta.

Il Rudyard Kipling di Christopher Plummer, diventa testimone
quasi involontario della lucidissima follia di due gonzi britannici così convinti
dei loro mezzi, da poter quasi riuscire a trionfare, d’altra parte tra un eroe
e un folle, la differenza è spesso minima e Daniel e Peachy se la conoscono, di
certo la ignorano. Davvero fantastico vederli entrare a passo di marcia super
sincronizzati, evitando abilmente le accuse (tutte legittime!) sulla loro
condotta non proprio cristallina in India, semplicemente ribadendo che sono
state due “vergogne” come loro a creare il prestigio di questo porco Impero
britannico. Insomma Daniel e Peachy dalla loro hanno abbondanti dosi di
sciovinismo inglese e due facce quasi indistinguibili dai rispettivi
posteriori, nel cuore invece, il sogno di un’impresa folle: diventare re in
Kafiristan, l’odierno Nurestan.

Si chiama Kafiristan perché Dovecacchiostan pareva brutto.

Un sassoso Paese tra le montagne, al confine tra Afghanistan
e Pakistan, quasi impossibile da raggiungere e ancora più difficile da
conquistare, l’unico a riuscirci è stato Alessandro il grande, un tale di cui Daniel
e Peachy non hanno mai sentito parlare («Era un re greco», «Se ci è riuscito un
greco ci riusciremo anche noi!»). Il loro piano sembra folle ma ha una sua
logica, raggiungere il Kafiristan dall’India, conquistarsi la fiducia di
qualche capo tribù locale, offrendo il britannico talento nell’arte della
guerra, dopo aver trionfato in qualche battaglia tra le innumerevoli
popolazioni locali in eterna lotta, rovesciare il capo banda, procedendo di
vittoria in vittoria fino a diventare re del Kafiristan. Vi ho già detto che la
differenza tra un eroe e un pazzo è minima vero?

«La buona notizia è che siamo quasi arrivati, quella cattiva è che per Rimini forse, avremmo dovuto svoltare a sinistra»

Kipling mette la sua firma sul contratto dei due soldati,
niente alcool o donne fino alla fine dell’impresa e da qui John Huston ci porta
con loro in un viaggio tutto matto, di due aspiranti Don Chisciotte e Sancio Panza
britannici fino al midollo osseo, in 129 minuti che sembrano durare la metà, di
un film che spegnerà oggi 45 candeline, ma resta cresco come una birra tirata
fuori dal frigo perché è il fiero rappresentate di quel grande, enorme genere,
talmente gigantesco da essere roba rarissima al cinema: il film d’avventura.

Col somaro cavalcare (andiamo a comandare)

Horror, azione, Western, tutto bellissimo, ma tu dammi un
film d’avventura, dove i protagonisti rischiano la pelle per conquistare un
tesoro e farai di me un bambino felice. C’è qualcosa di archetipico nelle
storie di avventura, forse un legame con le fiabe classiche, ma resta il fatto
che un film d’avventura è universale e John Huston in carriera ne ha firmati di
meravigliosi, “L’uomo che volle farsi re” non è da meno proprio perché ci fa
affezionare al destino di due sciovinisti inglesi, talmente convinti e folli,
da potercela fare per davvero.

Gli abitanti del Kafiristan hanno usi e costumi ben diversi dagli inglesi, ma mi colpisce ogni volta come il gioco del Polo, nella versione locale, si un’attività in grado di unire tutti, anche se in Kafiristan di solito si utilizza la testa del precedente capo tribù al posto della palla. In ogni caso, John Huston aveva anticipato anche Rambo III, dopo il gioco a cavallo prevedeva solo una pelle di montone, tzè robetta!

Come tutte le storie di avventura non mancano gli elementi
giusti, una coppia di protagonisti che insieme fanno scintille, Daniel e Peachy
sembrano due truffatori, pronti a spacciarsi per santoni pazzi (che predicano
in una lingua inventata), oppure a prendere possesso di alcuni asini per la
loro impresa, sbaragliando la concorrenza di alcuni Afgani armati, solo
mettendo in campo l’astuzia britannica, che di fatto è un arrogante sfoggio di
superiorità cerebrale, scientifica e tattica, insomma siamo veramente nel campo
dello sciovinismo più spinto, eppure sfido chiunque a non patteggiare per
questi due impettiti matti.

«Al servizio segreto di me stesso, mi piace, suona bene. Beccati questa George Lazenby!»

