Sta per uscire “Men in Black: International” uno spin-off molto fuori tempo massimo, quindi quale occasione migliore per ripassare un film che… Beh, conosco praticamente a memoria come il primo “Men in Black”.
Ricordo che la Bara Volante aveva inaugurato il suo volo da circa un’ora quando un lettore sul Faccialibro mi chiese il mio parere su questo film, la conversazione ormai è andata, ma ricordo di avergli scritto un commento al volo (storia vera). Ragazzo se mi leggi ancora, questo post ti lascerà una specie di Déjà vu, come essere colpiti dal raggio “sparaflashante” del neuralizzatore dei MIB.
Ma se io a tempismo sono messo peggio dell’uscita dello spin-off – infatti scrivo questo post solo ora – non è certo stato lo stesso per il film originale, “Men in Black” non avrebbe potuto uscire in un momento migliore della fine degli anni ’90, anche se per trovare le sue origini bisogna fare un passo indietro, fino al 1990 e cercare non al cinema, ma sullo scaffale dei fumetti e nemmeno quelli tanto famosi.
Ora è fantascienza, ma negli anni ’90 Hollywood guardava i fumetti con l’occhio amorevole del bullo che vede camminare il quattrocchi alto un metro e tanta voglia di crescere nei corridoi della scuola, se proprio qualcuno decideva di fare un film tratto da uno di quei così disegnati, se ne guardava bene dallo sbandierarlo ai quattro venti, anzi, se il fumetto originale era sconosciuto, anche meglio e in pochi erano più sconosciuti di Lowell Cunningham.
Scrittore di fumetti che lavorava per l’allora Aircel Comics, casa di produzione canadese specializzata in fumetti di genere, in particolare di genere porno per adulti, come “Flesh Gordon” parodia di un titolo quasi simile che conoscete tutti e qualche altro titolo con mostri e alieni, tipo “The men in black”, di cui Cunningham ha scritto svariati volumi, alternandoli ai seguiti a fumetti, di un film molto simile per temi e dinamiche, Alien Nation.
Il fumetto di Lowell Cunningham cavalcava la paranoia da fine millennio negli anni ’90 era roba palpabile (chi c’era ricorderà benissimo), un clima da complotto mondiale da cui sono fiorite opere come X-Files, la serie che ha contribuito a sdoganare la fissa per gli UFO, per i rapimenti alieni, le macchinazioni governative e “loro”, quelli che agiscono alle spalle di tutti per tenerci all’oscuro della verità – quella a cui teneva molto Fox Mulder – gli “uomini in nero” che nello stesso periodo popolavano le pagine anche dei nostri fumetti, sto pensando a Martin Mystère, ad esempio.
Bisogna dire che “The men in black” aveva delle sostanziali differenze con la versione dei personaggi resa popolare al cinema, di fatto si tratta sempre di una coppia di Strambi sbirri, composta dal giovane agente J e dal veterano K, ma, ad esempio, niente “cosetto incasinatore di memoria” per far dimenticare tutto ai testimoni, i due uomini in nero usavano un metodo molto più semplice: li uccidevano. Inoltre, l’agente J nel fumetto era bianco come la neve e la coppia spesso indagava su casi paranormali (anche violenti) che prevedevano un po’ di tutto, anche demoni e mostri, non per forza provenienti dallo spazio profondo.
Non dev’essere sembrato vero alla minuscola Aircel Comics – successivamente acquistata dalla Malibu Comics, a suo volta assimilata dalla Marvel nel 1994 – che alla Columbia Pictures interessasse davvero il loro fumetto e che tra i produttori del film ci fosse Steven Spielberg, uno che di alieni ci capisce, ma ancora di più di fare soldi al cinema!
Ed Solomon viene incaricato di stemperare un po’ della violenza del fumetto e, ammettiamolo, affidare J e K al papà di Bill & Ted’s è stato un colpo di genio. Per la regia tutti pensano che l’umorismo nero di Barry Sonnenfeld sia perfetto per il tono del film, parliamo di uno che ha iniziato come direttore della fotografia per i fratelli Coen, prima di passare dietro alla macchina da presa per due miei cult infantili di cui un giorno potrei anche decidermi a scrivere, ovvero La famiglia Addams e il suo seguito (1993). Ma per avere Sonnenfeld bisogna spettare che termini le riprese di “Get Shorty” (1995), tutto tempo utile per far si che Steven Spielberg come Frankie hi-nrg mc, faccia la sua cosa. Posso dire che ne è valsa la pena? Perché “Men in Black” è diventato un Classido!
