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Mike (2022): like Mike, if I could be lik… no niente, Mike sbagliato scusate

La vita di Mike
Tyson è stata talmente folle da non poter non attirare l’attenzione, in quest’epoca
in cui una biografia viene concessa a tutti, anche a chi in vita sua ne ha
combinate decisamente meno dell’ex campione del mondo dei pesi massimi.
Avevo dei dubbi e li
mantengo in buona parte, visto che sono ancora convinto che il film per la
televisione firmato HBO del 1995 intitolato “Tyson”, fosse ancora il più adatto
a raccontare la furia dei pugni del pugile, anche perché ad interpretarlo ai
tempi erano stati scelti i muscoli e il diastema di Michael Jai White,
per altro in gran spolvero, se non lo avete mai visto ve lo consiglio.
Non sarà MJW, ma il fisico non gli manca.

Per quanto riguarda “Mike”,
fin dal titolo sono chiari gli intenti di mettere al centro della miniserie
composta da otto episodi, più la persona che il mito del pugile, che in carriera
è stato chiamato in tanti modi, Iron Mike, il cannibale e qui lo etichettano anche
come “saltalberi” al costo di farsi spaccare la faccia a colpi di pugni. La
formula è collaudata, perché rimette insieme la coppia che ha firmato una delle
biografie (o dramma sportivo, fate voi) più bello e sottovalutato degli ultimi
anni, non mi stancherò mai di consigliare Tonya e occhio perché in “Mike”,
Margot Robbie ricopre un ruolo come produttrice, giusto per confermare la bontà
della formula.

Steven Rogers torna
a sceneggiare, mentre dietro alla macchina da presa il suo compare Craig
Gillespie, firma un’altra biografia in odore di anni ’90, dopo Pam & Tommy,
che in comune con “Mike” ha il canale originale americano, ovvero Hulu e la
destinazione italica, il palinsesto Star su Disney+, detentore per il nostro Paese
di tutta la roba piena di violenza sesso e parolacce di Hulu. Giusto ribadirlo
perché ancora questo concetto è oggetto di battutine fuori fuoco su “Infernet”.
«Ah ah una serie su Mike Tyson prodotta da Disn…» SBAM!

Parlavo di formula
ed è chiaro che squadra che vince non si cambia, il ritmo di “Mike” è veloce, a
tratti quasi da videoclip (non è un caso che il finale di stagione sia stato
diretto da uno specialista del genere come Director X), in otto puntate di
circa mezz’ora l’una, il ritmo alto è garantito, così come la velocità, che sembra
un po’ la stessa con cui Iron Mike faceva mordere la polvere ai malcapitati finiti davanti ai suoi pugni, basta un ellisse narrativo sulle note di “X Gon’
Give It To Ya” di DMX per raccontarci come il ragazzino grasso con la zeppa in
bocca che le prendeva da tutti, sia diventato il “mostro” in grado di far
durare i match due round o poco più, in base a quanta voglia aveva di giocare.

Ma prima di tutto “Mike”
è strutturata come una confessione a cuore aperto, sfruttando tutti gli eventi
intercorsi nella vita del pugile che il film targato HBO del 1995 non poteva
prevedere, ma anche la sua nuova carriera di intrattenitore, la serie inizia su
un palco dove Tyson (Trevante Rhodes) sotto un riflettore racconto al pubblico
in sala tutta la sua vita, seguendo il rigoroso ordine di ascesa, caduta e
rinascita (l’episodio finale si intitola “Phoenix”), unica mancanza grossa, la
controversa storia con Naomi Campbell, che probabilmente non ha firmato proprio
tutti i fogli per apparire rappresentata nella miniserie, viste che le precedenti storie tesissime con il
pugile sono state storiche (mazzate).
Prima delle notti da leoni (che comunque non si è mai negato)

Trevante Rhodes
offre una prova frizzante, la sua trasformazione (anche fisica) è evidente,
netta nel seguire la vita e la carriera di Tyson, il tutto condito da un difetto
di pronuncia e un modo di gesticolare che ricorda davvero quello di Iron Mike,
con una postilla doverosa, quando parla Trevante Rhodes si capisce, l’inglese
(se così possiamo chiamarlo) di Mike Tyson invece è del tutto incomprensibile,
quindi da questo punto di vista è stato un minimo ingentilito per la serie.

“Mike” racconto nel
dettaglio la storia, senza pietismi, l’unico addolcimento è stata la pronuncia
di Trevante Rhodes, sul resto la serie non tira mai via la mano sulle colpe del
pugile, l’episodio cinque (“Desiree”) ribalta completamente il punto di vista,
portando al centro della scena (se non proprio del ring) l’allora 18enne Desiree
Washington (Li Eubanks) vittima di violenza sessuale da parte del campione del
mondo. Ma “Mike” mette anche in chiaro come l’industria sportiva non provi
nemmeno ad aiutare qualcuno che avrebbe avuto davvero bisogno di supporto, più
interessata alla furiosa potenza dei suoi pugni. Il personaggio stesso, dall’alto dell’esperienza,
dalla poltrona comoda di Padre Tempo, degli sbagli del passato, delle cicatrici
e dei tatuaggi in faccia, ci racconta il suo “cammino dell’anti-eroe”, da
ragazzino che le prendeva da tutti, fino a diventare il “mostro” del suo primo
allenatore, Cus D’Amato (un Harvey Keitel in gran forma), fino agli eccessi, “il
cannibale”, per arrivare con gran fatica, lutti e perdite ad essere
semplicemente Mike, in una serie che non assolve, al massimo sottolinea quanto l’ex
campione del mondo sia parte della cultura popolare.
Harvey Keitel nella versione dei Mickey di turno.

Allo stesso modo, ma
in maniera meno efficace vista la natura del soggetto, “Mike” segue la scia di
serie come Winning Time, con la differenza che i Los Angeles Lakers li
puoi raccontare solo attraverso la loro soap opera tutta matta perché sono proprio
questo, un’infinita telenovelas a base di pallacanestro, Mike Tyson invece è un
narratore inaffidabile, perché ognuno è l’eroe della propria storia, anche
quando è consapevole di essere nei casi migliori, un anti eroe, anche se ho un
sospetto.
«Vi ho raccontato di quella volta in cui mi sono menato con Donnie Yen
 
Temo che la rottura
della quarta parete, che un tempo era una rarità, stia diventando sempre più
speso l’espediente per tenere alta l’attenzione di un pubblico che segue le
serie con un occhio sulla tv e l’altro sul telefono. Sta di fatto che finché l’espediente
non diverrà abusato, va detto che per “Mike” ci sta come il cacio sui
maccheroni, perché ammettiamolo, nessuno vorrebbe essere come Mike, ma tutti un
po’ lo abbiamo ammirato perché ha avuto la forza di arrivare in alto e la
follia di non negarsi niente, quindi se non si trattava di vera ammirazione,
almeno di sincero interesse nel vedere il mondo dal suo punto di vista, in questo senso “Mike” è un KO al primo round, una vittoria netta.
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