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Mank (2020): Citizen Gary

A volte mi rendo conto di essere proprio fuori dal mondo, ad esempio ero curioso di vedere “Mank” quando ho scoperto che sarebbe arrivato su Netflix, che era interpretato da uno dei miei preferiti ovvero Gary Oldman e che si tratta dell’ultima fatica di David Fincher. Mi sono convinto a vedere film per molto meno di così, credetemi.

Ma solo la scorsa settimana, grazie al post di Lisa, ho anche scoperto di cosa parlasse il film, ed improvvisamente ho capito il perché di tutte quelle persone interessate di colpo a “Quarto potere” (1941) di Orson Welles. Ribadisco, a volte sono davvero fuori dal mondo.

“Mank” è un film che ho affrontato a freddo, conoscendo davvero il minimo indispensabile, però mi ha conquistato lo stesso, forse perché se mi leggete su questa Bara, già saprete che ho un certo interesse per i dietro le quinte e gli aneddoti di produzione dei film, quindi per certi versi rappresento la tipologia di pubblico a cui Fincher voleva rivolgersi, anche se il suo film non è un ruffiano tentativo di cavalcare la popolarità di quello che viene considerato (giustamente) da quasi ottant’anni uno dei film più importanti della settima arte, “Mank” è una storia che si muove in più direzioni che però necessita di un’inevitabile premessa.

Visto che è tutto in bianco e nero, anche la foto di Fincher sul set deve esserlo.

Il film più cinefilo del 2020, è stato prodotto da un colosso dello streaming come Netflix, che molti cinefili vedono come IL MALE, non a torto perché non condivido alcune delle scelte della piattaforma con la grande “N” rossa, però è innegabile che titoli come “Roma” (2018) di Cuarón, Storia di un matrimonioThe IrishmanSto pensando di finirla qui, 6 Underground Il processo ai Chicago 7 sono tutti film che non sarebbero mai esistiti senza i finanziamenti di Netflix, ed è doveroso sottolineare che Scorsese prima e David Fincher adesso, hanno goduto di fondi e una libertà totale, che non vorrei spingermi a paragonare a quella che aveva avuto Welles per “Citizen Kane”, ma quasi.

Si perché David Fincher questo film lo sognava dagli anni ’90, nel suo piano originale era previsto di portare sul grande schermo la sceneggiatura scritta da suo padre Jack Fincher, affidando i ruoli principali a Kevin Spacey e Jodie Foster (storia vera). Ma il regista di Fight Club dovette ripiegare le ali perché nessuna casa di produzione era interessata a produrre un film in bianco e nero, girato volutamente con tecniche che lo facessero sembrare una vecchia pellicola degli anni ’30, eppure è proprio così che Fincher ha potuto girarlo nel 2020, con titoli di testa retrò e finte bruciature di sigaretta, le stesse che indicava Tyler Durden ora che ci penso.

«Non stai parlando del Fight Club vero Cassidy? È la prima regola»

Eppure devo essere brutalmente onesto, “Mank” non richiede chissà quale preparazione sulla politica degli Stati Uniti del 1983, per assurdo potrebbe essere tranquillamente visto senza nemmeno aver mai sentito parlare di “Quarto potere”, anche se inevitabilmente si perderebbe moltissime delle sue sfaccettature, perché in nome dell’onestà a tutti i costi a cui facevo riferimento, buona parte del pubblico generico che si ritroverà questo film tra i più visti su Netflix, piomberà nel sonno totale dopo una ventina di minuti dall’inizio e sono piuttosto convinto, che convincerà ben poche persone a correre a recuperare un classico del Cinema come “Quarto potere”. Forse è il mio pessimismo congenito a parlare, ma alla curiosità del grande pubblico non ci credo più.

Per certi versi Fincher predica ai convertiti, cita “Quarto potere” senza farlo spudoratamente e per assurdo, un film così poco spocchioso e ruffiano, diventerà il preferito di tanti “cinéfili nell’era dell’Internét” che avranno di che sbrodolarsi addosso per un film che passerà inevitabilmente per elitario. Il che è un paradosso – in “Mank” ne troverete tanti – che affligge più il pubblico che il suo regista, uno che è sempre stato presente fin dagli esordi di Netflix, collaborando prima a serie come House of Cards, seguita da Mindhunter e Love, Death & Robots, dimostrazione che spesso i cinefili (o presunti tali) sono più intransigenti di chi il cinema poi, lo fa per davvero.

