Straniero, questa Bara non è abbastanza grande per tutti e due. No, non è vero, guardate quanto posto. Infatti, oggi ospitiamo un nuovo capitolo della rubrica… Tutto quel Mel!
Con due film all’attivo e un Oscar portato a casa, il Maestro Brooks pallottoliere alla mano si è fatto due conti: tanto prestigio, entusiasmo e strette di mano, ma in banca il nostro aveva accumulato solo cinquantamila dollari tra scrittura, regia e recitazione. Forse, questa impresa del cinema non era poi tanto sostenibile, almeno finché Mad Mel non ricevette un invito a pranzo da parte di David Begelman, vuoi dirgli di no? Almeno si mangia!
Begelman e il suo socio Freddie Fields erano due agenti di successo, pronti a fondare la CMA, acronimo di Creative management Associates, che diventò presto l’agenzia di Brooks. La proposta era interessante, Begelman aveva letto la prima bozza di una sceneggiatura scritta dal critico cinematografico con aspirazioni da sceneggiatore Andrew Bergman, il un atipico soggetto Western che nelle mani di Brooks, il fondatore della CMA era sicuro sarebbe diventato dinamite. David, amico mio, tu lo sai che io lavoro su soggetti scritti da me, vero? Mel, amico mio, penso di poterti farti ottenere un centinaio di migliaia di dollari come compenso. David, amico mio, ti ho mai detto che nelle giuste circostanze lavoro anche su soggetti altrui? (storia vera).
La bozza s’intitolava “Tex X”, la prima parte del titolo è facile da comprendere, la seconda sottolineava il colore della pelle del protagonista, secondo Mel una vera bomba, dialoghi molto 1974 per un ambientazione molto 1874, un soggetto proprio nelle sue corde che sarebbe potuto diventare ancora migliore se Brooks avesse ottenuto di lavorarci sopra come ai vecchi tempi di “Your show of shows”, ovvero in gruppo, quindi, oltre al già coinvolto Bergman, il Maestro azzardò la richiesta: visto che è la storia di un nero, potrei avere Richard Pryor?
Richard Pryor ai tempi non era ancora il comico più esplosivo dei film anni ’80, ma era semplicemente lo stand up commedian più esplosivo del globo terraqueo. Noi abitanti di uno strambo paese a forma di scarpa non possiamo davvero capire la potenza dei suoi monologhi, vere rappresentazioni della sua vita, raccontate con la parlata delle persone vere e dettaglio del tutto non secondario, di colore. Un terremoto umanoide a cui Brooks saggiamente avrebbe voluto affidare anche il ruolo da protagonista, quello dello sceriffo Bart, ma intanto non ricevette obiezioni da parte di Begelman per arruolarlo come sceneggiatore. Manca ancora qualcuno? Sì, l’avvocato Norman Steinberg che sognava di fare l’autore comico, si era presentato proprio così a Brooks, con la voglia di cambiare carriera, ma alla condizione di portarsi dietro il suo coautore, il dentista con aspirazioni comiche Alan Uger, assunti entrambi! Tanto paga Begelman che mi frega!
Quindi, riassumendo: un ebreo, un nero, un critico cinematografico, un avvocato e un dentista. Sembra l’inizio di una barzelletta, invece è la squadra di dinamitardi che capitanati al Maestro Brooks al grido di «Scrivete tutto quello che vi passa per la testa! Dopo questo film finiremo tutti in galera!» ha trasformato il buon copione di “Tex X” in “Black Bart”, un intreccio che più classico e Western di così non sarebbe stato possibile: nel 1874 il politico corrotto Hedley Lamarr, generatore di gag sul suo nome fin troppo simile a quello dell’attrice Hedy Lamarr, lavora alla dipendenze del governatore William J. Lepetomane, ma vuole mettere le mani sulla terra su cui sorge la cittadina di Rock Ridge, per una speculazione in vista del futuro passaggio della ferrovia che farà lievitare il valore di quell’angolo di mondo.
