Trovo ironico e anche un po’ deprimente il fatto che il film di oggi sia spesso ridotto ad un quiz per cinefili, quasi un modo per mettere alla prova le conoscenze cinematografiche: «Sai che esiste un film più vecchio dove compare Hannibal?», quando, invece, questo film e molto più stratificato e affascinante di così. Benvenuti al nuovo capitolo della rubrica… Macho Mann!
Una delle costanti di tutti gli eroi Manniani è quella di essere impegnati in una corsa contro il tempo, un tratto che sicuramente ereditano dal loro illustre padre, non ho idea di quante ore dormisse la notte Michael Mann negli anni ’80, ma credo molto poche. Non pago di aver diretto tre film arrivati tutti sul grande schermo e di aver ufficialmente dato il via e allo stesso tempo riassunto lo stile e la moda degli anni ’80 sul piccolo schermo con Miami Vice, Michele Uommo attorno al 1986 aveva le mani piene, perché oltre ad essere produttore esecutivo della serie con Sonny e Rico, era anche responsabile della meno fortunata “Crime Story” (due stagioni tra il 1986 e il 1988) e, non pago, ha trovato il tempo non so bene come di dirigere anche qualche altra cosina, il filmino delle vacanze? Quello della comunione del nipote? No no, semplicemente il film che mette fine alla prima fase della sua carriera, quella bomba di “Manhunter”. Ora capite perché il tempo per Mann è così importante.
“Manhunter” è un film fondamentale per il regista di Chicago, perché gli permette di portare sul grande schermo quella cultura delle immagini, applicata al vuoto morale di alcuni dei personaggi narrati, messa a punto nelle prime due stagioni di Miami Vice, quelle dove l’influenza Manniana risulta più netta e, parliamoci chiaro, anche le più riuscite di quella serie. Eppure, non bisogna essere Will Graham per capire cos’abbia attirato Mann verso un adattamento del romanzo di Thomas Harris, il secondo dello scrittore intitolato “Red Dragon” (1981), da noi in uno strambo Paese a forma di scarpa uscito la prima volta tre anni dopo con il titolo “Il delitto della terza luna” (Mondadori, 1984), in “Red Dragon” ci sono molti dei temi cari a Mann: personaggi opposti e speculari, simili, ma su due fronti opposti come un profiler criminale dell’FBI e un Serial Killer, quella corsa contro il tempo che è il filo rosso che lega tutti i personaggi Manniani, ma anche l’occasione perfetta per il regista per fare un discorso, forse definitivo, sulla potenza delle immagini applicate alla narrazione, ma prima bisognava affrontare un altro drago, vecchia conoscenza di questa Bara, Dino De Laurentiis.
Lo storico produttore aveva messo saldamente le mani sui diritti di sfruttamento del romanzo di Harris, ma da buon italiano era affetto da un’abbondante dose di scaramanzia, niente “Dragon” nel titolo, perché Dinone nostro era ancora scottato dal flop al botteghino di “L’anno del dragone” (1985) di Michael Cimino, inoltre, nessuno qui vuole che il film venga scambiato dal pubblico per una di quelle “cinesate” di arti marziali, quindi via “Red Dragon” in favore del più piatto e meno incisivo “Manhunter” che a Mann non è mai piaciuto più di tanto, in compenso, con la libertà totale sul contenuto del film e sulla sceneggiatura (da lui firmata), il regista di Chicago si è messo ventre a terra a lavorare sodo.
Ancora una volta abbiamo un protagonista e la sua nemesi che sono due facce della stessa medaglia, come Frank e Leo di Strade Violente, ancora una volta uno dei buoni deve fare un patto con un “mostro” per poterne beccare un altro, un tema che in qualche modo possiamo ritrovare in La Fortezza. Insomma, la continuità tematica è garantita perché Will Graham l’ex profiler criminale dell’FBI ha il volto e il corpo di William Petersen (attore che ha esordito proprio con Mann prima di diventare il prediletto di Friedkin, che inizio carriera incredibile per lui!), un altro professionista dedito al suo metodo e al suo obbiettivo, impegnato in un’altra ideale corsa di Jericho contro il tempo.
