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Malcolm X (1992): a change is gonna come

In occasione del compleanno del grande leader nero, il 19 maggio si festeggia il “Malcolm X Day” negli Stati Uniti, mi sembrava proprio il giorno giusto per ricordare anche un altro compleanno, quello della biografia diretta da Spike Lee.

L’intenzione di realizzare un film sulla vita di Malcolm X in realtà era radicata ad Hollywood fin dalla fine degli anni sessanta, infatti i diritti di sfruttamento dell’autobiografia vennero ceduti alla Warner Bros. già nel 1967, un paio di anni dopo lo scrittore afroamericano James Baldwin, che aveva conosciuto di persona Malcolm X aveva iniziato invano a scrivere una sceneggiatura, solo il primo dei tanti tentativi mai andati a buon fine, che nel corso degli anni hanno visto coinvolti nomi come Calder Willingham prima e successivamente anche i vincitori del premio David Mamet e Charles Fuller. Non proprio la pizza con i fichi ecco.

Tra fogli accartocciati e false partenze, il progetto arriva fino al 1988, anno in cui Spike Lee si fa conoscere grazie al successo di “Aule turbolente”, ma proprio per le posizioni controverse del regista (e la sua proverbiale linguaccia) la Warner Bros. fa melina a centro campo, decidendo di affidare il progetto al più comodo (ma non per questo meno politico, la sua filmografia parla da sé) Norman Jewison, notizia per altro presa benissimo sa Spike Lee, seee lallerò! Il regista di Brooklyn cominciò a fare il diavolo a quattro, sostenendo che gli eredi di Malcolm X non avrebbero mai voluto vedere questo film diretto da un bianco, trovando l’appoggio del drammaturgo August Wilson. Insomma Spike Lee che fa Spike Lee, solo che quella volta ebbe la meglio, Jewison fece le valige e passò la palla a Lee, ma tornerà più avanti nel corso del post, quindi occhio.

«Gliene ho dette quattro a quel canadese», «Guarda che io ci lavorerò con quel canadese»

Tutto tranquillo fino al primo giorno di riprese? Con Spike Lee di mezzo? Impossibile. Riprendendo parte della sceneggiatura incompleta di James Baldwin, Lee si mise al lavoro scrivendo quasi tutto a quattro mani con Arnold Perl, secondo le ricerche del regista Newyorkese era un fatto comprovato che gli attentatori di Malcolm X appartenessero ad una moschea di Newark, questo sollevò un vespaio, il poeta afroamericano Amiri Baraka, uno dei nomi più noti della controcultura afroamericana, si mise a capo di un boicottaggio contro il film, reo secondo lui di diffondere l’odio nella comunità, ma Spike Lee andò dritto per la sua strada, rispondendo con quella sua linguaccia a tutte le accuse per cui il suo film, avrebbe omesso delle parti della vita di Malcolm X, sottolineandone altre, ovviamente quelle più incendiarie.

Incendiarie, tipo così, giusto per darvi un’idea.

Malgrado le pressioni della nazione dell’Islam per tentare di addolcire i toni, Lee non molla su niente, nemmeno sulla durata del suo film, tre ore di durata per la Warner sono troppe: «Ah però non erano tante per Oliver Stone per raccontare dei proiettili magici sparati contro il vostro presidente irlandese eh? Chi lo ha prodotto “JFK – Un caso ancora aperto”? Voi mi sembra?». Più o meno questo il tono di Lee, che pare si sia sentito anche al telefono con Stone, che ovviamente gli ha consigliato di non indietreggiare di un passo, risultato? 202 minuti di durata per Spike Lee, che come suo solito non le mandò a dire, cominciando a chiamare la casa di produzione “la piantagione” (storia vera). Mai prendere lezioni di diplomazia di Spike Lee, mai!

La lapidaria risposta alla domanda: cosa possiamo fare noi bianchi per la vostra causa.

Il piano del regista di New York è chiaro, dirigere un film che risultasse grande, almeno quanto il personaggio di cui voleva raccontare la storia, ma soprattutto che sapesse prendere le distanze dalla Hollywood bianca, un film dall’ampio respiro come una produzione di Scorsese, ma con le radici piantate a Brooklyn, una mossa che a distanza di trent’anni dalla sua uscita, molti sono ancora pronti a giurare che a Spike Lee non sia riuscita, ma forse solo ad una prima analisi distratta.

Certo più volte nel corso dei 202 minuti, “Malcolm X” si concede dei momenti da biografia classica, Scorsesiano nell’andamento ma andiamo? Davvero vogliamo criticare un film per cui si può per alcuni tratti scomodare questo aggettivo? Io non me la sento, anche perché la critica di Lee si muove su più livelli, iniziamo dal meno palese: il cast.

Una delle migliori prove di Denzel o una delle migliori prove di Denzel? Siete liberi di scegliere.