«Basta me ne vado, Cassidy parla anche più di me!»

La storia è quella di Herman J. Mankiewicz, per tutti “Mank”, uno sceneggiatore talentuoso e sbronzo (ho detto sbronzo!) destinato dalla storia a restare eternamente in ombra, prima in quella di suo fratello minore Joseph L. Mankiewicz (quello di “Eva contro Eva” del 1950) e poi schiacciato dal talento e dall’ego strabordante del ventiquattrenne Orson Welles, il giovane prodigio a cui si pensa immediatamente quando si parla di “Quarto potere”.

Questo film alimenta la mia mania per i “controcampi” cinematografici, le storie famose, però raccontate da un punto di vista inedito, inoltre come dicevo i paradossi si sprecano in “Mank”, perché oltre ad essere il film più cinefilo del 2020 (ma prodotto da Netflix) è anche una “biopic” immaginaria, su un personaggio che invece è del tutto reale, in tal senso è l’opposto di La regina degli scacchi, per restare in casa Netflix.

«Propongo un brindisi, a tutti i cinefili che andranno giù di testa per questo film»

Il film di Fincher non ha troppe mire di rivalutazione storica, non è un saggio trasformato in film pensato con lo scopo di ridimensionare i meriti – evidenti – di Wells, assegnando la completa paternità di un capolavoro come “Citizen Kane” al solo Mank. La storia raccontata da Fincher si muove in più direzioni, dialogando con il cinema del passato e quello del presente, e bisogna dire che dialoga parecchio perche i 131 minuti di “Mank” sono estremamente parlati, come solo una storia con uno sceneggiatore come protagonista potrebbe essere.

I dialoghi di “Mank” sono tanti, spesso posticci perché nessuno nel mondo reale parla in questo modo frizzante (come in “F come falso” del 1973, dove tutto è finto), ma il Cinema per nostra fortuna non ha il dovere di essere realistico e quei dialoghi, cavolo bisogna saperli scrivere! Non so se papà Jack Fincher in vita sua abbia tenuto lezioni di scrittura creativa ad alunni come Aaron Sorkin, ne dubito ma il materiale e dannatamente buono, tanto che se ti distrai un secondo, rischi di perderti un altro scambio di battute che scorre come musica per le orecchie. Inoltre parliamoci chiaro, David Fincher non avrà potuto avere Spacey e la Foster, ma Gary Oldman e un’azzeccatissima Amanda Seyfried, sono una gran bella coppia di ripiego.

«Io non sono il ripiego di nessuno hai capito?»

Gary Oldman è talmente bravo, da essere quasi scontato in un film così, ci sono film in cui Oldman risulta sprecato e basta, ruoli scelti per motivi alimentari, e poi ci sono film in cui sai che il vecchio leone ruggirà come un tempo, ma se L’ora più buia era il “Gary Oldman Show” applicato ad un film che era retorica e quintali di sciovinismo Inglese, qui il “Gary Oldman Show” è al servizio di un film molto più sfaccettato e riuscito, d’altra parte se nel 2020 dovessi scegliere un attore per interpretare uno sbronzo (ho detto sbronzo!) di talento avanti con l’età, la scelta più banale sarebbe proprio Gary Oldman, e lui con la stessa scontata banalità giganteggia in un ruolo che potrebbe tranquillamente valergli qualcuno dei premi grossi verso febbraio prossimo. Trovo ridicolo che molti abbiano “scoperto” il talento di Oldman, ma é ormai chiaro che con molti colleghi cinefili ho poco da spartire, cavolo nemmeno sapevo di cosa parlava “Mank”!