All’inizio del film Will Graham è un uomo che ha quasi ritrovato la sua serenità (infatti Mann ce lo mostra vicino al mare, a dividere lo schermo con Dennis Farina nei panni di Jack Crawford) dopo aver perso quasi la sanità mentale per arrestare Hannibal Lecktor e non Lecter, per evitare problemi legali con i diritti di Il silenzio degli Innocenti su cui De Laurentiis non poteva avanzare richieste. Un nuovo assassino uccide seguendo le fasi lunari, un caso brutto con alcune famiglie uccise brutalmente, per cui Crawford ha bisogno del suo uomo migliore che dovrà abbandonare l’apparente serenità della sua famiglia e della sua spiaggia per passare dal blu (manniano) e calarsi dentro il nero, se mi passate una citazione a zio Neil Young.
Per mettere in chiaro la posta in gioco, Michael Mann si gioca subito una delle sue celebri scene romantiche che vede protagonista Will e sua moglie Molly (interpretata in una scelta del tutto non casuale da Kim Greist), dopo aver fatto la sua prima apparizione in Strade violente, è qui che il famigerato “Blu Manniano” prende davvero forma, grazie alla fotografia impeccabile di Dante Spinotti nasce uno dei simboli del regista di Chicago, quello sfondo blu sul mare che per Mann è sempre simbolo di serenità e pace, quella che Will dovrà abbandonare per beccare Dollarhyde e ritrovare se stesso.
L’assassino in piena fase di mutazione (tema e struttura della storia verrà ripresa da Harris quasi identica per Il silenzio degli innocenti) si chiama Francis Dollarhyde, la polizia lo ha ribattezzato la Fatina dei denti (The Tooth Fairy) per la sua propensione a lasciare segni di morsi sui corpi, anche se lui vorrebbe essere riconosciuto come il Grande Drago Rosso, nome ispirato al dipinto di William Blake. Ma siccome questo viaggio dal blu al nero (e ritorno) per Will è anche un viaggio dentro se stesso, in cerca di qualche indizio chiave prima il profiler dovrà chiedere aiuto al dottor Lecktor.
Nell’adattare il romanzo di Harris, Michele Uommo asciuga tutti i personaggi riducendoli quasi ad archetipi narrativi, lasciando che sia la potenza delle immagini a colmare il racconto, un trionfo dello “Show, don’t tell” che va a braccetto con il sottotesto di “Manhunter”, un film sulla potenza delle immagini, dove lo sguardo e il “vedere” pone chi riesce a farlo in una posizione di forza in questa caccia all’uomo, insomma Mann trasforma le parole di Harris in puro cinema, anzi in puro cinema Manniano in piena mutazione, proprio come il personaggio di Dollarhyde, infatti “Manhunter” rappresenta l’apice dell’estetica anni ’80 di Mann, massa a punto con Miami Vice e portata sul grande schermo, un’abitudine per il regista di Chicago che tornerà spesso nel corso della rubrica, si sperimenta in Tv e si fa la “bella” al cinema.
Nel film sono assenti tutti i flashback sul passato e le molestie subite da Dollarhyde, tutti i dettagli sulla sua preparazione dei colpi (il punto di vista, il personaggio che “vede” qui è sempre Will) e anche la celebre scena di Dollarhyde che divora la pagina del libro con la rappresentazione del dipinto di Blake, fino al doppio finale che Mann trasforma, invece, in un duello uno contro uno tra buono e cattivo. Tutte scene che sono state in qualche modo reintegrate dal film “Red Dragon” (2002), nato sulla scia del clamore sollevato da “Hannibal” (2001), estremo tentativo di De Laurentiis di monetizzare al massimo, posso dirlo? Il regista Brett Ratner firma un adattamento competente, ma contro Michael Mann va sotto bevendo dall’idrante, sul serio, non c’è gara.
