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L’Uomo dai 7 capestri (1972): Impiccatelo!!

Questa settimana va in onda un nuovo capitolo della retrospettiva
dedicata a John Milius, e per celebrarla come si deve, ho coniano anche un
logo!

Il film di questa settimana è  stato sceneggiato da Milius nel 1972. Un
riuscito mix di epica e commedia, talmente strambo nella genesi, nella messa in
scena, e nei canoni del genere da essere riuscito a diventata negli anni uno dei
miei Western preferiti. Signore e Signori, vi presento L’uomo dai sette
capestri.

Era un po’che mi girava per la testa, quindi ultimamente mi sto riguardano qualche film di John Milius, molti li ho visti 67 volte, qualcuno (incredibile, ma vero) mi manca completamente, diciamo che in questa mia personale retrospettiva su Milius, rivedermi un titolo come “L’Uomo dai sette capestri” è stato come convincere un pesce a nuotare, questo è sicuramente uno dei film che fa parte della categoria “visti 67 volte”, fate 68…

I primi anni ‘70
per Milius sono stati un periodo di super lavoro, mentre era impegnato sulla sceneggiatura
di un Western per uno dei suoi miti cinematografici, John Huston (non
propriamente l’ultimo dei paperini), consegnò in tre settimane la sceneggiatura
completa di Ispettore Callaghan il caso Scorpio è tuo, ma prima di scrivere il
seguito delle avventure dell’Ispettore Callaghan, si mise al lavoro su “Corvo
Rosso non avrai il mio scalpo”. Nel giro di pochi anni, Milius ha messo su un
curriculum da sceneggiatore che levati, ma levati proprio.
“The Life
and the times of Judge Roy Bean” è un caso a parte, è forse il più emblematico
caso di pellicola nata per sbaglio, che diventa un filmone. Sì, perché “L’uomo
dai sette capestri” è figlio dello scontro tra il film che Milius aveva in
testa e come Huston ha deciso di girare tale materiale.
Pagato 300.000
ex presidenti spirati stampati su carta verde, Milius ci mise tipo… Un secondo
a ripudiare il film una volta visto in sala, secondo lui Houston glielo aveva
rovinato.



Però a vederlo così, non mi sembra proprio uscito fuori malissimo questo film…
Non è
difficile credere che una leggenda del Cinema come John Huston e un divo
all’apice della sua fama, come Paul Newman (Paolo Uomonuovo), che arrivava dal
successo di  “Butch Cassidy” (film di tre
anni prima) e che l’anno dopo avrebbe girato “La Stangata”, non avessero grossa
considerazione di uno sceneggiatore nemmeno 30enne. Da una parte ci sono i
commenti di John Huston che diceva di avere un gran rapporto con Paul Newman
sul set, divertendosi un sacco, dall’altra Milius che ammette di
essere stato bullizzato dai suoi colleghi più famosi.
Eppure Milius
credeva moltissimo in questo progetto, anche perché diciamocelo chiaramente, il
Giudice Roy Bean è uno dei personaggi più fighi ed epici che il West ci abbia
mai regalato:
solo la
frontiera Americana poteva sfornare la leggenda del Giudice Bean, ad Ovest del
Pecos, ad un tiro di sputo dal Messico, a cavallo tra Ottocento e Novecento,
Roy Bean è stato, citando una frase ricorrente nel film: “Un uomo di alta
levatura morale”.
Dispotico,
testardo, con un’incrollabile fiducia nella giustizia, anche se applicata in un
modo tutto suo, la sua è stata la parabola di una rarità, un pezzo da museo
arrivato fuori tempo massimo, capace di diventare un leader isolazionista che
con mano sicura ha guidato una piccola utopia di pace in cui puttane e
pistoleri vivevano insieme.