L’elenco dei ruoli rifiutati da Clint Eastwood è lungo come il mio braccio, metteteci dentro anche l’agente K (storia vera), ma meglio così, il vecchio Clint avrebbe monopolizzato tutto e poi avremmo perso la possibilità di vedere invece Tommy Lee Jones mangiarsi lo schermo. L’attore texano scottato da Due Facce accetta solo quando Spielberg gli assicura che il personaggio nel film avrà un certo spessore, ma per un po’ abbiamo davvero rischiato una sorta di “raduno” di attori scappati da Batman Forever, perché il primo nome che viene fatto per il ruolo del giovane J è proprio quello di Chris O’Donnell che, però, ha un’ideona: «Naaa! Un altro ruolo da giovane spalla? Somiglia troppo a Robin, tanto vale che continuo con quello, no?» (storia vera). Sapete com’è andata a finire, non proprio benissimo, più o meno come la carriera di O’Donnell.
Ed ora a chi lo affidiamo il ruolo di J? Perché non al ragazzo che sta iniziando a diventare una sicurezza al botteghino e che, per altro, ha appena finito di prendere a pugni in faccia gli alieni in Independence day? Ed ecco come il «No» di Robin ha trasformato Will Smith, in “Mr. Cento milioni d’incasso”. Perché, andiamo, cosa può esserci più anni ’90 della paranoia complottista per gli alieni e delle cospirazioni con gli “uomini in nero”? Forse solo “Willy il principe di Bel-Air”!
No, sul serio gente, se più o meno siete della mia leva, non potente non ricordare “Big Willie Style” l’album che abbiamo ascoltato tutti (volenti o nolenti), anche Zuul, il demone che vive dentro il mio frigorifero ai tempi quando aprivi la portella mi cantava “Gettin’ Jiggy Wit It”, oppure “Miami” (Welcome to Miami, Buenvenidos a Miami… Due coglioni!), ma soprattutto accendendo la televisione su EMMETivì cosa trovavi? Il video di “Men in Black”, con Will Smith impegnato ad insegnarci il suo ballettino: schiocca le dita, strofina le mani, passo a sinistra, passo a destra. Mentre per la canzone non ha fatto altro che campionare “Forget me nots” di Patrice Rushen, facendo il lavaggio del cervello a tutti, tanto che ancora oggi, quelle rare volte in cui il pezzo originale passa in radio, fa strano sentire cantare “I want you to remember” e non la versione Smithiana “They won’t let you remember” ispirata alle gesta dei MIB.
Era un’epoca diversa, un videoclip azzeccato era ancora il modo migliore per pubblicizzare un disco, ma anche un film, quando nel 1997 siamo andati in sala a vedere “Men in Black”, ci aspettavamo tutti di vedere Smith cominciare a ballare da un momento all’altro. Ma, per nostra fortuna, il film è ancora talmente riuscito, per cui il video musicale era solo un simpatico aperitivo, la mossa non è mai più riuscito a Will Smith, “Black Suits Comin’ (Nod Ya Head)” pubblicato per lanciare “Men in Black II” non era altrettanto memorabile (proprio come il film), in compenso, “Wild Wild West” (1999) riusciva a farti rimpiangere il video musicale che era pacchiano, ma almeno durava solo cinque minuti, a differenza dei cento e passa del film (gulp!).
Parliamoci chiaro: “Men in Black” è ancora una discreta bombetta, nel 1997 il cinema per tutti poteva ancora permettersi di mostrare alieni che abbandonano il pianeta, accaparrandosi stecche di Marlboro e un disinfestatore ucciso in favore di macchina da presa, con i suoi attrezzi da lavoro dal cattivo. Non il livello di violenza del fumetto, ma un’altra (piccola) prova che questo film è uscito proprio nel momento giusto. Negli anni l’ho visto tante di quelle volte da perdere il conto, alcuni dialoghi sono diventati parte della mia parlata quotidiana (quelle che io chiamo “citazioni involontarie”) tipo quando qualcuno di famoso muore, io dico che è tornato sul suo pianeta come Elvis, ma poi, ammettiamolo, “Men in Black” ha tutte le cosine al suo posto: una storia semplice e ben raccontata, 98 minuti di durata totale caratterizzati da ZERO momenti di stanca e un ottimo ritmo per azione e battute. Delle creature realizzate alla grande, il fascino di una puntata di X-Files vista dal punto di vista opposto e un umorismo nero che come potete intuire dal nome del blog, mi trova sempre molto ben disposto. Se a questo aggiungiamo che di fatto è un film di poliziotti, anzi, di Strambi sbirri con una coppia perfetta agli antipodi e dialoghi che filano via alla grande. Capisco perché mi piaceva tanto allora, il fatto che sia invecchiato così bene lo rende ancora oggi il capitolo miglior della serie.