In compenso, Mann impiega tre anni a completare la sceneggiatura, non tanto per via dei suoi tanti lavori in corso, ma per concentrarsi come da suo meticoloso metodo sul realismo, infatti “Manhunter” sarà anche stato un film che non ha portato a casa molti soldi al botteghino (poco meno di 9 milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti, al netto di una spesa di 15 milioni) e critiche tiepide, ma è stato applaudito dagli esperti dell’FBI come il film più accurato nel descrivere il lavoro dei profiler e la psicologia criminale, basta dire che la canzone che fa da colonna sonora al duello finale, il miglior utilizzo mai visto al cinema di “In-A-Gadda-Da-Vida” degli Iron Butterfly, era il pezzo da cui era ossessionato il serial killer, Dennis Wayne Wallace, che Mann ha più volte intervistato fin dal tempi di La corsa di Jericho per approfondire le sue conoscenza sulla mentalità criminale (storia vera).
Inoltre, i tre attori chiave di “Manhunter” non saranno delle super star come quelle di cui disponeva Brett Ratner, ma presi singolarmente offrono alcune delle loro prove migliori, il Will Graham di William Petersen è un personaggio che ha guardato il diavolo negli occhi, ne è uscito vivo per miracolo, ma consapevole che non sarà finita per davvero finché non avrà chiuso i conti, duro perché determinato come tutti i personaggi Manniani, ma con delle fragilità nascoste sotto la superfice che lo rendono un eroe molto più sfaccettato per cui fare il tifo, che si aggrappa alla sua tenacia e al suo metodo per scavarsi la strada dal nero più profondo al blu di una pace finalmente ritrovata.
Il Francis Dollarhyde di Tom Noonan (che grazie a Mann prende qui la laurea alla scuola dei cattivi cinematografici) è un mostro per cui possiamo provare dell’empatia, il suo incontro con la non vedente Reba McClane (Joan Allen) sembra quasi una speranza per un futuro migliore per lui, forse anche una vita normale a cui da spettatori, ad un certo punto, viene quasi istintivo sperare per il personaggio, ma il percorso di Dollarhyde è inverso rispetto a quello del profiler che gli dà la caccia, destinato a sprofondare nel nero Tom Noonan lo ha interpretato con una dedizione totale: sul set girava un “memo” con su scritto «Nessuno rivolga la parola a Noonan», su specifica richiesta dell’attore che a differenza di Petersen non ha contattato o letto nulla su Serial Killer e profiler, ha preferito fare palestra e isolarsi, infatti l’unico contatto con Petersen sul set è avvenuto l’ultimo giorno di lavorazione, l’ultima lunga notte di ripresa per il duello finale tra i loro personaggi, più avanti ci torniamo.
Per altro, Noonan ha dovuto rigirare parecchie scene del film, perché in accordo con il romanzo, il suo personaggio aveva il Drago Rosso ispirato al dipinto tatuato sul petto, ma guardando i giornalieri Mann ha ritenuto questa trovata troppo pacchiana, anche per un film estremamente visivo come il suo, quindi i tatuaggi di Dollarhyde sono scomparsi, ma questo ha prolungato ulteriormente le riprese di alcuni giorni (storia vera).
Allo stesso modo, Brian Cox è un dottor Lecter Lecktor, lontano dal vampiro di emozioni e di Oscar di Anthony Hopkins, un mostro spaventoso in un modo differente, asciutto, asettico come la sua cella bianca pensato da Mann come un personaggio privo di ogni senso di giusto o sbagliato, che compare in tre scene di numero, di cui due senza interazione alcune (se non con la cornetta di un telefono) perché, a differenza di quel pollo di Brett Ratner, Michele Uommo aveva già capito che se lasciato libero, uno come Hannibal finisce per mangiarsi (ah-ah) il film, mentre a tenere banco per Mann dev’essere il suo metodo che, infatti, è la vera forza di “Manhunter”.