Il piano del diabolico Hedy Hedley Lamarr è quello di mandare il più improbabile nuovo sceriffo a Rock Ridge, in modo da insultare, irritare e far inorridire così tanto gli abitanti, pronti così a fare le valige. La scelta ricade sullo schiavo “Black Bart” salvato dalla forca e spedito in città con stella sul petto, qui con l’aiuto dell’ex pistolero alcolizzato Waco Kid, la situazione verrà ribaltata perché, ve l’ho detto, il soggetto è quanto di più classico e Western possiate pensare, ma carico a pallettoni di pura follia comica, tutto reso possibile dal fatto che a produrre fosse la Warner Brothers, quindi nessun problema di diritti se Bart di colpo risolve un guaio facendo l’imitazione di Bugs Bunny (con tanto di musichetta dei Looney Tunes) o se pronuncia la stessa frase di Bogart in “Il tesoro della Sierra Madre” (1948) ovvero «Non ho bisogno di mostrarvi nessuno schifoso distintivo!», perché tanto era già tutta proprietà intellettuale della Warner. Ora, tutto questo è diventato la normalità, tanto che se ne abusa, ma nel 1974 prima di Mel Brooks a questo livello, nessuno lo aveva mai davvero fatto, quindi onore al Maestro!
L’umorismo è citazionista, ma anche basato su gag che arrivano da tutte le direzioni, quindi è normale che il leggendario Slim Pickens, fresco di una prova da storia del cinema in un Western crepuscolare, qui interpreti Taggart portandosi dietro la sua esperienza in tanti film, oltre ad offrire una grande lezione al Maestro Brooks: «Fare un film è faticoso, specialmente se come fai tu devi dirigerlo, non ti rendi nemmeno conto di quanta energia ti porta via, quindi appena ne hai l’occasione, riposati» la saggezza di chi è stato su più set di tutti quanti messi insieme (storia vera).
Il soggetto è talmente dinamite che permette a Brooks di spaziare con ogni tipo di trovata comiche, ispirate dai personaggi (è normale che uno sceriffo nero abbia una sacca da cavallo stilosa, di Gucci) oppure metanarrative, come Count Basie e la sua orchestra che, nel mezzo del deserto del Mojave, suonano il tema eroico del protagonista e vengono salutati… Beh, dal protagonista che passa davanti a loro cavalcando. Insomma, la solita mitragliata di trovate che hanno fatto scuola, perché nel corso degli anni tutti hanno pescato dalla genialità di Brooks, da Leo Ortolani ai Simpson, passando per Seth MacFarlane, tutti li ha tenuti a battesimo! Anzi, a proposito di Maestri che hanno preso ispirazione, il KKK preso giustamente a pernacchioni e il pistolero nero protagonista, da dove credete che arrivi il Django con la “D” muta di Tarantino? Proprio da questo film.
L’unico dettaglio che proprio non piaceva al Maestro Brooks era il titolo, “Black Bart” era troppo generico, ma siccome le idee migliori arrivano quando smetti di sforzarti a cercarle, l’illuminazione per Mel arrivò sotto la doccia, facendosi lo shampoo venne colto da folgorazione, due parole distinte e separate, di senso compiuto se pronunciate singolarmente, esilaranti nell’effetto se accoppiate: Blazing Saddles (“selle fiammeggianti”), due stereotipi Western al 100% per un risultato comico assicurato. Time Out Cassidy! Prendetevi due secondi per sollevare il vostro sguardo lassù al nome di questo blog e realizzerete che gli insegnamenti del Maestro nel corso degli anni hanno raggiunto anche i più indisciplinati e improbabili studenti sparsi nel globo. L’adattamento italiano, chilometrico come da tradizione del periodo, a suo modo, è piuttosto brillante, visto che mette in chiaro le fonti d’ispirazione, anche se, devo dirvelo, a mio avviso, si tratta di un adattamento decente, posso sopportare quell’accento vagamente veneto appioppato al beone Waco Kid, però il capo indiano (uno dei tanti ruoli di Brooks nel film) che parla siciliano anziché Yiddish mi ha sempre convinto poco, quindi godetevelo in originale, fine del Time Out breve!
