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Milano calibro 9 (1972): Davanti a un film così il cappello ti devi levare!

Il 2017 è stato
funestato da fin troppi lutti cinematografici (e non solo) che in qualche modo,
insieme agli altri blogger cinefili stiamo ancora cercando di omaggiare in maniera
adeguata, per il grande Gastone Moschin potevo scegliere un solo film: “Milano
calibro 9”.

Appena penso a
Moschin a me viene in mente con addosso lo spolverino alla Frank Costello di “Le
Samouraï” (1967) di Jean-Pierre Melville che è la fonte cinematografica da
cui tanti grandi registi si sono abbeverati, qualche nome? Per gli Stati Uniti Walter Hill, per il Giappone Takeshi Kitano, per la Cina John Woo e
per l’Italia… Fernando Di Leo… Degli applausi sarebbero graditi!

“Milano calibro 9”
è il primo capitolo della “Trilogia del milieu” che si completa con “La mala
ordina” (1972) e “Il boss” (1973), ma il materiale di partenza sono anche i
racconti di Giorgio Scerbanenco, perché la base letteraria noir di questo film
è molto importante.
Il titolo
originale avrebbe dovuto essere “Da lunedì a lunedì”,
titolo che, in seguito, lo stesso Di Leo ha riciclato per un romanzo noir scritto di suo
pugno, lasciatemelo dire: meglio così perché “Milano calibro 9” è uno dei
titoli più fighi vi possano venire in mente per un film!



No sul serio, i titoli dei poliziotteschi italiani non si battono.

Eppure, “Da lunedì
a lunedì” avrebbe reso molto bene l’andamento del film, un periodo di tempo
breve, ben scandito e destinato a terminare, proprio come quello che Ugo Piazza
(Gastone Moschin) passa in carcere: tre anni a San Vittore passati senza mai
dire mezza parola, senza mai tradire i suoi colleghi che, però, sono ancora
convinti che quei trecentomila dollari (in banconote da dieci) spariti se li
sia intascati proprio il buon Ugo che, infatti, appena uscito si ritrova ad
attenderlo il faccione sghignazzante di Rocco Musco (Mario Adorf) scagnozzo
dell’Americano (Lionel Stander) che gradirebbe riavere indietro i suoi soldi.

Da qui la vicenda
viene scandita con puntuale regolarità, sulle note della trascinante e bellissima
colonna sonora composta dal mitico Luis Enríquez Bacalov coadiuvato dal gruppo
progressive degli Osanna che regalano sfumature Rock, non solo al tema
principale, ma all’intera colonna sonora.
Ugo Piazza sarà
pure un uomo libero, ma non lo è mai davvero, su di lui gli occhi non solo dell’Americano,
ma anche del commissario di polizia (Frank Wolff) che aspetta solo un passo
falso per risbatterlo dentro, per non dimenticare quell’ombra rosso vestita
che segue Piazza per tutto il tempo, anche se Di Leo è bravissimo nel
mostrarci, ma anche nel non lasciare troppo tempo allo spettatore di farsi
domande, perché “Milano calibro 9” parte subito con il valzer dei personaggi
che uno ad uno tornano nella vita di Ugo Piazza.


Un tripudio di giacche di pelle e spolverini beige che figata!

Un film parlato “Milano
calibro 9”, molto parlato, in cui ogni personaggio è costruito così bene
da calamitare l’attenzione del pubblico, tutti cesellati con dovizia seguendo i
parametri imposti dal genere Noir, eppure incredibilmente memorabili, come il
nostalgico Don Vincenzo di Ivo Garrani, un tempo potente padrino di Ugo Piazza,
ora solo un vecchio cieco alla fine del suo tempo.

In un film in cui
il “Buono” è un avanzo di galera con un’etica e un sogno (quello di scappare a
Beirut con la sua bella), possono esserci solo tante sfumature di nero (o di
noir fate voi), l’ultima rappresentata da quello che è davvero l’unico “Cattivo”
a tutto tondo, in un carosello di personaggi che per definire buoni sul serio,
bisognerebbe avere svariate fette di prosciutto sugli occhi. L’Americano di Lionel
Stander non imita davvero nessuno dei grandi Boss visti al cinema, sembra più
un padre particolarmente manesco che un vero Don Corleone.