Come ripete ossessivamente Pier Maria Bocchi lungo tutto il suo libro dedicato a Mann “Creatore di immagini” (un testo sacro), le parole di Dollarhyde quando mostra i suoi filmati all’odioso giornalista Freddy Lounds (Stephen Lang): «Do you see?», vedi? Il guardare è tutto in “Manhunter” anche perché quando si parla di cinema, lo sguardo, l’atto di guardare diventa il principale dei cinque sensi di cui siamo dotati, quindi il film batte ossessivamente su questo punto, asciugando dialoghi e personaggi e dando potere, non alla parola come cantava Frankie hi-nrg, ma alle immagini.
Will Graham sembra quasi avere un super potere (come accadrà anche con molto meno tatto nella serie tv Hannibal) ovvero quello di “vedere” la scena del crimine e capire il punto di vista dell’assassino, quasi una frattura dove un attore William Petersen, interpreta il ruolo del profiler che a sua volta, interpreta quello dell’assassino. Infatti, Mann sottolinea lo sguardo delle vittime uccise da Dollarhyde e anche grazie alla musiche di Kitaro, chiede a noi spettatori di calarsi insieme a Will in un mondo dov’è l’immagine a raccontare.
Ecco, quindi, che Dollarhyde è attratto da una donna non vedente, guidata da tutti gli altri sensi, come nella bellissima scena delle tigre sedata, quella che la mia Wing-woman ha ribattezzato la scena della «Ma povera bestia!», in cui Francis capisce il valore degli altri sensi, tanto che è forse quella la vera scena d’amore tra lui e Reba, ma è nel resto del film che Mann dà potere alle immagini per davvero.
Senza nemmeno di far finta che non sia il museo di arte moderna di Atlanta, Mann sceglie questa location asettica e simmetrica come cella per il suo Dott. Hannibal Lecktor, un posto selezionato per essere l’esatto opposto delle classiche prigioni sotterranee (come quelle ad esempio scelte da Jonathan Demme) che ci s’immagina di solito pensando ad un manicomio criminale, anzi, come ha potuto confermare più volte il direttore dalla fotografia Dante Spinotti (a cui avrebbero potuto dare un Oscar già per questo film, il suo primo lavoro americano e con Mann), il regista di Chicago ha impiegato diversi giorni per dirigere questo “semplice” dialogo fatto di campi e controcampi, perché pretendeva che in ogni inquadratura ci fosse la perfetta simmetria tra mattoni bianchi dietro ai personaggi (quindi righe orizzontali) e sbarre tra di loro (righe verticali) in modo che fosse lampante e allo stesso tempo sovrapposta l’intercambiabilità dei due personaggi, speculari uno rispetto all’altro, il buono e il cattivo identici e così diversi.
Non è un caso che in quella scena Will indossi una camicia verde (colore ritenuto fastidioso all’occhio da Mann) e che fissando i libri e gli oggetti nella cella di Lecktor, il suo occhio cada su tutti quelli di colore verde e viola (che poi sono anche i colori dei “cattivi” nei fumetti americani, fateci caso), infatti, nella scena successiva Will corre fuori sopraffatto, cercando di riprendersi fissando un prato (ovviamente verde) inquadrato volutamente fuori fuoco da Mann per farci percepire lo stato di confusione del protagonista.
Rincaro la dose? La casa di Dollarhyde è stata costruita con due vetrate per permettere al pubblico di guardarci dentro (e a Will di sfondarla nella sua entrata da eroe nel finale), ma arredata con la meticolosa volontà di non utilizzare nemmeno un angolo a 90 gradi, annullando la simmetria, perché la confusione, l’eccesso di colori verdi accostati all’arancione acceso, dovevano suggerire al pubblico lo stato alterato all’interno della casa e della mente dell’assassino. Quando distribuivano la precisione nel metodo di lavoro, Michael Mann era in fila da due giorni prima dell’apertura.
Lavorando in questo modo, però, proprio come per Will, la produzione è diventata una corsa contro il tempo, infatti a Mann è rimasto di fatto una sola lunga notte (quattordici ore di lavoro senza sosta) per girare lo scontro finale tra Dollarhyde e Will Graham sulle note della sinistra e spettrale In-A-Gadda-Da-Vida, un pezzo che pare evocare il male, proprio come fa Dollarhyde che prima la utilizza ad alto volume per stordire e spaventare Reba e poi diventa il suo “tema musicale” durante la sparatoria, il tutto senza scrivere diegetico ed extra diegetico? Poi ditemi che non vi penso!