Dopo averci lavorato in “Mo’ Better Blues” (1990), Lee non ha dubbi e mette il ruolo del protagonista in cassaforte, Denzel Washington si applica con grande dedizione alla parte, la sua capacità di risultare intenso, drammatico e perché no anche minaccioso quando serve, tutte caratteristiche naturali di Washington, sono perfette applicate al personaggio, ma quello che colpisce di “Malcolm X” sono le attrici e gli attori bianchi che Lee riesce a radunare, beccami gallina se uno di loro ha un ruolo positivo! Karen Allen è l’assistente sociale che spezza la famiglia del protagonista, David Patrick Kelly il professore che riconosce in lui uno studente intelligente ma lo indirizza verso lavori manuali, più adatti ad uno della sua razza, Christopher Plummer il cappellano della prigione viene demolito nello scontro verbale sulla religione dal protagonista mentre Peter Boyle è il capitano della polizia chiamato a sedare la protesta pacifica. Spike Lee non prende prigionieri e da sempre, riesce ad essere estremista nel suo essere democratico fino al midollo, forse è vero che solo lui aveva il fuoco dentro che serviva per raccontare al cinema un personaggio fondamentale ma controverso come Malcolm X.

Nessuno ha mai guardato Peter Boyle con tanto odio, forse solo Sean Connery.

La prima proiezione del film completo che si svolse negli uffici della Warner, avvenne lo stesso giorno del verdetto del caso Rodney King, nella sua autobiografia Lee racconta di un mucchio di bianchi tutti a culo stretto, con l’occhio sull’orologio, terrorizzati all’idea di vedersi piombare addosso un’orda di neri incazzati pronti a rivoltare lo studio (storia vera). Il film malgrado tutto incassò più che decentemente ma meno delle aspettative, almeno rispetto al budget speso, altra occasione per Spike Lee per puntare il dito contro “la piantagione”, colpevole secondo lui di essersi impegnata di più nella promozione di “Gli Spietati” e poi chiedetevi perché Lee ogni volta che può attacca Eastwood, che semplicemente se ne frega delle critiche spesso campate in aria del regista di Brooklyn, quella al suo “Lettere da Iwo Jima” (2006) resta la più insensata di tutte.

Quando piove grandina, ricorderò per sempre la faccia di Denzel Washington, quella sera di febbraio inquadrato dopo essersi visto scippare da sotto il naso l’Oscar per il ruolo di miglior attore protagonista da Al Pacino per “Scent of a Woman – Profumo di donna” (classica scelta pavida dell’Accademy), abbiamo visto Denzel incazzato tante volte nei suoi film, ma quella faccio io non la dimentico, avesse potuto avrebbe fatto esplodere il teatro solo con lo sguardo (storia vera). Posso dire una cosa polemica anche io anche se non sono Spike Lee? Denzel Washington avrebbe poi vinto l’ambito premio nel 2002, in una serata particolarmente incentrata su attrici e attori di colore per l’Accademy, ma per il ruolo del nero cattivo e losco di “Training Day” (2001), meditate gente, meditate.

Vi assicuro che lo sguardo di Denzel quella sera era molto, ma molto più incazzato di così.

“Malcolm X” è un film bellissimo, ditemi quello che volete, 202 minuti sono tanti ma qui filano alla grande, perché Spike Lee divide in maniera netta la storia in tre atti molto ben identificabili, da ognuno dei quali il suo protagonista esce con una trasformazione fisica, metafora di una interiore, tale da rendere tutto ancora più chiaro (gli occhiali dopo la prigionia, la barba dopo il viaggio alla Mecca), ma prima di tutto Spike Lee utilizza il mezzo cinematografico al suo meglio per raccontare i tre atti di questa storia. La gioventù del protagonista è quasi un musical dai noti caldi (il direttore della fotografia Ernest Dickerson fa un lavoro incredibile in questo film), Malcolm Little è un nero che vorrebbe essere bianco, si veste seguendo la moda degli “Zoot Suit” sottoponendosi alla tortura dello stiramento dei capelli, una pomata che brucia come l’inferno se lasciata troppo tempo sulla testa, cosa che puntualmente al protagonista accade ripetutamente nel corso del film.

No, non è la versione firmata da Spike Lee di The Mask.

Al suo fianco il compagno di furti e bisboccia Shorty Henderson (interpretato dallo stesso Spike Lee), perché il primo atto di “Malcolm X” sembra quasi tutt’altro, rispetto al film che si apre in tono funereo, con il discorso sull’incubo americano del grande leader, le immagini del pestaggio di Rodney King e la bandiera americana che va in fiamme (per la serie: toccarla pianissimo). Eppure è un film appassionante perché il suo odioso protagonista ha carisma, anche se spreca il suo talento e il suo cervello dietro alla droga, le donne bianche, vivendo come lo stereotipo del nero di cui i bianchi hanno paura. Qui Spike Lee fa un grande utilizzo del suo cast, Theresa Randle passa da donna angelicata a ragazza sfruttata dall’uomo sbagliato nel giro di metà film, Delroy Lindo (altro fedelissimo di Lee), regala l’ennesima grande prova nei panni dell’allibratore dalla memoria infallibile che vive della sua fama da strada, West Indian Archie.

