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Macbeth (2022): Coen tornate insieme!

La vita è quello che succede mentre sei impegnato a fare dei piani. Lo aveva detto John Lennon mi pare e torna buono per l’inizio di questo post, chi lo avrebbe mai detto che avrei vissuto così a lungo da vedere i fratelli Coen separarsi.
Certo a lungo “il regista a due teste” ha firmato i suoi film solo come “diretti da Joel Coen” per motivi squisitamente burocratici, ma lo sapevamo tutti che in realtà i loro film erano scritti e diretti da entrambi i fratellini del Minnesota, i cui ultimi film sono stati largamente sottovalutati per il solito motivo, i Coen da sempre fanno parte di quella strettissima cerchia di grandi nomi per cui se il loro ultimo lavoro non è un capolavoro conclamato, automaticamente deve risultare una tragedia, forse per questo Joel ha deciso di continuare la sua carriera solista proprio con una tragedia, quella di Macbeth.

Per la nuda cronaca Ethan pare che abbia sviluppato un certo senso di fastidio dei confronti dell’industria cinematografia, ufficialmente non si è ritirato ma già da un po’, fin dalle sue ultime apparizioni pubbliche, pare non più interessato a dirigere film. Joel invece è di un altro avviso e il suo “Macbeth” è una versione del tutto personale, se vogliamo anche molto semplificata e ridotta all’osso (in più di un senso) della tragedia scritta da William Shakespeare.

Lati positivi, finalmente ho capito quale dei due è Joel. Magra consolazione lo so.
Joel Coen riduce tutto a 105 minuti, una rarità per i film contemporanei ancora di più per un’opera tratta dal Bardo, perché? Perché il fratellino superstite (artisticamente parlando, cent’anni di salute ad entrambi) della storia originale interessano per lo più quegli argomenti che sono ricorrenti anche nella filmografia Coeniana: l’uomo e la sua follia, il caso come innesco per eventi destinati ad esplodere diventando sempre più tragicomici e non dimentichiamo il sangue, che è una delle cifre stilistiche del cinema dei Coen. Prima o poi mi abituerò anche a chiamarli usando il singolare, datemi tempo, ho ancora il cuore spezzato.

Prendiamo subito Dumbo per le orecchie e affrontiamo l’elefante al centro della stanza? Non vi dico nemmeno di cosa stiamo parlano perché penso che dover ancora trattare la faccenda sia grottesco, quindi vi faccio una domanda: per un ruolo come quello di Macbeth che da sempre, fin da quando l’opera veniva (e tutt’ora viene, con cadenza quasi annuale) presentata a teatro, che ha sempre rappresentato una delle massime sfide per i talenti mondiali della recitazione, voi non vorreste poter vedere uno dei più grandi di sempre cimentarsi con questa pietra miliare, questo bando di prova universale del talento? Io si, ecco perché l’idea di Denzel Washington nei panni di Lord Macbeth mi provoca una sola reazione, l’esaltazione. Perché per il vecchio Denzel io ho terminato gli aggettivi superlativi ormai diversi anni fa, quindi sono felice che Joel Coen lo abbia scelto e gli abbia costruito intorno un film tanto sospeso nel tempo e volutamente artefatto (quindi cinematografico) da rendere un attore di colore non più un argomento di discussione, perché non dovrebbe mai esserlo, tanto meno in un film con questa atmosfera.

«Polemica? Shhhhhh»
Iniziamo dai difetti? Digerita l’uscita su Apple TV e non al cinema (un dettaglio che sta per tornare tristemente di moda e chissà per quanto altro tempo ancora), per certi versi a volte sembra più un film della A24 che di Joel Coen: il bianco e nero rigoroso, il formato fighettino in 4:3, si sente il retrogusto della casa di produzione il cui stile ricercato (e vagamente Hipster) è uno dei suoi marchi di fabbrica.

Per i motivi che vi raccontavo lassù poi, gli appassionati del Bardo si strapperanno la barba per la semplificazione portata da Joel Coen alla trama, inoltre la recitazione in prosa sarà lo scoglio contro cui s’infrangeranno di faccia molti spettatori, ma posso essere onesto? Ho trovato molto più riuscita questa versione che quella piatta, verbosa e senza picchi, vista poco tempo fa con Michael Fassbender nello stesso ruolo. Odiatemi, ma la penso così.