L’inizio è micidiale, sulle note di una colonna sonora con cui il grande Danny Elfman omaggia la fantascienza degli anni ’50, la macchina da presa di Barry Sonnenfeld segue una libellula che finirà per spappolarsi sul parabrezza di un camioncino che trasporta immigrati oltre il confine messicano. L’entrata in scena dell’agente K (Tommy Lee Jones) e dell’ancora più anziano agente D, pronti ad indentificare tra i clandestini, uno proveniente da ben più lontano del Messico, ti offre già tutta l’atmosfera del film, portandoti in un mondo che si muove sotto la superfice di quello che conosciamo, fatto di bava e sangue alieno bluastro da ripulire e “neuralizzatori” da usare, anche per mandare in pensione agenti ormai troppi anziani per la vita pazzesca a cui l’abito nero dei MIB ti costringe. Il film è iniziato da cinque minuti e di questo mondo assurdo vuoi sapere di più.
Senza tirare nemmeno il fiato e con un vecchio trucco di sceneggiatura, si passa subito a fare la conoscenza del personaggio attraverso in quale, anche noi spettatori scopriremo tutto dell’organizzazione segreta dei MIB, l’agente della polizia di New York («NYPD. A New York pestiamo i delinquenti!») James Edwards (Will Smith) impegnato a correre dietro ad un sospettato molto agile, fin sopra il tetto del Guggenheim Museum, prima che questo “sbattendo un secondo paio di palpebre” finisca per gettarsi di sotto annunciando che “loro” stanno arrivando.
La corsetta a perdifiato fa guadagnare a James, le attenzioni di K che lo recluta per farlo partecipare all’esilarante test d’ammissione, una serie di gag che vengono via una più divertente dell’altra, tra il “Capitan America” a cui Will Smith fa il verso («Noi siamo il meglio, del meglio, del meglio») e la ben poca praticità dei mobili della sede dei MIB che sembra un palazzo futurista, come lo avrebbero potuto pensare negli anni ’50.
Nella scena divertentissima del poligono, James dimostra di saper “pensare fuori dalla scatola” una cosa che a noi Italiani viene normale (per sopravvivere in uno strambo Paese a forma di scarpa), ma che fa sempre buona impressione agli Americani, ma con una buona parola di K («Ha dei seri problemi con la disciplina», «Anche io»), anche il capo dei MIB l’agente Z (il mitico caratterista Rip Torn) si convince a dare una possibilità a “Junior”.
“Men in Black” è un gioiellino di effetti speciali vecchia maniera, mescolati a CGI usata ancora con giudizio, Rick Baker fa un lavoro incredibile sfornando una manciata di creature aliene, talmente belle e originali nell’aspetto, da sembrare molte di più di quelle che in realtà sono. Vogliamo parlare del principe Arquiliano in miniatura che pilota un corpo umano usato come travestimento, come Hiroshi Shiba faceva con Jeeg Robot?
Oppure del parto del pupo sul sedile posteriore dell’auto («È un calamaro!»)? Grazie ad un saggio uso dei divertenti dialoghi che alludono agli alieni nascosti tra di noi (tra cui Sylvester Stallone e
Dennis Rodman, sostituito da Michael Jackson nel doppiaggio italiano. Storia vera), ottimi effetti speciali e un sacco di facce giuste – come quella di Carel Struycken, il gigante di Twin Peaks che per Barry Sonnenfeld era già stato il maggiordomo Lurch – “Men in Black” è un perfetto film di sbirri, ma anche un’avventura in un mondo fantastico che sta appena sotto la superfice del nostro, in cui la responsabilità di mantenere lo status quo diventa una virtù. Ribaltando la prospettiva gli “Uomini in nero” non sono più i cattivi che ci tengono all’oscuro della verità, ma sono gli eroi silenziosi che vegliano sulla nostra tranquillità. Il monologo di K, in cui dice che uno a due persone potrebbero anche capire, ma l’umanità è una bestia ottusa che si adegua, è ancora più attuale oggi, specialmente quando l’agente K fa riferimento alla terra piatta. Quello che non ho mai capito dal 1997, invece, è perché nel doppiaggio italiano del film, all’apice della “vestizione” di J, l’agente Z dice: «Noi siamo loro, siamo i Men in Black» con la parola “Black” pronunciata con la “A” com’è scritta, una roba che mi manda in tilt più che scoprire che un carlino potrebbe essere un informatore alieno di nome Frank.