“Mi farete un’offerta che non potrò rifiutare?” , “No, pensavamo di gonfiarti di botte e basta”.

Ma tutti i
personaggi che ruotano attorno a Ugo Piazza funzionano, a volte perché hanno
punti in comune con l’etica del protagonista, come accade a Chino che ha la
canottiera, il fisico e il volto spigoloso di un bravissimo Philippe Leroy, ma
proprio come Ugo non avrà tanto tempo da passare su questo palcoscenico di
personaggi, malgrado il suo preoccuparsi e continuo scalciare contro il
destino.

“Basta mi avete stufato, io scappo a Mompracem non provate a seguirmi!”.

Il personaggio
che brilla più di tutti accanto a Ugo è la sua amata Nelly, ballerina e
spogliarellista in un locale dove fanno bella mostra di loro le solite
bottiglie con l’etichetta gialla e la scritta rossa J&B, abitudine tipica
del nostro cinema di genere, che oltre a puntare al denaro per autoprodursi, ambiva
anche ad essere nazionalpopolare nel senso per una volta migliore possibile del
termine, o per lo meno come lo possiamo intendere in questo strambo Paese a
forma di scarpa.

Notare l’angolo ardito dell’inquadr… Ma che parlo a fare, siete tutti distratti da altro!

Fernando Di Leo a
Nelly regala un’entrata in scena che non si dimentica, non solo per l’inquadratura
ardita, quanto più che altro al fatto che Barbara Bouchet qui è di una bellezza
stordente, bionda, angelica e diabolica in parti uguali, algida e con gli occhi
chiari proprio come Ugo Piazza, una specie di Penelope che ha aspettato il suo
ritorno a casa, facendo e disfacendo tele e trame, ma non solo quello, ecco.

Basta guardare il
personaggio della Bouchet quanta iconografia ha saputo inventare o rielaborare
Fernando Di Leo in questo film, la casa milanese della bionda è una specie di
esposizione di arredi di design che potrebbero risultare di moda ancora oggi,
ad esempio il mio cane sopra quel tappetone peloso farebbe faville ne sono
certo!



Si vede che a Milano hann un certo gusto per la roba alla moda.

Non sono uno di
quelli che si gioca il nome Tarantino per certificare la bontà di un film, ma il
grande rimestatore Quentin ha pescato a piene mani proprio da qui per dirigere
la scena in cui Vincent Vega (John Travolta) arriva a casa di Mia Wallace (Uma
Thurman) per portarla fuori a cena in “Pulp Fiction” (1994), l’appartamento è
quasi lo stesso, il cappotto indossato dai due personaggi è identico, insomma
se Tarantino omaggia è perché dell’iconografia da saccheggiare non manca. Nel mio
piccolo, invece, il film lo omaggio in un altro modo…

Quelle poche
pennellate di vera azione sono tutte piuttosto tese, portano “Milano
calibro 9” in piena zona suspense, in particolare amo molto la scena dello scambio
dei pacchi (bomba) alla stazione centrale di Milano, una scena coordinata molto
bene che procede in crescendo con le note di Bacalov in sottofondo ed un
finale beffardo, mi viene da dire molto italiano nel tipo di umorismo (“Guarda
un po’ dentro se c’è tutto” Boom! “C’era tutto”).
Di Leo è
bravissimo a tenere sempre sul filo lo spettatore, per farlo utilizza tutto,
anche i lunghi dialoghi tra i due poliziotti che, a ben guardare, potrebbero
essere l’unica parte del film che corre il rischio di allungare il brodo,
eppure sono esplicativi del periodo storico, ma soprattutto della posizione
politica dello stesso Di Leo, che non è timido nel mandarle da dire. Da una
parte abbiamo il commissario di Frank Wolff, che per comodità chiameremo fascista,
almeno a giudicare dalle frasi che non si tiene certo per sé, soprattutto
quando fa a capocciate con il vicecommissario Mercuri interpretato da Luigi
Pistilli, che sempre nell’ottica della comodità definiremo comunista, quando al
suo responsabile chiede se la polizia ha mai manganellato i ricchi, oppure se
il torto sta sempre dove stanno operai, studenti e terroni. Insomma,
testimonianza di uno scontro tra fazioni mai davvero sopito, ma anche di un
cinema orgoglioso di parlare come le persone che andavano in sala a vederlo. A
proposito di parlare, che bello sentire Barbara Bouchet che dice cose come “Se
il milanese ti ha tirato la ganciata”, trovate un doppiaggio moderno in cui
qualcuno usa un termine del genere e vi offrirò una birra, o un J&B come
preferite.