Portico, fucile e sedia a dondolo, più Americano della torta di mele.
Un prepotente
dalla parte giusta della barricata, guidato da ideali vecchia maniera, quindi
perfetto per essere spazzato via dal progresso, che con sè si porta corruzione
e furberie varie…
Una storia vera (se volete divertirvi cercatevi la biografia del Giudice in
rete) che è 100% Miliusiana, che con il suo script voleva rendere omaggio ad un
uomo integerrimo, difensore dei valori di un America vecchio stampo. Brutale,
ma giusto, violento, ma incorruttibile, un testardo con la schiena drittissima,
insomma.
Paolo
Uomonuovo e John Huston, invece, avevano idee diverse, principalmente una: divertirsi!
Guardando (anche
68 volte) “L’uomo dai Sette capestri” ci si può divertire a cercare di capire cosa
è farina del sacco di Milius e cosa è frutto del lavoro di John Huston,
secondo me è proprio grazie alle differenza di vedute dei due John che la
pellicola è diventata il filmone che è.



Il primo giro lo offre il Giudice, afferrate un bicchiere se non volete finire appesi…
L’inizio è micidiale, dicono che i primi minuti di un film ne determinino
l’andamento, sicuramente questo è un caso da manuale.
Reduce da una
rapina fruttuosa in banca, Roy Bean va in un bordello nel mezzo del deserto per
procurarsi alcool e puttane, il problema è che gestori e lavoratrici del
bordello lo riempiono di botte, gli rubano i soldi e cercano di impiccarlo.
L’intervento di quella che Bean definisce “un Angelo” (una Victoria Principal
che definire angelica è riduttivo) gli procura una pistola, con la quale Bean
sistema immediatamente il torto subito.
Una sparatoria
che dura un minuto. 60 secondi di follia omicida, in cui Bean sbraita, spara,
salta dalla finestra, massacra tutti e ne esce illeso. Qui è chiaro che Milius
avrebbe voluto un massacro grondante sangue, quello che porta sullo schermo
Huston, invece, è una scena fantastica, coreografata alla grande, dove possiamo
trovare un tipo ubriaco che nell’estrarre il ferro… Si spara nelle palle. Già da
dettagli come questo è chiaro che la differenza di tono voluta dai due John è
inconciliabile.
Ma bastano i
pochi minuti di questa scena, per chiarire fin da subito la dimensione
fantastica de “L’uomo dai sette capestri”, il giudice Roy Bean è imbattibile,
incorruttibile. Il West in cui si muove è selvaggio, anzi, spietato ben oltre
ogni immaginazione. Il film è una parabola del Self-Made Man in un tempo che
non c’è più, armato solo di fucile, cappio e di un grosso librone con il codice
penale del Texas, il nostro fonda un impero dove tutti vivono in pace.



“Vediamo, articolo 1… bla bla bla… ok capito, corda saponata e risolviamo tutti i problemi”.

Il giudice
amministra la giustizia da un Saloon adibito a tribunale chiamato “Jersey
Lily”/”La Bella Lily”, poiché tappezzato di fotografie e ritratti della musa
ispiratrice del Giudice Bean, l’attrice Lily Langtry. Un posto dove possiamo
trovare, oltre alla certezza della pena, la birra al costo di un dollaro (o 25
se il giudice sta perdendo a Poker) e dove la corda insaponata non manca mai.

C’è l’epica
dell’eroe Western, la parodia di un impero che nasce, cresce e finisce e onestamente
non riesco proprio a farne una colpa a John Huston, perché ha capito che per
rendere al meglio questi elementi (che Milius avrebbe preferito trattare in
maniera serissima) c’era un solo modo: esasperarli, renderli comici e caricaturali.
Ma lo fa in
maniera intelligentissima: non ci sono mai ammiccamenti o strizzatine d’occhio
al pubblico moderno, gli elementi comici sono ben inquadrati nella storia.