Anche perché Sean Connery e Michael Caine dimostrano di
avere una chimica che fa scintille, grazie a quei dialoghi pieni di brio e
parole ormai desuete (nel nostro doppiaggio ma anche in originale), il film è
un perfetto “Buddy Movie” avventuroso con due trucidi (nei modi) candidi (negli
intenti), in grado di conquistare tutta quella porzione di pubblico meno
propensa a riconoscere il fatto che sull’impero di Sua Maestà non tramonta mai
il sole. Ogni volta che mi decido a rivedere questo film, il tormentone di Connery
«Per le braghe del Padreterno» mi fa rotolare dal ridere e se Sir Sean è quello
con il ruolo più complesso, forse la menzione speciale se la merita Michael
Caine, il suo Peachy Carnehan non perde mai il suo fare guascone nemmeno nei
momenti più drammatici, quando l’amico si monta la testa, pensando lui per
primo di essere diventato Sikander secondo, l’erede di Alessandro Magno come lo
identificano i locali, Peachy non perde mai la faccia da schiaffi, ricordando
all’amico le origini e la (pericolosa) strada fatta insieme.

Per altro l’attrice che interpreta la bella Rossana, futura sposa del re, è stata
un cambio in stile cestistico voluto da Huston, che trovava inadatta la
precedente scelta, in mancanza di alternative dopo il licenziamento in tronco,
metà del set (regista compreso) si voltarono di colpo verso Michael Caine che
avrà pensato «Cosa volete da me?», da lui in particolare nulla, ma questo è il
motivo per cui Rossana è interpretata da Shakira Caine, l’attuale signora Caine
(storia vera).

¿Cómo se llama? Bonita, mi casa, su casa, Shakira, Shakira (cit.)

Si perché i due protagonisti arrivano a destinazione grazie
a notevole caparbietà, ma riescono nell’impresa, solo con grossi colpi di cul…
fortuna. L’enorme crepaccio insormontabile superato (letteralmente) a colpi di
risate, oppure la freccia che centra la bandoliera di Daniel Dravot, creando il
suo (falso) mito di invincibilità presso i locali, sono tutta carte buone
servite dal destino, tra i due sarà sempre Peachy quello sempre pronto a
ricordare di non forzare la mano, Daniel invece inizierà a subire il fascino
dell’impresa, perché quanto tutti cominciano a rivolgerti a te come se fossi
una divinità, l’errore più grande da fare è quello di iniziare a comportarsi
come tale.

«Allora chi è lo re?», «Sei tu lo re!»

I due protagonisti arrivano nel Kafiristan per il rotto
della cuffia ma una volta sul posto, agiscono come uomini tra i bambini (vi ho
già parlato dello sciovinismo inglese vero?), con i loro fucili e la loro
maestria in battaglia non hanno rivali, si presentano dicendo «Non siamo dei ma
inglesi, una sorta di vicedei», scena che ogni volta mi provoca lo stesso sorrisone
tronfio di Billy Butcher che descrivevo lassù.

Pesante è la testa che porta la corona (ma anche le balle di chi sopporta il re)

Quando poi macinando vittorie e conquiste, sul campo Daniel
viene creduto un dio ma anche “L’uomo che volle farsi re” del titolo, perché John
Huston non perde occasione per piazzare un paio di staffilate, la critica al
colonialismo è chiara, ma non soffoca mai la storia e nemmeno la nostra voglia
di patteggiare comunque per i due soldati inglesi. L’ingordigia e la volontà di
credersi superiori verrà punita, guardando il film è impossibile non pensare a
“Il tesoro della Sierra Madre” (1947) perché il tema di fondo è lo stesso, la
critica a prendere il sopravvento al massimo è quella rivolta all’avidità
umana, eppure anche nel finale, non si smette mai per patteggiare per due
protagonisti così affiatati, ben recitati e alle prese con ottimi dialoghi come Daniel Dravot e
Peachy Carnehan.

A ben guardarli sono due invasori occidentali, arroganti,
non proprio istruiti e per di più anche Massoni, la fortuna aiuterà anche gli
audaci ma il destino finirà per punire gli avidi, eppure nel finale, quando il tono da commedia avventurosa, lascerà il passo al dramma e all’epica (proprio come accadeva
in L’uomo dai 7 capestri), ma anche qui come spettatori restiamo accanto ai due inglesi, che escono di scena intonando “The Son
of God goes forth to war”, petto in fuori, testa alta, schiena dritta, perché non
siamo dei, siamo inglesi.

«Questo è il coraggio inglese» (cit.)

Ed ora tutti in piedi per la colonna sonora composta da Maurice
Jarre e pronti a fare gli auguri di compleanno ad un classico, per tutti quelli
che non avessero visto il film, sapete che cosa fare, mi ringrazierete dopo.

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