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Millennium – Quello che non uccide (2018): Uomini che odiano Fede Álvarez

La sabbia negli occhi. Non riuscire mai a trovare una penna
che scrive, quando hai fretta di appuntarti qualcosa. Le feste comandate che
cadono di domenica. Gli autisti che non rallentano quando passano accanto alle
fermate del bus quando piove. Tutti piccoli fastidi quotidiani che, comunque, mi
urticano meno di leggere sul grande schermo le parole “Directed by Fede Álvarez”.
Lasciatemi l’icona aperta, che sull’uruguaiano ci torniamo più avanti.

Non ho mai letto i romanzi di Stieg Larsson, quindi la saga
di Millennium ho potuto valutarla solo sulla base dei film che sono stati
tratti, proviamo a fare un breve punto della situazione partendo dal principio.
I primi tre film svedesi con Noomi Rapace nei panni della Hacker Lisbeth
Salander mi erano piaciucchiati, il primo diretto da Niels Arden Oplev nel
2009, era quello più crudo, ma non mi aveva fatto appassionare granché alla
storia, problema mio.

Anche se normalmente sono contrario a questo tipo di
operazioni, il remake americano lo avevo trovato molto migliore, sì perché gli Americani pur di non leggere i sottotitoli dei film fanno prima: ne sfornano
una versione locale parlata nell’unica lingua che conoscono. Per fortuna, nel
2011 hanno affidato l’operazione a uno che sa il fatto suo, il “Millennium –
Uomini che odiano le donne” di David Fincher manteneva i nomi dei personaggi, l’ambientazione svedese e, soprattutto, l’atmosfera plumbea dei film originali, il tutto, però, con
una narrazione secondo me più coesa, lo dico fuori dai denti: tutta la sottotrama
dei Neonazisti per me aveva più senso nel film di Fincher che in quello di Niels
Arden Oplev. Inoltre, il remake aveva due grandi pregi: il primo, quello di aver
messo sulla carta geografica l’attrice Rooney Mara, il secondo, aver chiarito al
mondo quello che ho sempre pensato dagli anni ’90, ovvero che “Sail away” di
Enja è una canzone con dentro qualcosa di inquietante, mentre tutti attorno a
me dicevano: «Oh com’è rilassante questo pezzo» io pensavo che fosse roba che
solo un serial killer a casina sua poteva ascoltarsi, quindi grazie signor
Fincher.

A sinistra, Glenn Danzig dei Misfits. Al centro versione Gothic Metal. A destra Dolores O’Riordan dei Cranberries.

Detto questo, il film del regista di Alien3, non ha incassato molto (troppi fan di Enja in giro, l’ho
sempre pensato), eppure MGM e Sony pictures di smollare il colpo e abbandonare
il filone dei romanzi del compianto Stieg Larsson, proprio non ne hanno voglia. Evidentemente dopo essersi
accaparrati i diritti, devono rientrare dei soldi spesi, solo che Fincher li ha
salutati con l’altra mano, citando gli Elii, quindi tocca inventarsi qualcosa.

Nel frattempo, purtroppo, Stieg Larsson è passato a miglior
vita lasciandoci tre libri su Lisbeth Salander, due manoscritti per i seguiti e
un paio di lezioni di vita importanti, la prima: vivete una vita sana, perché
morire d’infarto non è bello, ma farlo perché l’ascensore è rotto e devi fare
le scale di casa è ancora peggio. La seconda: se nella vita avete una compagna
di cui vi fidate così tanto da affidarle i manoscritti dei vostri due prossimi
romanzi campioni d’incassi, trovate il tempo di sposarla, perché la vita è
breve e le rampe di scale da affrontare tante.

“Ok, fai ancora cento addominali poi forse ti farò scendere”.

Non essendo sposati, la compagna di Stieg Larsson a cui
erano stati affidati i preziosi soggetti, non ha potuto avere voce in capitolo,
i manoscritti sono finiti ai parenti diretti dello scrittore, il padre e il
fratello che hanno affidato tutto allo scrittore David Lagercrantz che ha portato
avanti le avventure di Lisbeth Salander. Ma gli Americani di tutte queste trame
tra Svedesi hanno capitolo solo una cosa: punto ideale di partenza per far
ripartire la serie di film, sotto con il rilancio!

Ora (e qui andiamo nel campo nelle mie teorie paranoiche),
provando a pensare come uno che mette i soldini sul tavolo per produrre i film,
penso che l’unica cosa peggiore di un film che ha fatto flop, sia il primo capitolo
di una saga che ha fatto flop. L’idea di una saga incompleta potrebbe
allontanare anche quei pochi che vorrebbero dare una possibilità al film,
meglio fingere buona salute e sfornare subito un altro titolo per provare ad
incassare. Oh! Teoria mia, poi magari non è andata così, sta di fatto che qui
entra in gioco Fede Álvarez.