Una tipica giornata di lavoro per il Giudice Bean.
Gli uomini di
città sono dei leziosi Dandy, mentre i pistoleri del West sono sporchi,
sdentati e goffi. Le donne, tutte con il cappellino d’ordinanza in testa, sono
le eminenze grigie dietro a tutte le scelte degli uomini. Lo scontro maggiore
avviene proprio tra Bean (la cui barba posticcia è ancora più funzionale al
personaggio) e Gass, l’avvocato, il burocrate che permette l’avanzare del
progresso, e che porta via la città al Giudice usando l’arma letale della burocrazia.
Milius voleva
l’epica, Huston la commedia, le due cose ci sono entrambe e per un caso più
unico che raro vanno anche di pari passo. Le varie scene che riempiono il film
contribuiscono sia ad intrattenere divertendo, che ad innalzare la statura
morale e il mito intorno al Giudice Bean.
Ad esempio,
quando Roy Bean incontra un montanaro venuto al Sud (“Ho vissuto tutta la vita
tra le montagne, al freddo, ora voglio morire al caldo”) interpretato dallo
stesso Huston. Il tizio lascia la città, ma non dopo aver mollato a Bean un
grosso orso nero. La dimensione favolistica di questo West aumenta, perché Roy
non solo non viene divorato dall’orso, anzi, i due diventano amiconi, molto più che amiconi, addirittura compagni di bevute (storia vera!) e tutti insieme
con la bella Messicana, vanno addirittura a fare un picnic, con tanto di orso
spinto sull’altalena (vi giuro che nel film questa scena c’è davvero ed è una
figata!).



“Niente lingua, aspetta almeno il secondo appuntamento”.
Oppure, uno dei
miei momenti preferiti: l’arrivo in città di Bab Bob l’Albino (“Da non confondere
con Bab Bob lo sciancato”) venuto ad uccidere Bean, il nostro risolve la
pratica alla sua maniera, spiccia e decisa, in cui contano solo i risultati. In
tutte queste scene, non succede mai di ridere di Roy Bean, al massimo si ride
con lui e la comicità aiuta a “creare bei ricordi” di un film che fa della
malinconia dei tempi andati la sua forza.



Il pistolero più albino da questa parte del Pecos.
Consiglio
sempre di procurarsi la versione integrale, quella con la spassosa
scena di bevute tra Roy e l’Orso, non solo perché è una delle mie preferite, ma
soprattutto perché in un niente Milius riesce a rigirarla passando dalla
commedia al dramma. 

Nella parte centrale il film, bisogna dirlo, rallenta
moltissimo e rischia l’impantanamento, in questa porzione di pellicola Bean si
scontra con il mondo moderno. In sequenza arriva prima la scena dell’Orso, poi
il viaggio a San Antonio per assistere allo spettacolo di Miss Lily. Non è
propriamente il mio momento preferito, anche perché un po’pedestremente ribadisce quello che abbiamo già capito, ovvero che il Giudice
Bean è fondamentalmente Naif, qualcuno un minimo scafato e con brute
intenzioni, se lo porta via con tutte le scarpe…
In generale, i
dialoghi vanno via lisci come l’olio, ci sono alcuni passaggi veramente
brillanti, come l’incontro tra il Giudice e il Predicatore (Anthony Perkins) ad
inizio film.
Il Predicatore
si spara un monologo come ultimo tributo ai morti appena seppelliti, per tutto
il film Bean, non farà altro che darci la sua versione delle parole di
quell’omelia funebre, o almeno di quelle che lui ricorda (o ha capito), il
risultato è una cosa delirante che tira in mezzo giovani leoni che perdono i
denti e altre amenità del genere, ennesima dimostrazione che Bean capisce tutte
le cose a modo suo.



“Ma tu non sei quello che aveva quel bel motel a conduzione familiare?”.
O più
semplicemente, le rigira come gli tornano più comode, ad esempio il
tormentone “La Legge è serve della Giustizia”, che per effetto di un colpo di
genio in fase di scritture di Milius ci regala questa perla:
“Justice is the handmaiden of law”
”You said law was the handmaiden of justice”
“Works both
ways”
Oppure, il
monologo di Bean in cui si scusa con le prostitute, per averle chiamate
“Whore”… No sul serio, quello è un classico!
Accusato
all’uscita di revisionismo storico, o di promuovere valori fuori moda, secondo
me il film funziona alla grande come celebrazione di un’epoca che non c’è più.
Il protagonista comico, ma carismatico, ultimo baluardo di un tempo che è finito,
ricorda molto “Il Grinta” nella versione dei Fratelli Coen (che non a caso
citano questo film come uno dei loro Western preferiti). Anche il crescendo di
distruzione che conclude il film, somiglia parecchio all’esaltante finale del Django
(Unchained) di Tarantino. Sì, perché Huston capisce bene che materiale ha per le
mani e con il passare dei minuti, la comicità cede il passo man mano che ci
avviciniamo al finale che ha due epiloghi.