Però quello che amo dei film del Maestro sta in quel tocco sempre molto umano nei suoi personaggi che fanno e dicono cose assurde in grado di farti cadere dalla sedia dal ridere, ma sono sempre mossi da sentimenti e obbiettivi concreti, non si perde mai di vista il fatto che la storia alla base debba funzionare e coinvolgere, oltre a far molto, ma molto ridere. Si nota quando Waco Kid cerca di consolare Black Bart, dopo il suo primo tentativo di far colpo sui locali. Secondo Brooks la battuta «Sono poveri contadini ignoranti. Non la cambi mica questa gente del nuovo West. È gentucola… merda!», doveva essere pronunciata in modo solenne, da qualcuno di serio come un attacco di cuore, perché il sogno per il ruolo del pistolero Waco Kid per Brooks era solo uno, John Wayne.
Al Duca era piaciuto molto Per favore, non toccate le vecchiette e fu ben felice di leggere le sceneggiatura, ma il giorno dopo il loro primo incontro, l’americano più americano del mondo sentenziò: «Mel, questa è una delle cose più folli e divertenti che io abbia mai letto. Ma non posso proprio fare questo film. È troppo indecente, i miei fan mi perdonano qualunque cosa, ma non l’indecenza, non fa per loro. Fai questo film ed io sarò in prima fila ad applaudirlo, però non posso prendervi parte» (storia vera).
Non potendo avere il Duca, l’unica soluzione era puntare tutto sul fatto che Waco Kid fosse un ruolo alla Dean Martin e prendere qualcuno che lo ricordasse come Gig Young, il cui agente era pronto a giurare e spergiurare: tranquilli! Non beve più è pulito da mesi! Se lallerò! Alla prima scena appeso a testa in giù nella cella, ovvero l’entrata in scena del personaggio in “Blazing Saddles” si è trasformato presto in una scena dell’Esorcista, con Gig a spruzzare vomito in ogni angolo del set, ancora pieno dalla sera prima e con più alcool che sangue nelle vene (storia vera), ma ora dove lo troviamo un altro giusto per il ruolo di Waco Kid? Nel solito posto Mel, il tuo pretoriano Gene Wilder.
Disperato il Maestro alzò il telefono per chiamare l’amico che prese un volo il mattino seguente per provare un paio di battute, con un cambio di cappello (perché quello nero donava molto di più a Wilder), Brooks aveva trovato il suo Waco Kid. Non aveva bisogno di un attore “serio” per quel ruolo, ma di qualcuno in grado di pronunciare anche le frasi più assurde (come la mano che trema, non quella, l’altra) con un approccio da Western, infatti trovo geniale il fatto che Waco Kid sia così veloce a sparare, tanto che nel film, di fatto, non lo vediamo mai estrarre, troppo rapido anche per il nostro occhio di spettatori.
Ma radunare il cast per Brooks è stato più complesso che mettere insieme la sua banda di sceneggiatori, va bene avere Richard Pryor come autore, ma come protagonista? La Warner ne era terrorizzata, non solo per il peso “politico” che il comico si stava conquistando con i suoi monologhi, ma anche per le sue abitudini ritenute pericolose, dopo Gig Young meglio affidarsi al più sicuro Cleavon Little che interpreta Bart con quel tocco di candore che serve allo sceriffo arrivato in città per combattere i cattivi, ovviamente uno più colorito dell’altro.
Brooks assecondando la sua ossessione per le segretarie “pettorute” si ritaglia qualche piccolo ruolo, come quello del governatore, mentre Harvey Korman è spettacolare nei panni del diabolico Lamarr che nel discorso alle “truppe” pronostica per la sua prova da cattivo almeno un Oscar. Anche se tra i vari trucchi con cui poi cerca di fare lo sgambetto allo sceriffo Bart, ci sono da considerare prima la bestia e poi la bella.