Mann, di fatto, è rimasto solo sul set con Petersen e Noonan e il minimo sindacale della troupe, a girare macchina da presa in spalla la sparatoria, con Noonan immobile tra una scena e l’altra, a simulare i buchi dei proiettili fumanti, con bruciature di sigaretta fatte sui vestiti dallo stesso Mann che ogni tanto spediva qualcuno al più vicino 7-11 (catena americana di negozio, il cui nome deriva dagli orari di apertura) a comprare ketchup, filo da pesca e carne cruda, per simulare un pezzo di cervello staccato dal cranio di uno dei poliziotti colpiti dal fucile di Dollarhyde, un dettaglio che si nota solo se mettete in pausa il film nel fotogramma giusto, ma con la cura maniacale di Mann non si patteggia, al massimo si fila di corsa fino al 7-11 a tutto gas.
Visto che vi avevo promesso ancora due parole su Kim Greist, ci tengo a sottolineare come il finale in spiaggia di “Manhunter” sia, non solo il ritorno di Will, un personaggio finalmente in pace nel caldo abbraccio della sua famiglia e del “Blu Manniano” simbolo di serenità, ma anche la bella copia di qualcosa provato prima da Mann sul piccolo schermo: nell’episodio 1×20 di Miami Vice, proprio l’attrice Kim Greist interpreta Brenda, una delle tante fidanzate di Sonny, quella puntata è quella dove Sonny quasi perde il senno per dare la caccia ad un serial killer che colpisce le famiglie nella loro casa e che termina sulla spiaggia, sulle note di Heartbeat dei Red 7, guarda caso, proprio la stessa canzone che accoglie a casa il ritorno dell’eroe Will Graham e che sentiamo sui titoli di coda di “Manhunter”. A Michael Mann piace la simmetria ed io mi diverto a corrergli dietro, osservandolo («Do you see?»)
“Manhunter” alla sua uscita ha raccolto tiepide recensioni e pochi soldi ed immagino parecchi sguardi scuri da parte di Dino De Laurentiis, eppure il bello di commentare i film dalla poltrona comoda del tempo trascorso è anche questo, non solo questo film è senza ombra di dubbio un Classido, ma anche la chiusura del cerchio perfetta per Michele Uommo.
Molti critici all’uscita del film criticarono Mann, come uno tutta estetica e poca sostanza, non capendo probabilmente il valore dato alle immagini, all’atto di guardare fatto dal regista di Chicago con questo film. Per essere il titolo con cui Mann ha portato sul grande schermo il trionfo dell’immagine e lo stile anni ’80 messo a punto in TV con Miami Vice, per certi versi, è stato anche il padre nobile di tutti i profiler televisivi che ancora oggi affollano i palinsesti del piccolo schermo. Non sarebbe esistita una singola serie di “C.S.I.” senza che qualcuno prima non avesse sdoganato la figura del profiler, quindi “Manhunter” è il filo teso tra Miami Vice, il grande cinema e che ne so… “C.S.I. – Las Vegas” dove zio Gil Grissom era interpretato guarda caso proprio da William Petersen, perché le simmetrie Manniane fanno giri infiniti ma terminano tutte allo stesso modo: innovatori come Mann e autori capaci di narrare per immagini come la settima arte da sempre richiede, ne abbiamo visti davvero pochi, sul piccolo e soprattutto sul grande schermo.
Ed ora che grazie a Mann come Will Graham abbiamo affinato il nostro “occhio di falco” (occhiolino-occhiolino) siamo quasi pronti ad usarlo, ma prima abbiamo un’altra tappa molto importante lungo il percorso delle traiettorie tracciate dal regista di Chicago, tra sette giorni qui per il nuovo capitolo, non mancate!
Sepolto in precedenza venerdì 1 aprile 2022
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