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Merantau (2009): in principio era il pugno

Potevamo convincervi a pugni, ma proviamo con le buone a farvi scoprire (o a rivedere) la “Trilogia del Silat” di Gareth Evans e Iko Uwais. Si parte con Quinto Moro ad accompagnarvi in un viaggio di crescita, narrato al dolce suono di pugni, calci in faccia e di denti spezzati in una sinfonia di ossa rotte.

Avete presente The Raid? Che ce l’abbiate presente o no siete nel posto giusto, e state leggendo del film giusto. Si perché Iko Uwais e il regista Gareth Evans non sono sbucati dal nulla: menare le mani è uno sport impegnativo, e come in ogni sport non ci si prepara alla prova più impegnativa senza un po’ di riscaldamento e tanto duro allenamento.

“Merantau” è quell’allenamento. È l’ingresso di Evans nel cinema di arti marziali (e non solo), avvenuto in maniera quasi casuale per un ragazzino cresciuto a pane e film di Jackie Chan. Ma il merito è tutto dell’insospettabile Signora Evans, capace di procurare al marito il lavoro della vita, un documentario di arti marziali in Indonesia. Il resto, come si suol dire, è storia. Questa storia.

Gareth Evans e Signora. “And here’s to you, Mrs. Evans – we all love you more than you will know”

Il regista gallese è uno di noi. Uno che davanti a una scena esaltante, scazzottata o sparatoria che fosse, mandava indietro a ripetizione il nastro della vhs (voi non le avete conosciute bambini, erano piccole scatole con dentro i film). Evans guardava e riguardava, esaltandosi, interiorizzando il ritmo, gli stacchi, e quella dose di poesia che solo i calci sui denti sanno avere. Eppure nemmeno una vita passata a divorare “film di menare” l’aveva preparato alla folgorazione ricevuta in Indonesia, sul set di quel documentario. Evans rimane folgorato dallo stile marziale e incontra il suo destino, che ha la faccia e i pugni di Iko Uwais, uno che prima di diventare la risposta indonesiana a Tony Jaa e antenato di John Wick (ma più giovane e con le falangi al posto dei proiettili) faceva il ragazzo delle consegne. Praticamente la storia di Jamal Malik, però vera, con un milione di pugni dati e incassati invece dei soldoni da un quiz tv.

Và che cuore di mamma.

Ferocemente attratto dagli occhi da cerbiatto di Iko e dalle sue nocche sbucciate, Evans in uno slancio d’emulazione tira un calcio rotante alla vecchia vita e si trasferisce a Jakarta. Il tempo di ambientarsi passando per qualche lurido lavoretto televisivo e inizia a lavorare su Merantau, un film con dentro tutte le speranze dell’Indonesia di avere finalmente un film sulla sua arte marziale. La trama è semplice, i personaggi interessanti il giusto, i mezzi e il budget modesti ma la passione smisurata. Non è il solito filmetto di arti marziali cotto e mangiato se a fine pasto stiamo a chiedere il bis (cottura rigorosamente al sangue).

Concentrati sui calcinculo. Concentrati sui calcinculo. Concentrati sui calcinculo.

Evans passa i mesi a studiare sulle pellicole di genere, a capire più a fondo cosa lo entusiasma di quel cinema fatto con tre spicci e quattrocento calci. La parola d’ordine è leggibilità dell’azione e dello spazio, mostrare ogni botta, ogni pugno e calcio, in modo spettacolare ma non spettacolarizzato. Senza dare quell’idea di scena preparata per filo e per segno come negli action mainstream, o quel discutibile “effetto casino” in cui un regista (cough-cough… Paul Greengrass… cough) muove la macchina da presa un po’ a cazzo senza beccare un pugno che sia uno. Apro e chiudo parentesi su Greengrass, che pur con qualche discutibile esempio di combattimento ha fatto un lavorone con la saga di Bourne, apertamente citato proprio in Merantau nella scena d’inseguimento sui tetti.

Qui le scazzottate non sono fini a se stesse, seguono gli eventi partendo da una lite per poi trasformarsi in una sfida totale. Lo scontro tra un bravo ragazzo e qualche stronzetto di strada finisce per trasformarsi in uno scontro tra giustizia e crimine, tra bene e male, com’è buona tradizione nei film di menare.