“Tu che sai usare il computer, ordinami online un Kebab arrotolato con tutto, ma che sia tipo grosso così ok?”.

Ho enorme stima di Sam Raimi, ma una cosa proprio gli viene
male: fare il produttore. La parte della filmografia di Raimi da produttore,
ha degli scheletri nell’armadio notevoli (“Boogeyman” brrr…) e anche la colpa
di aver sponsorizzato Fede Álvarez come il secondo avvento. Sul remake di “La
Casa” (2013) diretto da Álvarez, preferirei non dire niente perché non è bello
leggere un post che degenera in un elenco di Santi tirati giù dal calendario
con una selezione di parole ben poco gentili, è andata anche peggio con il
modesto Man in the Dark su cui,
invece, mi sono già espresso, per altro senza molestare Santi, non so bene come
abbia fatto.

Quello che critico al regista uruguaiano è la sua
propensione a tirare sempre via la mano, quando è il momento di mostrare la
violenza, ma soprattutto, una certa propensione a, non vorrei utilizzare l’espressione
“Mettersi a 90 per chi lo paga”, diciamo allora inchinarsi alle esigenze della
produzione e dico grazie a Natalino Balasso a cui ho scippato l’espressione.
Quindi, “The Girl in the Spider’s Web” è a tutti gli effetti
un reboot della saga, un rilancio modesto, quasi timido direi, fatto per non
farlo notare a nessuno, anche se avere una nuova attrice nei panni di Lisbeth
Salander potrebbe far mangiare la foglia a molti, quindi partiamo proprio da
lei, la lanciatissima Claire Foy.

“Uhm, parla bene di me. Allora questo blog con le bare volante non lo oscuro. Per ora”.

Noomi Rapace era tostissima, androgina il giusto e pronta a
sporcarsi le mani con scene davvero toste (ogni riferimento a quel clamoroso
schiaffo in faccia intitolato “Daisy Diamond” film bello e tostissimo del 2007,
è puramente voluto), mentre Rooney Mara riusciva davvero a trasformarsi,
diventando molto convincente nei panni di un personaggio al limite dell’autistico,
Claire Foy è la prima attrice ad interpretare il personaggio, senza avere una
doppia “O” nel nome, il che è già un netto stacco con il passato.

Il suo personaggio parte in media res, nella prima scena
sentiamo un marito scusarsi perché è molto stressato in questo periodo, mentre
la macchina da presa ci mostra sua moglie che è stata gonfiata di botte prima,
probabilmente sui titoli di testa del film. Siamo al minuto uno e Fede Álvarez
ci conferma che per essere uno che arriva dagli Horror, in fondo è pudico,
quasi timido come questo reboot travestito.

Simbolismi raffinatissimi, presenta Fede Álvarez.

Ci pensa Lisbeth, angelo vendicatore (tanto che Fede Álvarez
ci mostra il personaggio davanti ad una statua con due grandi ali nere, grazie
Fede, questa da dove l’hai presa, dal manuale delle similitudini scontate?) a
fare giustizia, ma la trama si complica quando Mikael Blomkvist (Daniel
Craig
Sverrir Gudnason) è preoccupato per l’andazzo della sua testata
giornalistica “Millennium”, mentre Lisbeth viene contattata per recuperare
Firefall, un potente programma informatico capace di scatenare la fine del
mondo con il solito “Mambo Jumbo” informatico che tanto nessuno capisce, perché
ormai l’informatica al cinema equivale alla magia, basta dire “HACKER!” e
nessuno si fa più domande.

Claire Foy qui sfoggia un capello corto (direttamente da First Man) che la fa sembrare già pronta
per la biopic sulla vita di Dolores O’Riordan dei Cranberries (tanto dopo Bohemian rhapsody si aprirà la diga di questo tipo di film, poco, ma sicuro), eppure, qui
è davvero convincente anche se non ha nulla in mano per caratterizzare il suo
personaggio. Pensateci: sei un’attrice, devi recitar la parte di una hacker
gotica, omosessuale e incazzata con il mondo (e gli uomini), peccato che tutte
le caratteristiche chiave del personaggio siano state sviscerate nei quattro
film precedenti (tre originali e un remake), quindi alla Foy cosa resta? I
tatuaggi finti, i capelli strambi e vedi di farteli bastare. Un lavoro ingrato
da cui l’ex regina di The Crown cava
sangue da una rapa, dimostrando di poter dire la sua anche se non ha i muscoli di
Noomi Rapace, per me è promossa. Quindi, la sua striscia positiva di ottime
prove, con registi che mi stanno storicamente poco simpatici, è decisamente aperta.

Salvation, salvation, salvation is free (Cit.)