Educazione di una canaglia, prima di capire davvero il proprio potenziale.

Si resta in tensione per l’arresto di Malcolm così per la sua vita in carcere, dove la fotografia si attesta su colori decisamente meno caldi rispetto al primo atto del film e dove il protagonista impara il valore del suo essere nero (e fiero), dalla prigione Malcom esce rinato, ma è qui che torna di moda il nostro già citato Norman Jewison: nella durissima scena del protagonista chiuso in cella d’isolamento, in lotta con la sua mente per non impazzire, Denzel offre l’ennesimo grande momento di recitazione (lo farà per tutta la durata del film), una scena che avrebbe idealmente ripreso quasi identica, quando nel 1999 recitò il ruolo di Rubin Carter nel film “Hurricane”, dove io sono piuttosto certo, Jewison abbia voluto rifare quella scena chiave che era presente già in “Malcolm X”. Ma occhio, perché il buon vecchio Norman non è l’unico regista bianco che ha dimostrato di aver imparato qualcosa dal film di Spike Lee, più avanti ci torneremo.

Tutto il secondo atto di “Malcolm X” ci mostra la parte più radicale e inflessibile di un personaggio che carisma ne ha da vendere, ma non è mai ritratto come un santo, anzi tutt’altro, è proprio difficile prendere le parti per uno che anche dopo la sua rinascita spirituale, trascura la moglie Angela Bassett per la sua missione, come se avesse sostituito una droga con un’altra, prima quella che si sniffava, ora la sua sacra crociata al fianco del molto onorevole Elijah Muhammad (Al Freeman jr.). Questa è la parte dove l’estremismo democratico di Lee si sposa alla perfezione con il suo personaggio, anche il suo Malcolm X combatte per una causa sacrosanta, ma lo fa con una volontà inflessibile che di democratico ha ben poco, quando la sua fede in Elijah Muhammad verrà meno, il film è pronto per un ulteriore cambio di fotografia, ma anche per l’ultima evoluzione del suo protagonista.

«Bow ties are cool» (cit.)

Nemmeno nell’ultimo atto di “Malcolm X”, Spike Lee fa l’errore di dirigere un santino, un’agiografia del suo personaggio, anzi è bravissimo a sottolineare come la comunità nera sia spezzata da faide interne molto ben rappresentate dagli attentatori, tra cui spicca Giancarlo Esposito, altro pretoriano e fedelissimo dei film di Lee, molto prima di mettersi a vendere pollo in Breaking Bad.

In “Malcolm X” ci sono così tanti momenti in cui Spike Lee dimostra di essere un regista di classe che sono anche difficili da elencare tutti, l’uso dei flashback paterni che diventano parallelismi con la vita del figlio, oppure la lunga sequenza preparatoria all’attentato, in cui come spettatori, seduti sulla poltrona comoda della storia, sappiamo a cosa sta andando incontro il protagonista, ma Lee allunga volutamente i tempi, li dilata, regala a Denzel Washington la sua inquadratura simbolo (macchina da presa fissa e sfondo che scorre dietro come, come se il protagonista fosse fermo, la trovate in tutti i suoi film), con il destino segnato, il Malcom X di Spike Lee va incontro al momento in la sua vita terrena finirà, per dare il via alla sua leggenda, lo fa sulle note dell’iconico pezzo “A change is gonna come” di Sam Cooke, cantante di cui Malcolm X era amico e che come vi dicevo lassù, anche un altro regista avrebbe utilizzato, nella fattispecie Michael Mann in Alì, proprio per la scena della morte di fratello Malcolm.

A Spike Lee joint (marchio di fabbrica)

Quello che mi piace poi del finale di “Malcolm X” è il modo in cui Spike Lee come spettatori, ci sfila fuori dalla finzione del cinema, aprendo le porte del suo film alla realtà, prima con le foto in bianco e nero di Malcolm X, poi con una sfilza di volti noti che hanno deciso di prendere parte all’ultima scena Ossie Davis, Bill Cosby, Michael e Janet Jackson, Magic Johnson e Michael Jordan, ma nessuno di questi grandissimi nomi me ne voglia, perché il colpo vero di Lee è il monologo finale di Nelson Mandela in persona, che a ben guardarlo di cinematografico non ha poi davvero molto, ma in modo del tutto naturale Spike Lee sembra volerci dire che il suo personaggio è stato talmente grande e importante da non poter restare all’interno del riquadro dello schermo, la frase «Io sono Malcolm X» è l’invocazione alla Spartaco fatta dal regista ai suoi fratelli e sorelle. Spike Lee sarà quello che sarà (ed è quel che è), gli possiamo criticare quasi tutto, anche il (dis)gusto nel vestire, ma non possiamo dire che sia sempre stato un regista davvero capace o che per “Malcolm X” non avesse avuto delle motivazioni superiori. A distanza di trent’anni è ancora più chiaro che solo lui poteva raccontare al meglio la storia di questo grande leader nero al cinema, quindi buon Malcolm X Day.

Sepolto in precedenza giovedì 19 maggio 2022

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