«Ti cerchi proprio le rogne vero Cassidy? Diventerai popolare come il mio arredatore d’interni»
Da grande uomo di cinema, Joel Coen ha firmato un Macbeth che si rivolge più a chi Macbeth lo conosce grazie alle sue precedenti incarnazioni cinematografiche, piuttosto che all’opera di Billy Shakespeare, per certi versi un Macbeth filologico che prende il sangue e certe caratteristiche sopra le righe che al tempo, vennero criticate anche alla versione di Roman Polański del 1971 (storia vera).
Dalla versione del 1948 di Orson Welles viene presa in prestito la centralità del protagonista, ingombrante, quasi intimidatorio nella presenza, un ruolo scritto dal sarto per uno capace di fare anche paura come Denzel, così sull’argomento elefantizio di cui sopra, possiamo metterci una pietra tombale o se preferite, una bara volante.

Eppure Coen pesca anche da quello che a mio modesto avviso resta il migliore adattamento dell’opera di William Shakespeare di tutti i tempi, pur non avendo utilizzato nemmeno una riga del testo scritto dal Bardo, mi riferisco a “Il trono di sangue” (1957) di Akira Kurosawa da cui arriva questo bianco e nero implacabile in cui Joel Coen è perfettamente a suo agio.

«Allora Ragioniere, che fa batti?» (cit.)
Grazie alla fotografia di Bruno Delbonnel, il regista firma un mondo volutamente austero e irrealistico, tutto girato in interni e nebbia (anche per motivi di pandemia, che ha messo in pausa le riprese, storia vera), in cui l’elemento sovrannaturale è sottolineato dalle tre streghe che qui sono tre in una, visto che sono interpretate da una prova snodata alla Gollum di Kathryn Hunter, che mi ha ricordato quel mio piccolo stupido sogno di vedere un giorno i Coen alle prese con un horror, uno in senso classico e non il solito loro film sull’orrore dell’umana quotidianità, anche se ormai dovrò riporlo nel cassetto a meno che Joel non decida di farmi felice un giorno, con la A24 di mezzo, potrebbe anche accadere.

Poi di mio sono un ragazzo pane e salame, persone più intelligenti e preparate di me considerano Macbeth quasi un’opera minore tra le tante partorire dal Bardo, ma ho sempre avuto un debole per questa storia di predeterminazione e follia, di megalomania fuori controllo e di potere che dà alla testa. Mi rendo conto che questa versione di Joel Coen abbia quel tocco fighetto garantito dalla A24 che farà sciogliere i cinefili nell’era dell’internèt oppure che verrà demolito, perché tutto quello firmato Coen deve essere per forza capolavorò, però devo dire che vedere Denzel titaneggiare nel ruolo, quasi mi è basato. Quasi, perché oltre all’operazione filologica (anche abbastanza fighetta) e alla gran prova di Denzel, il film sembra più uno della A24 che uno dei Coen, e se la casa di produzione può avere altri film così, non so quanti altri Coen avremmo.

«Guarda che non stiamo mica recitando l’Otello sai?»
Certo è innegabile che ci sia poca chimica tra la bravissima Frances McDormand nei panni di Lady Macbeth e suo marito, sullo schermo, non mi riferisco a Joel Coen, che si è portato dietro la signora anche nella sua prima avventura da solista. Per un film funestato dalla pandemia ci può anche stare, anche se ad impressionarmi davvero è stata proprio la prova di Denzel Washington, capace di sprigionare carisma ad ogni fotogramma, tanto da riempire a volte da solo set e fondali così volutamente sterili e fittizi. Se poi da Lord Macbeth ti aspetti un certo grado di ferocia e pericolosa follia, Washington qui la restituisce in tutta la sua efficacia, quindi se avevamo ancora bisogno di una prova del suo talento, eccola, tanto vale che sia uno dei massimi banchi di prova per un attore come Macbeth no?

Insomma, resta un colpo al cuore per me, da sempre fanatico del cinema dei fratellini del Minnesota, sapere di questa loro separazione artistica che spero duri come quella dei Litfiba (mi scappa una citazione), in ogni caso in bocca al lupo a Joel per il suo futuro, chissà cosa arriverà ancora, se il primo film scelto è stato una sfida come questo, anche se essersi affiancato alla A24 è già una bella presa di posizione. Se devo essere onesto, già sento un po’ la mancanza del “regista a due teste”.

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