Sì, perché alla fine “Quello che non uccide” è più che altro
una spy story con Lisbeth al posto del Jason Bourne di turno, quindi mi sembra di sentire da qui il “Click” delle penne
riposte, oppure del tasto “Backspacer” delle tastiere, di tutti i recensori
veri (quelli pagati per scrivere di cinema, quindi più eminenti del cretino che
state leggendo) che si sono dovuti rimangiare tutti i paragrafi dedicati al
movimento #MeToo. Mi spiace ragazzi: lo sceneggiatore Steven Zaillian aveva
altri piani per questo film.

Passiamo subito alle critiche. Inserire una scena d’apertura
con la sorella di Lisbeth, Camilla Salander (Sylvia Hoeks) è un effetto
boomerang per il film, se avete la propensione per le storie di spionaggio,
capire dove andrà a parare la storia sarà fin troppo semplice, il che fa
perdere molta enfasi al film che, ovviamente, non può contare sull’effetto
sorpresa.
Ci sono anche dei passaggi di trama che ho trovato
abbastanza forzati e il personaggio di Edwin Neeham (Lakeith Stanfield, visto
in Death Note), l’hacker americano
passato a lavorare per l’agenzia NSA dopo essere stato beccato, fa una svolta
un pochino troppo repentina, ma mi pare abbastanza chiaro che il film potrebbe
far storcere il naso a tutti.

“Hey ti ho riconosciuto, sei quello che ha fatto Death Note!”, “No, no no ti sbagli, anzi guarda vado di fretta”.

Sì, perché per essere uno che arriva dagli Horror, Fede
Álvarez qui conferma la mia idea che ho su di lui: un timidino bravo a sfornare
il compito che gli viene chiesto, ma senza metterci davvero nulla di suo in
più. Se penso alla differenza di estro tra Álvarez e Tommy Wirkola, anche lui
passato ad un genere completamente diverso mantenendo, però, i suoi tratti distintivi, mi viene da pensare che
Sam Raimi abbia puntato sul cavallo sbagliato.

Bisogna dire che la regia resta valida, di certo Álvarez è
uno che sa dirigere questo non lo metto in dubbio nemmeno io sopporto poco la
sua idea di cinema, purtroppo per finire a dirigere un paio di inseguimenti
(lasciatemi l’icona aperta, che tra poco ci torno) e un dramma tra sorelle, Álvarez
fa un compitino che intrattiene, ma non strabilia, forse il meglio dalle singole
scene lo tira fuori più Claire Foy che il regista del film.
Anche perché per me gli inseguimenti (così chiudo quell’icona
aperta poco fa) sono il sale del cinema: se sai dirigere un bell’inseguimento, vuol
dire che sai il fatto tuo. Qui ne abbiamo uno tra Lisbeth in moto e alcune
macchine della polizia che si risolve in maniera spettacolare, con Lisbeth
rombando sul ghiaccio che, però, sembra più merito degli effetti speciali che
della regia di Álvarez, mentre il secondo, con Lisbeth in auto che taglia per i
pom, per i pim per i prati, viene castrato dalla sceneggiatura.

“Il primo che fa una battuta sulle donne al volante, gli svuoto il conto corrente e metto online le sue foto prese dal cloud”.

Va bene che, come dicevo prima, ogni trovata informatica in
troppi film è la degna sostituta della magia nelle storie, ma trovo altamente
improbabile che una Hacker, per quanto sia la migliore del mondo, con un APP sul
suo Smartphone possa invitare i passeggeri sull’auto che sta inseguendo ad
allacciarsi le cinture e successivamente a disattivare gli airbag anteriori.
Capisco semplificare per rendere le svolte tecnologiche comprensibili, ma qui
il confine tra informatica e magia ormai davvero non esiste più.

Quello che ho capito da questo film, è che la Svezia ha una
rete telefonica e una copertura di Wi-Fi paurosa, tutta la sparatoria finale
(che non vi descrivo, è abbastanza appassionate ne do atto ad Álvarez) si
basa sul fatto che la connessione Internet sia stabile e con una banda
larghissima, poi chiedetevi perché gli Svedesi hanno antieroi controversi al
passo con l’era digitale in cui viviamo come Lisbeth Salander, mentre noi
abbiamo ancora personaggi analogici come Don Matteo… Non funziona il Wi-Fi? Che
problema c’è? Vai in bici dalla persona con cui devi parlare, no? Sempre a “Spimpolare“
con sto telefono ai miei tempi non avevamo tutta questa roba!

“Questo è troppo Cassidy, ora ti cancello dalla faccia di Internet”.

Insomma, “Quello che non uccide” è una discreta spy story
che conferma quello che sapevo (in positivo) su Claire Foy e (in negativo) su Fede Álvarez, nemmeno questa volta mi è venuta voglia di affrontare i romanzi di Stieg
Larsson, però occhio! Viviamo in un mondo dove esiste una nuova tipologia di
reboot più infido, quello timido, ma d’altra parte è tutto riassunto nel titolo
nietzschiano, no? Quello che non uccide rende più forti e possiamo sopravvivere
anche a questo tipo di rilanci e alla timidezza di Fede Álvarez.

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