“Venga avanti, coglionazzo!”, “Guarda che quello è un altro film”.

Il tempo che scorre
inesorabile consuma tutti i personaggi e i loro drammi, che fanno la fine di
quella sigaretta appoggiata su un tavolo a bruciare che è l’ultima immagine
iconica di un film pieno di iconografia. Nel finale tutta la struttura del noir
lascia il passo al disastro, più simile a come i destini prendano la via sbagliata
più nella vita vera che al cinema, in cui tutto quello che può andare storto ci
va e tu puoi anche essere scaltrissimo come Ugo Piazza, ma alla fine finirai
fregato lo stesso.

In questo dramma
tutti gli equilibri tra i personaggi saltano in aria con il tritolo, gli innamorati
si prendono per il collo, quelli oculati perdono, coloro che vorrebbero vivere
tranquilli finiscono la loro storia a revolverate e persino i più ostili
critici si ritrovano a mostrare rispetto.
Tutto ruota
proprio attorno ad Ugo Piazza, come detto algido, nordico, gli occhi chiari di Gastone
Moschin sono quelli di un uomo braccato, che quasi sembra sapere di non avere
più tempo, incredibile come uno come lui che arrivava da così tante commedie
(devo citarvi quel capolavoro che è “Amici miei”?) qui funzioni alla perfezione
anche nella parte di un buono, per quanto possano esserlo davvero i personaggi
di questo film , che proprio per il suo essere tale in questa storia e in
questo strambo Paese a forma di scarpa non può che finire male.



Certe facce appartengono di diritto al cinema.

Il massimo che
potrà ottenere? Che qualcuno gli dirà bravo come lo si dice ai fessi che hanno
ragione, quelli del vecchio proverbio. Proprio per questo Rocco Musco è forse
il personaggio che funziona maggiormente in opposizione a Ugo Piazza. La prova
dell’attore austriaco Mario Adorf è semplicemente perfetta, merito anche del
suo doppiatore che ci regala il perfetto uomo del Sud, verace, tanto sguaiato
quando Piazza è silenzioso e calcolatore, sembrano lo Yin e Yang e per
questo nel finale in cui tutto va storto è proprio lui a riconoscere un suo
simile e a concedere a Piazza il suo unico onore, lo fa a suo modo, urlando e
strangolando: «Tu davanti ad uno come Ugo Piazza il cappello ti devi levare!!».

“Pronto? Ve lo siete levati il cappello? Non fatemi venire lì a controllare”.

La formula del
film è talmente efficace che lo stesso Fernando Di Leo ha provato a replicarla
nel 1974 nel film “Diamanti sporchi di sangue”, però ambientato a Roma, oppure nel
già citato “La mala ordina” (1972) che promuoveva il talento di Mario Adorf a
protagonista. Eppure, “Milano calibro 9” ha un altro passo, vuoi anche perché Milano
sembra nebbiosa anche con il sole, il perfetto sfondo di questo dramma
nerissimo di personaggi con poco tempo e il destino già segnato.

Visto che anche
io ormai sono giunto alla fine, concludo dicendo che davanti a quello che è
giustamente considerato il poliziesco più famoso mai sfornato da questo cinema,
dovremmo tutti seguire il consiglio di Rocco Musco, levarsi il cappello, perché
davanti ad uno come Gastone Moschin il cappello ti devi levare!!







Questo post fa parte dell’omaggio tra Blogger cinefili per ricordare i (purtroppo) tanti attori e registi che ci hanno lasciato in questo 2017, qui trovate l’omaggio di Pietro Saba World e di La fabbrica dei sogni al grande Martin Landau, e il mio a Sam Shepard. Tenete d’occhio la blogosfera perché ne arriveranno ancora.

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