Per il ruolo del terrificante Mongo, il Maestro Brooks ha scelto il difensore dei Detroit Lions Alex Karras, un energumeno che come il Conan di Milius, non prende a pugni i cammelli, ma i cavalli sì! Anche se la sua laconica presa di coscienza («Mongo è solo una pedina nel gioco della vita») ogni volta mi fa rotolare dal ridere.
Nei panni della bella, invece, Mel Brooks si affida ad un’attrice che aveva ammirato in due film di Peter Bogdanovich ovvero “Ma papà ti manda sola?” (1972) e “Paper Moon” (1973), convinto che con quel vibrato Madeline Kahn avrebbe potuto cantare qualunque cosa. Sull’attrice entrata con questo film a far parte in pianta stabile della “factory” di nomi di fiducia di Brooks, il regista nella sua autobiografia snocciola la più bella frase che si possa dire di qualcuno: «La sola cosa che non le permise di arrivare in vetta fu un piccolo difetto di carattere chiamato modestia.»
Nei piani del Maestro, Lili Von Shtupp oltre a rappresentare la quota con cui il nostro prende per i fondelli i crucchi (vecchia storia di Nazismo, per un ebreo di Brooklyn come lui una leggera fissa) era anche la versione locale della Marlene Dietrich di “Partita d’azzardo” (1939), quindi ci voleva qualcuna con voce e gambe in grado di tenere testa, al provino Brooks chiese a Madeline Kahn di alzare leggermente la gonna ottenendo come risposta: «Ah, quindi si tratta di quel genere di provino», voi capite che una così era fatta dal sarto per l’umorismo del Maestro. Tanto che non solo capì il riferimento a Marlene Dietrich, ma cantando riuscì a fare qualcosa di difficilissimo per chi sa tenere davvero bene una nota, ovvero infilare nella sua prova quelle piccole “stonature” proprio come faceva la Dietrich. La sua “I’m Tired” è geniale per interpretazione, ma anche come trovata comica, dovrebbe essere la presentazione della “panterona” che, però, ci canta che è semplicemente troppo stanca, perché la vita della predatrice da materasso non è tutta riposo.
“Mezzogiorno e mezzo di fuoco” è un film brillante per diverse ragioni, la prima sicuramente il suo essere la perfetta parodia di un genere che per decenni è stato il più popolare ad Hollywood, due tipologie di pellicole determinano la fine di un filone aurifero, i titoli crepuscolari e le parodie, quindi Mel Brooks ha amorevolmente sfottuto un’epoca dimostrando di conoscerlo davvero bene il Western e i suoi meccanismi, creando una formula che avrebbe poi ripetuto con Frankenstein Junior, solo volgendo il suo sguardo agli horror.
Quello che mi manca delle parodie nel panorama odierno è proprio questo, se gli spettatori ti prendono per il naso su “Infernet” a colpi di meme, di fatto ti fanno comunque pubblicità gratuita, se invece è un tuo collega a farti pubblicità certo, ma anche a sfotterti, è qualcosa di diverso che dovrebbe portare alla fine di certi clichè cinematografici. Ad esempio, voi siete mai più riusciti a guardare i campeggi di Cowboy e le loro pentole di fagioli allo stesso modo dopo “Blazing Saddles”? Io no, perché nella sua gioiosa trivialità, ci ha ricordato che ad ogni fagiolo ingurgitato, segue una sonora risposta che Brooks ha elevato ad arte, per quella che sarà per sempre la più grande scena di scoregge della storia della settima arte!
Allo stesso modo io vorrei parlare dell’elefante al centro della stanza, ovvero il fatto che in questo film nessuno venga definito “di colore”, oppure altre educate espressioni per girare intorno alla questione. Va ricordato che l’uso della parola con la “N” è stato comunque approvato sia da Cleavon Little nel cast che da Richard Pryor, come sceneggiatore, ma prima che sembri un modo paraculo per mettere le mani avanti va detto, nel 1874 nessuno si rivolgeva ai neri chiamandolo “afroamericani”, in tal senso il film è storicamente sensato oltre a mettere alla berlina il razzismo proprio come The Producers puntava il dito contro l’antisemitismo serpeggiante anche nel mondo dello spettacolo. Quindi, tutto il discorso per cui un film così oggi bla bla bla non ha senso perché tanto oggi un film così brillante possiamo scordarcelo, inoltre si tratta di satira, funziona solo se qualcuno o meglio, tutti, magari a turno, s’incazzano mentre tutti gli altri ridono, ennesima lezione da parte del Maestro, anche le parole tabù vanno utilizzate con del sale in zucca… cazzo!