Se Will Smith è perfettamente a suo agio («A differenza tua, io vestito così sono uno schianto»), il vero mattatore per me è Tommy Lee Jones che con quella mappa geografica di rughe che si ritrova al posto della faccia, è duro abbastanza da non far rimpiangere Eastwood nella parte, ma sfoggia anche un umorismo e una parlata da sociopatico di uno che è abituato a lavorare da solo, il tutto con addosso lo scazzo di chi le ha già viste tutte, chi sta facendo un lavoro che ok, prevede assurdi alieni, ma per lui è una giornata in ufficio, con tutte le sue rotture.
La trama è giustamente semplice, perché se attraverso il personaggio di J, devi introdurre al pubblico il “mondo” in cui si muovono i protagonisti, il caso che questi strambi sbirri devono risolvere, non è obbligatorio che sia particolarmente complesso, anzi trovo che sia abbastanza brillante che tutto ruoti attorno ad una specie di filastrocca «la galassia è nella cintura di Orione», che altro non è che una piccola incomprensione linguistica, d’altra parte tra culture diverse non capita sempre di confrontarsi con difficoltà di comunicazione? Capita tra abitanti dello stesso pianeta, figuriamoci tra abitatori provenienti da mondi lontani!
Questa trama semplicissima, però, è raccontata alla grande, come detto Barry Sonnenfeld dà a tutto un gran ritmo e i dialoghi filano via come musica, gli scambi di battute e i battibecchi tra personaggi sono uno meglio dell’altro («Le piattole prosperano con le stragi tigre», «A te ti hanno morso da piccolo?») e le facce giuste fanno il resto, tipo Linda Fiorentino nei panni della patologa che offre un punto di vista ancora più umano di quello di J sulla storia ed è anche un bel vedere, parere del tutto extra cinematografico, prendetelo così come viene.
Ma se i protagonisti sono molto riusciti, bisogna opporre loro un antagonista degno di nota ed è qui che “Men in Black” mena il suo colpo più duro. Tenetevi forte, perché per la parte del buzzurro Edgar, trasformato dallo scarafaggione alieno in un “Edgar abito”, i primi nomi coinvolti sono stati quelli di John Turturro e di Bruce Campbell (!!!), eppure con tutta la stima che ho per questi due – uno in particolare – Vincent D’Onofrio è semplicemente perfetto. Nei panni del contadinaccio sembra Stephen King in Creepshow, ma basta davvero solo la scena dello zucchero («Mai visto lo zucchero fare così») a rendere il suo personaggio un misto tra un titolo da giornalaccio scandalistico (materiale ghiotto per le indagini dei MIB) e un mostro da film di fantascienza degli anni ’50, D’Onofrio è bravissimo ad inventarsi dei movimenti a scatti del tutto sgraziati che lo fanno davvero sembrare un alieno che indossa un abito (di pelle umana) troppo piccolo per la sua taglia.
Lo scontro finale è una corsa contro il tempo riuscitissima, la scena in cui J e K abbattono la nave su cui Edgar sta cercando di svignarsela è ancora una delle più iconiche di tutto il film, mentre Tommy Lee Jones che urla al suo compare «Tienilo su questo pianeta!» prima di andare a riprendersi la sua arma mi fa esaltare ogni volta.
Per altro, “Men in Black” è un film circolare, perché inizia con un passaggio del testimone e un vecchio agente che “va in pensione” e finisce allo stesso modo, a giudicare dal colletto della camicia e dagli occhiali da sole di Will Smith nell’ultima scena, era anche un film pensato per essere figlio unico. Forse anche per questo è ancora il migliore di tutta la saga, poi per uno come me in fissa con film di sbirri, robe alieni e vestiti neri, “MIB” è ancora uno spasso.
Al netto di un budget di circa 90 milioni di ex presidenti defunti stampati su carta verde, questo film ha portato a casa più di mezzo miliardo nella stessa valuta, ora che i tempi sono cambiati, bisogna specificare che questo film è stato una delle maggiori commedie fantastiche (senza supereroi) ad aver incassato di più, ma anche una discreta bomba sganciata sulla cultura popolare, ormai nessuno più pensa a Johnny Cash quando viene pronunciato il titolo di questo film e di sicuro non al fumetto da cui è stato tratto. Come ribaltare completamente la percezione di una leggenda metropolitana complottista trasformandola in cultura pop. In tanti, compreso lo stesso Ivan Reitman, hanno provato a replicare il miracolo del primo Ghostbusters, forse alla fine quello che c’è andato più vicino di tutti è stato proprio Barry Sonnenfeld.
Ed ora signore e signori, vi chiedo ancora un attimo della vostra attenzione, per favore guardate tutti questo puntino colorato qui, perfetto fermi così.
Sepolto in precedenza martedì 2 luglio 2019
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