«Non picchieresti mai uno con le lenti a contatto, vero?»
Nell’incipit, Iko Uwais si allena a corpo libero con l’equivalente indonesiano del coltellino svizzero (il karambit, meglio celebrato in The Raid 2), e offrendoci un’idea dello stile pencak silat. I primi scontri sono piccoli assaggi di un buffet che nella seconda metà diventa sempre più ricco e gustoso. Al crescere dei nemici la situazione si fa sempre più critica e drammatica, l’azione più brutale e violenta mentre la posta in gioco sale. È quest’evoluzione di atmosfera e combattimento – da leggero a più grave – che rende tutto coinvolgente, non mera esecuzione di coreografie fini a se stesse. E per quanto la vicenda sia semplice e lineare, quello che conta è sentirsi coinvolti nelle imprese del protagonista.
«Ospedale? Quante ambulanze potete mandare? Chiedo per degli amici»
Il “Merantau” del titolo è un viaggio, un rito di passaggio per i giovani indonesiani che lasciano casa per confrontarsi col mondo. Iko Uwais, con quella faccia da boyscout incarna l’anima pia del giovane Yuda, un ragazzo di campagna che si avvia pieno di belle speranze alla volta della capitale. Durante il viaggio incontra Erik, uno che c’è già passato e disilluso dalle storielle sul merantau, lo mette in guardia dalle insidie della città. Erik altri non è che Yayan Ruhian, quasi irriconoscibile coi capelli corti e quell’aria da cane bastonato, prima di diventare il leggendario cane pazzo in The Raid. Su di lui ci torniamo.
Armato di pugni e buoni sentimenti, Yuda si mette nei guai per salvare una ragazza da un pappone. Da qui in poi gli eventi precipitano in una Jakarta in cui tutti, ma proprio TUTTI in qualsiasi luogo e di qualsiasi nazionalità conoscono le arti marziali. Ragion per cui il nostro eroe dovrà menare fino all’ultimo respiro, anche perché i cattivi sono duri a morire: due fratelli in affari loschi, su cui spicca Mads Koudal che se la gode a fare il pazzo sadico, di quella follia che rende un cattivo tanto minaccioso quanto odioso, uno che vuoi veder preso a calci sino alla morte.
«Ho tutto il giorno libero» (cit.)
Dopo i primi venti minuti blandi, buoni per introdurre i personaggi, il film ingrana la marcia e accelera sino al finale. Tutto scorre bene nei suoi 105 minuti ma la versione internazionale, l’unica che possiamo vedere da questa parte del mondo, è stata sfoltita di una mezzora. La durata è perfetta così, ma gran parte dei tagli riguardano il personaggio di Erik/Yayan Ruhian, forse per tenere il focus stretto sul cammino dell’eroe. Il che rende strana la ricomparsa in scena di Erik, silenzioso e dimesso, e il cui percorso di evoluzione/redenzione doveva compiersi in virtù di queste scene tagliate. Un vero peccato, perché se Yuda rimane uguale a se stesso dall’inizio alla fine, incrollabile nel suo senso di giustizia, Erik era l’unico personaggio con un minimo di evoluzione in tutta la pellicola, oltre ad avere tanto da offrire sul versante calci in culo. Godetevi i prossimi 6 minuti e pensate che questo po’ po’ di roba è stato tagliato.
Pugno su pugno, calcio su calcio, lo scenario è sempre parte integrante dello scontro e rende tutto più familiare, più realistico mentre la frenesia cresce e tiene lo spettatore alla corda. Il contatto fisico si vede e si sente, la coreografia è come nascosta nella grezza confusione dello scontro. Il ritmo delle inquadrature e degli stacchi rende giustizia all’arte del silat anche all’occhio profano, passando da movimenti sinuosi e contorsioni fisiche a impatti brutali. Roba da gridare al miracolo visto che il tutto è stato girato con macchine da presa di tipo televisivo, quei bestioni pesanti che permettono ben poche contorsioni, e con la steady-cam a fare da jolly nelle scene più movimentate.
E Tony Jaa: MUTO!
“Merantau” è stato girato e montato quasi in tempo reale, con in mente la scena finale nel momento stesso in cui si svolge il combattimento, ed è questo il talento del regista: aver interiorizzato a tal punto lo stile made in Hong Kong da farne il punto (d)istintivo del suo cinema, tanto che nelle scene “tranquille” non viene da pensare a un fenomeno. Mi torna in mente quel che disse Valentino Rossi dopo aver provato la Ferrari: una Formula 1 funziona solo quando la spingi al massimo, se guidi piano e giri il volante lei non gira, tu pigi il freno e lei non frena. Evans è così: a velocità normali è un regista normale, ma quando il ritmo e l’energia salgono, quando si spinge sul pedale dell’azione, ecco che la sua visione esplode. L’antitesi pura di un Christopher Nolan, per dire.
Fermo immagine ottenuto rallentando le particelle della scena al CERN di Ginevra.
Pensate: crescere nella venerazione per Bruce Lee e Jackie Chan, e un giorno incontrare Iko Uwais. Quel che si dice avere più culo che anima? Anche. Ma bisogna pure metterlo davanti alla presa, il fenomeno, e qual è la cosa migliore – se non l’unica – da fare quando hai un artista marziale che buca lo schermo? Lo inquadri. Tutto. Non solo la faccia ma ogni suoi calcio e pugno. E no, non è così scontato, se in molti action si inquadra metà di quanto succede o si parla troppo, addirittura MENTRE ci si mena (come se Tuco Benedicto Juan Maria Ramirez non ci avesse spiegato le basi, che valgono tanto per le pistole quanto per i pugni).
Qui non si sprecano troppe inquadrature allo scagnozzo di turno, il protagonista è sempre piazzato al centro della scena mentre i nemici escono dalle fottute pareti. Lo spettatore e l’eroe hanno lo stesso tempo di reazione alle minacce, ed è lì che il colpo incassato fa più male, quello restituito ti gasa e la soluzione dello scontro soddisfa. Ma non c’è tempo per respirare perché ne arrivano altri! Da dove? Non c’è tempo per pensare. Schiva, incassa, contrattacca. Sempre in tensione, senza tempi morti.
Due contro Iko Uwais: uno scontro quasi alla pari. Quasi.
Anche se il meno famoso dell’ideale trilogia dei calci in culo di Gareth Evans e Iko Uwais (nella mai vana speranza di un The Raid 3), Merantau è un magnifico esempio di meta-cinema: la storia di un regista che non era ancora un vero regista e un ragazzo che non era ancora un attore. Due che hanno iniziato il loro viaggio nel mondo del cinema, sgomitando tra kung-fu e muay thai per farci conoscere un’altra espressione delle arti marziali, a noi bradipi da divano che sognando di dare calci in culo ci accontentiamo di non prenderne troppi, mai sazi di vederne a frotte su uno schermo.
P.S. Mille grazie a Quinto Moro per aver aperto le danze di menare, vi ricordo i suoi racconti che trovate QUI. Prossima settimana invece, vi invito tutti con me ad affrontare i piani di un certo palazzo, non mancate!
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