La continuità con cui Fincher si conferma un grande regista non è solo per una tecnica impeccabile, con cui ha saputo ricostruire un’intera pellicola realizzata con dissolvenze e stacchi “vecchia scuola”, resa ancora più efficace dalla perfetta fotografia di Erik Messerschmidt no, la continuità di Fincher è anche tematica perché dopo aver inaugurato il decennio, con un film che parlava di un moderno Charles Foster Kane chiamato Mark Zuckerberg con “The Social Network” (2010), qui chiude il cerchio – e il decennio – puntando dritto alla fonte originale, ed ora che l’ho citato, lasciatemi fare qualche paragone diretto.

«Non provare nemmeno a paragonarmi a Jesse Eisenberg, tzè!»

“The Social Network” è un altro film estremamente parlato che ogni volta termina, con un pezzo dei Beatles che parte a tradimento, sorprendendomi su un finale che arriva quasi inaspettato, perché ho sempre pensato che quel film avesse un ritmo in grado di incollarmi allo schermo, ogni volta che mi capita di rivederlo. “Mank” non funziona allo stesso modo, lassù ironizzavo sulle lezioni di Jack Fincher date ad Aaron Sorkin, ma tra i due è ancora il secondo a stare una spanna sopra, perché per entrare nel vivo della storia di Herman J. Mankiewicz, il film ha bisogno di carburare e quando lo fa, è comunque appesantito da un secondo atto in cui le elezioni politiche sembrano prendere il sopravvento su una trama che in teoria, avrebbe dovuto parlarci della realizzazione di “Quarto potere”, ma è proprio qui che il giochino messo su da David Fincher comincia a funzionare sul serio.

Adesso voglio “Pazzo Gary” anche nel seguito apocrifo dedicato al film di Sidney Lumet.

Il regista di “Zodiac” (2007) cita “Citizen Kane” senza quasi mostrarlo, proprio come l’assassino di Zodiac, è in questa porzione di film che conoscere il film originale di Orson Welles diventa lo spartiacque per il pubblico, perché quando Mank si trova davanti alle elezioni e i relativi giochi di potere, oppure quando cammina in un parco con Marion Davies (Amanda Seyfried), popolato da scimmie, giraffe ed elefanti, lì capisci che le citazioni a “Quarto potere” sono parte del processo creativo di un protagonista che di mestiere fa lo scrittore, sono elementi che da spettatori – appassionati di cinema – riconosciamo e che Mank finirà per inserire nella sua sceneggiatura. Bravo David, gran bella mossa!

Ma se “Citizen Kane” era liberamente ispirato alla biografia del magnate dell’industria del legno e dell’editoria William Randolph Hearst, allo stesso modo Fincher trova il modo di unire il cinema del passato a quello del presente, mostrandoci lo scontro tra Mank e i produttori, portandoci dietro le quinte, Fincher sembra voler dire che non è cambiato poi molto da allora, il cinema era nella mani di burocrati più interessati agli affari che all’arte e probabilmente l’industria non è cambiata più di tanto nel frattempo, ma non crediate che io abbia mire da Sigmund Freud, ma forse è anche uno dei motivi per cui Fincher lavora così tanto sul piccolo schermo. Qui ci starebbe una citazione ad un vecchio film, ma “Mank” parla di Orson Welles non di Billy Wilder.

«Bara Volante? Un’idea ridicola non la produrrò mai una cosa così macabra!»

Nell’ultimo atto poi il film sale di livello, i continui flashback si seguono alla perfezione facendoci capire sempre a che punto della storia ci troviamo, mentre nel lungo monologo finale di un enorme Gary Oldman, ci vene anche offerto quasi una nuova chiave di lettura su “Quarto potere”, paragonato dallo stesso Mank ad un moderno Don Chisciotte, il tutto mentre Oldman ubriaco regala l’ennesima prova del suo talento.

Per questa meraviglia, ringraziate il l’autore in persona.

Ora, non so se in futuro finirò per vedere e rivedere questo film, probabilmente i “cinéfilo nell’era dell’Internét” me lo faranno venire a noia molto presto a furia di parlarne troppo e a casaccio per darsi tutte le arie che Fincher non si è voluto dare con il film stesso, ma ora come ora, posso dirvi che sono felice di averlo visto, tanto da restarne piacevolmente colpito, dopo manciate di film mancini, mancava una pellicola bella da farvi appendere al mancorrente come “Mank”.

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