Mi piace pensare che questa sia una foto d’epoca del vero Giudice Bean.
Il primo è
quello in cui la figlia di Bean, vede un uomo che “Sembra uscito da una stampa
antica”, torna a mettere a ferro e fuoco la città, corrotta dal
progresso portato da Gass. Il Giudice scomparso per 20 anni, ritorna come un eroe
del passato, per fare quello che gli viene meglio, ovvero: portare la giustizia.
L’apice è una riga di dialogo, che ogni volta, anche dopo 68 volte, mi fa
saltare in piedi con il pugno alzato:
“Who are you?!”
“Justice, sons of bitches!”
Il fuoco della
furia e della giustizia del Giudice libera la città ripulendola dal progresso,
restituendola al deserto (qui ci starebbe una citazione a Lawrence d’Arabia), trovata
che contribuisce moltissimo alla dimensione favolistica del film. Nella realtà
il tribunale del giudice Bean è ancora in piedi e visitabile, di fatto il
finale del film contribuisce a lasciarci l’illusione che il West del Giudice
Bean esista ancora e magari spostandosi sufficientemente ad Ovest, potremmo
ancora trovarlo.



Wild, ma veramente tanto Wild West.

Secondo me,
però, sarebbe un errore etichettare tutto il film come un “Si stava meglio
quando si stava peggio”, anche perché stranamente, i due John sembrano essere in
accordo su una cosa sola. Ovvero che il West era sì pazzo e violento, ma il
mondo moderno, che ha spazzato via con la sua superiorità fisica (non morale)
il vecchio mondo, forse è ancora più pazzo e brutale del Far West.

Sullo sfondo
di tutto questo, Roy Bean è un perdente destinato a fallire, il film
celebra la morte della frontiera senza i toni rugginosi di “The unforgiven”, ma
usando anche la risata, cosa che per me è straordinaria, considerando che
l’umorismo è sempre stato un po’alieno al genere Western.
Il film è
girato con mano fermissima da Huston, mentre Paul Newman si porta tutta la
pellicola sulle spalle. Non sbaglia niente, ha tutti i tempi comici giusti, risulta
fantastico nei momenti drammatici e grazie ad un carisma naturale riempie lo
schermo. Il suo costante gigioneggiare secondo me funziona, perché lo rende in
linea con l’atmosfera del film, oppure sottolinea la sua condizione di
outsider. Poi per altro, a fare da contorno, nel cast troviamo nomi come
Jacqueline Bisset (nei panni di Miss Lily) o faccioni storici come quello di
Stacy Keach o Ned Beatty, scusate se è poco.



Tale padre, tale figlia…
Il secondo
epilogo del film è quello definitivo. Dopo una vita passata ad adorarla, anche
senza averla mai incontrata di persona, la divina Lily Langtry, va in visita al
tribunale del Giudice, divenuto ormai un museo sulla via di Bean. Leggendo la
lettera lasciata dal Giudice, capiamo che l’uomo è sempre stato difensore
dell’onore e del buon nome dell’attrice, proprio come un gentlemen di altri
tempi. La stessa Miss Lily è incredula del fatto che appena vent’anni prima, la
vita in quello stesso posto fosse così selvaggia. La definitiva parola fine sul
West, ridotto a storia dal mondo moderno.
Per essere un’opera, ripudiata dal suo sceneggiatore e buttata sul ridere dal suo regista e
dal divo protagonista, a mio avviso “L’Uomo dai Sette capestri” è un filmone
figlio delle incomprensioni. Uno di quei rari casi in cui la somma delle
singole parti, non in accordo tra di loro, è tale, da sfornare un film unico e
bellissimo. Parlandone l’ho paragonato a Western quasi tutti moderni, perché
secondo me questo film era avanti di 40 anni. Un omaggio e una riflessione
sulla fine della frontiera, un capolavoro strambo e fuori dal suo tempo.
Proprio come il suo protagonista.
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