Poi mi rendo conto che “Blazing Saddles” mi è proprio rimasto incollato addosso, ogni tanto parto per casa fingendo di essere a cavallo, cantandomi il tema principale, quello composto da Brooks che si sente sui titoli di testa di questo film che ad una prima occhiata, complice anche il formato anamorfico utilizzato per girarlo, sembra davvero uno di quei Western di cui mi nutrivo da bambino. Per me guardare questo film alternato a Gary Cooper, John Wayne e Clint Eastwood è stato davvero formativo, perché avevo davanti a me tutto lo spettro del genere Western in tutte le sue sfaccettature, per non parlare delle mille gag e trovate esilarati citate in continuazione, insomma, c’è aria di Classido anche oggi!
Anzi, se devo essere onesto, il motivo per cui ancora oggi ho un debole per le storie dove la quarta parete viene abbattuta, lo devo proprio al folle finale di “Mezzogiorno e mezzo di fuoco”, tanti sono stati i registi che hanno giocato con la metanarrativa e che hanno infranto la quarta parete, ma Mel Brooks l’ha semplicemente mandata in pezzi!
Quando i pistoleri del film fanno irruzione nel set dove sta andando in scena l’assurdo musical diretto da Dom DeLuise la follia prende il controllo degli eventi, in una trovata comica che invece di rientrare nei binari, esagera, poi esagera ancora un po’ e poi quando ormai completamente deragliata nel campo dell’anarchia pura, pensa bene che sì, questo è il momento di esagerare un altro po’. La fuga dagli uffici della Warner, il cattivo che prende un taxi per scappare dal film e viene inseguito dallo sceriffo a cavallo, fino al duello nell’atrio di un cinema solo per poi vedere i protagonisti rientrare in sala e guardare beh, la fine del loro stesso film. Sul serio, quando distribuivano la genialità sono rimasti tutti con un palmo di naso, perché Mel Brooks nottetempo l’aveva già rubata tutta.
Il finale, poi, è una meraviglia («Dove sei diretto, cowboy?», «In nessun posto speciale», «In nessun posto speciale? Ho sempre desiderato andarci») di fatto è il coronamento dell’amicizia virile su cui sono basati tutti i Western, ma anche un amorevole sberleffo alla cavalcata verso il tramonto di titoli fondamentali come “Il cavaliere della valle solitaria” (1953), perché va bene il cavallo, ma con una limousine vai più lontano e senza dolori al culo per via della sella (fiammeggiante).
Ma l’ultimo duello Brooks lo ha avuto con il capo della Warner che dopo la prima proiezione del film ordinò al regista di togliere i cavalli presi a pugni, la parola con la “N”, il numero musicale di Madeline Kahn considerato troppo spinto. Brooks fece sì con la testa e non tolse dal suo film nemmeno un fotogramma, forte di un contratto firmato anni prima dal suo avvocato che gli ha sempre garantito l’ultima parola sul montaggio, ovviamente aveva ragione lui, non solo il film, distribuito in poche copie fu un successo, restò in sala tutta l’estate diventando il più grosso incasso del 1974.
Al terzo posto di quella classifica trovate l’altro grande capolavoro di Brooks del 1974, lo conoscete a memoria e ne abbiamo già parlato, ma per un ripasso vi basterà cliccare fortissimo QUI. Per questa settimana la nostra sortita nel vecchio West l’abbiamo fatta, il Maestro Mel Brooks tornerà a trovarci la prossima settima e non indovinerete mai con quale titolo lo farà, per scoprirlo dovrete essere grandi investigatori oppure, aspettare qualche giorno.
Sepolto in precedenza venerdì 31 marzo 2023
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